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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 7

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 13/11/2011 23:33:34

Anche lo scienziato fu colto, nei suoi anni, dal male della scrittura. Più che altro scriveva poesie con acute enfasi drammatiche, a volte aveva tentato di abbozzare racconti, ma l’ispirazione lo coglieva a periodi e tutta d’un colpo. A lui non gliene fregava niente. Viveva così, la scrittura lo interessava in maniera incredibile per un periodo e poi finiva l’interesse. Ero certo che non aveva mai conservato i suoi manoscritti.
Io e questi ragazzi passammo insieme la fine dell’infanzia e l’intera adolescenza. Come si fa con i veri amici. Avevamo sempre dei progetti, ma insieme quasi non si riusciva ad organizzare una giornata al mare. Ognuno era anarchico a modo suo, ma tutti eravamo talmente anarchici che neppure tra noi anarchici riuscivamo a combinare qualcosa di concreto. Le situazioni in cui ci trovavamo erano sempre stupide, cadevano verso il non-sense. Una volta passammo tutto il tempo a ridere del fatto che mi piaceva una canzone di Sergio Caputo. Cioè loro ridevano e a me si scartavetravano le palle perché non capivo che cosa ci fosse di male in Sergio Caputo. Ma loro si divertivano troppo: Flamingo, flamingo! Io mettevo il muso e loro si stendevano sulle panchine, tenendosi le pance.
L’ideale artistico era una pura astrazione che mi sconvolgeva la mente. Credevo che loro avessero la mia stessa malattia. Continuavo a tirarlo fuori prevedendo l’eternità per tutti, pensando che fossimo un’avanguardia letteraria di poeti e scrittori adolescenti, esaltato dall’ideale della strada e dalle eccitanti depravazioni che potevano nascere a batterla. Avevo una meta confusa che mi inebriava. Sognavo di visitare con i miei amici letterati i posti più malfamati della terra e coglierne l’eterna poesia, di scolpire il ventre delle puttane sul vergine marmo del tempo, di ondeggiare ubriaco delirando visionari versi trafitti dai conati. Sognavo di osare, di sfidare il mondo e di trasformarmi in una notte di lacrime. Ma non riuscivo a farli partecipi di questa visione. Attraverso la mia insana ispirazione io volevo vivere e godere della vita, ma mi sembrava che loro preferissero starsene solo a guardare. Non capivo il perché. A me le esperienze non bastavano mai, invece loro una sola se la facevano durare per mesi. Non avevo mai sospettato che non fossero le persone giuste per inquadrare il mondo in una prospettiva che avremmo potuto consegnare ai posteri. Come avevano fatto i poeti maledetti e quelli della beat generation prima di noi.
Iniziai a sospettare di aver preso il più grande abbaglio della mia vita nel periodo in cui dovevamo scegliere l’università in cui avremmo proseguito gli studi. Ci stavamo informando sulla Sapienza. A Roma c’erano tutti i corsi che potevano interessarci, era una città internazionale, si poteva avere qualsiasi genere di esperienza e sembrava il posto ideale per chi avesse fame di vita e di poesia come credevo che ne avessimo noi. E come ne avevo io.
Eravamo seduti, nel buio di una strada che dava su una terrazza pubblica, sui larghi gradini che compensavano la differenza d’altezza tra due livelli stradali.
- Beh, allora? – chiesi, accendendo una sigaretta. Grazie al periodo al liceo avevamo capito finalmente che non era vero che la scuola non serviva a niente. Serviva a incontrare i veri amici.
- Mmm… - mugugnò lo scrittore piccolo piccolo – io penso che andrò a Milano a studiare ingegneria aerospaziale – a volte si comportava da futurista, ma quella volta avevamo davvero pensato che stesse scherzando. Il fatto è che lui scherzava raramente.
- Scusa, ma perché a Milano? – chiesi. Aveva già tirato fuori l’idea di quell’assurdo corso e avevamo controllato sul sito della Sapienza – C’è anche a Roma.
- No. A Roma non c’è quel corso.
- C’è. Abbiamo visto sul sito.
- Non c’è – alzò un dito. Scherzava raramente, ma le cazzate, quando le diceva, le diceva con convinzione – E comunque è meglio a Milano.
- Ma perché dovrebbe essere…
- Lo sai che poi ci mettiamo a fare casino, perdiamo tempo, restiamo indietro con gli esami – attaccò. Il problema non era Roma o Milano. Il problema era il casino. Aveva scelto la via della reclusione cosmica. Accettammo la sua decisione.
- Io invece non credo di voler continuare gli studi. Non penso di essere portato – il rosso problematico aveva sempre un problema quando dovevamo fare qualcosa. Anche lui, come lo scrittore piccolo piccolo, aveva iniziato a dare segni di cedimento diversi giorni prima, prendendo a piazzare in mezzo ai discorsi questo genere di frasi. Era un suo atteggiamento tipico, ma solitamente si deprimeva su altre questioni, su cose più importanti, che sulla scuola. L’amico dall’aria vagamente giapponese si guardò attorno. Capì che toccava a lui. Non gli sembrava vero. Aveva creduto forse di essere l’unico a tirarsi fuori dal nostro progetto. Lui lo faceva puntualmente. Era così pigro che sulle prime preferiva addirittura dire sì, per toglierci dalle palle.
- Mio padre ha detto che è meglio se studio a Bari così può seguirmi meglio – fu quello che parlò con più fermezza. E la scelta non l’aveva neanche fatta lui – Ha detto che mi conviene iscrivermi a biologia. Al liceo andavo bene a biologia e chimica.
Terminai la mia sigaretta. Pensai di replicare qualcosa. Poi richiusi la bocca. Poi pensai che qualcosa dovevo dirla. Non mi sembrava giusto aver avuto dei progetti insieme e poi vederli morire così, senza neppure dire una parola. Ma non sapevo cosa dire. Poi qualcosa mi venne, ma non mi sembrò convincente.
- A Roma c’è il lavoro, ci sono delle possibilità. Potremmo mantenerci da soli – guardavo l’amico dall’aria vagamente giapponese. Non mi sembrava possibile che pur di non doversi inventare qualcosa e darsi da fare, fossero disposti a rinnegare la fantastica anteprima della vita che era stata l’adolescenza. Mi misi in piedi – E pure voi, che cazzo? Posso insegnarvi a fare i camerieri, il lavoro si trova. Ne troviamo uno ciascuno, studiamo, sondiamo la vita vera e vediamo di continuare…
E vediamo di continuare che cosa?
Seduti con le teste chinate a fumare davanti ai miei occhi, guardando ognuno in una direzione diversa, non mi sembravano proprio le persone con cui avevo condiviso grandi momenti. Tutti i miei pensieri furono scavalcati di colpo da un'unica rivelatrice serie di domande: che cosa volevo, io, da loro? Che cosa gli stavo chiedendo? E perché avevo pensato che sarebbero stati quel tanto incoscienti da abbandonare i patetici legami che li trattenevano ai nostri apatici futuri, per vivere una vera avventura? Avevamo visioni diverse. Spesso lo dimenticavo. Le cose migliori non si potevano fare insieme. Ma a volte continuavo a credere che fosse possibile.
L’amico dall’aria vagamente giapponese pensò che ci ero rimasto male. Eravamo tutti d’accordo su Roma, prima che ne parlassimo coi nostri genitori. Io, i miei, non avevo neanche dovuto convincerli e non potevano neppure darmi molto.
- Lo sai che ci volevo venire – disse. Poi si succhiò l’ultimo tiro della sigaretta, stringendo gli occhi – ma non posso - scosse lentamente la testa, senza dire più niente. Io portai la mia tra le mani. Mi rimisi a sedere.
- Che cazzo vi devo dire? – già, non sapevo proprio che dire. E neppure davvero cosa fare. Ma in quel momento capii che il primo glorioso atto della nostra vita insieme, messo in scena dall’adolescenza, non era stato solo il primo, ma tutto quello che sarebbe restato. Era tutto molto triste. Nessuno si sentiva abbastanza importante da capire che non stava rovinando soltanto la sua vita, ma anche la mia. O forse non gliene fregava molto. Ma non stava a me neppure dirlo.
- Fai quello che ti senti – mi dissi – ubriacati se vuoi farlo, suicidati, fatti le tue stupide esperienze se sono così importanti, ma fallo con te stesso. Non coinvolgere mai più nessun altro. Questa è la fine che faranno sempre le tue aspettative. Ti sembra una fine degna? A me non sembra.
Fu in questo modo, per queste vicende e con questi sentimenti che nacque, nella primavera prima dell’università, L’opera. Lì fu canzonato l’ideale artistico e rovesciata la visione mistica della strada che, da fonte di sublime saggezza intrisa a follia, divenne scenario di allestimenti demenziali per le più scellerate avventure di cinque stupidi. Accanto alla mia rivincita sui matematici del verbo, L’opera chiarì finalmente che cosa era stata la mia adolescenza: il periodo in cui avevo creduto a portata di mano sogni inaccessibili che, da un lato, potevano sembrare pura poesia, ma, a ben guardare, non erano altro che i deliri di menti incapaci.
In quell’anno in cui l’avevo steso, non avevo fatto altro che perdere tempo con un libro che nessuno avrebbe potuto definire interessante e che non avrei mai potuto osare proporre per una pubblicazione. Lo misi da parte con tutti i riguardi che si hanno con le cose preziose ma inutili e iniziai a spingermi oltre. Perso o non perso quel tempo, non c’era alcun problema perché tanto, considerando tutte le indecisioni su cui cominciava a prendere forma la mia nuova vita, che mi portarono a cambiare tre corsi di studi in tre mesi, non avevo avuto nient’altro di meglio da fare.

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