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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte10

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 16/11/2011 14:47:01


L’idea della sperimentazione mi tenne impegnato alla ricerca di nuovi stili inesplorati e di un perfezionamento delle capacità visionarie più che di una tecnica di scrittura. Abbandonato il tentativo di un qualsiasi schema sia in prosa che in versi, fui sempre più convinto che l’ispirazione fosse lo spirito guida da seguire e che prepararsi a coglierla fosse più importante che prepararsi a coglierla al meglio. Sembravano d’intralcio lo studio approfondito della grammatica e l’espansione del mio misero vocabolario al seguire la corrente mistica che mi investiva di volta in volta e mi presentava i personaggi e le situazioni in cui finivo per immergermi dimenticando completamente la realtà. Lo studio e il lavoro passavano velocemente come fossero compiti stupidi da portare a termine con il minimo impegno, dando di me stesso giusto la presenza e il minimo di applicazione, al punto che nei primi anni di università e di lavoro non riuscii a stringere alcun rapporto né a conquistarmi almeno le simpatie di qualcuno. Apparivo senza lasciare traccia e fuggendo via appena possibile per dedicarmi alle mie cose e al mio amore: la ragazza che amavo troppo assai.
Della realtà, oltre all’eco delle amicizie dell’adolescenza, alla mia famiglia e a pochi interessi come i fumetti, il calcio e i videogame, lei era l’unica cosa per cui valesse la pena di avere una vita sociale. Di uscire da casa, per dire. Intere mattinate al lavoro le passavo a pensare al suo corpo, nudo, su una brandina, profumato dai suoi quindici anni, mentre il sottofondo di Fly Away di Lenny Kravitz rimbalzava da un orecchio all’altro facendomi trasalire.
La mia bambina io l’avevo perduta, anni prima, quando eravamo piccoli e stavamo insieme per la prima volta. A me sembrava che non fosse innamorata di me, mi pareva troppo bella per esserlo ed ero convinto di averle piazzato in qualche modo una fregatura perché io non mi sentivo per niente bello come lei. Però stavamo insieme. Era alta, aveva i capelli castani lunghi e lisci e ogni suo gesto era elegante. Nessuno riusciva a capacitarsi di come potesse essersi messa con me, ma per primo non me ne capacitavo io. Per questo, per troppa grazia ricevuta, non la toccai mai neppure con un dito. Ci baciavamo solamente e me lo facevo bastare. Una volta mentre eravamo di fronte, da dentro la sua maglia sentii un suo seno che premeva contro il mio petto. Johnny si risvegliò e appena lei fu andata via, io lo picchiai severamente. Lei non era per me, eravamo fidanzati, ma non si sapeva come mai, non mi sembrava convinta e io non volevo essere inopportuno. Neppure nei miei pensieri. Johnny capì e non chiese mai che lei entrasse nelle fantasie erotiche per le masturbazioni selvagge.
Feci bene a non oltraggiarla perché cinque mesi dopo ci lasciammo e io, da brava persona, la riconsegnai al mondo intatta per chi avesse voluto lei. Non so se capì che bel regalo fosse. Ripresi le mie vecchie strade e una nuova convinzione. Avevo solo sedici anni, ma il cielo sgombro sul mio futuro: non avrei mai più voluto una donna. Una mia, intendo, una ragazza a cui dover comprare regali nel giorno del compleanno, a cui dover dire frasi dolci o con cui dover scegliere che vestito mettere per una festa. Non volevo una persona che si riversasse in pieno nella mia vita, che potesse un giorno prendersi il lusso di pensare di farmi ragionare, ma allo stesso tempo capivo di non meritare una bella ragazza con cui avere una storia pulita. Preferivo e mi si addicevano soltanto le puttane, brutte, porche, vogliose di cose immediate e selvagge, disattente al profumo del loro corpo e avare di sentimenti, avide di morsi e schiaffi e di cose perverse, di ubriacarci insieme e di vomitare negli angoli oscuri di fetide case malsane. La mia idea di amore corrispondeva più o meno a questo. Ma una parte della mia mente era sempre stata troppo cosciente e troppo onesta per permettermi di godere della mia depravazione e così, nell’anno in cui stetti lontano dalla mia ragazza, non riuscii a combinare molto, pur non mancando le occasioni. Un senso di purezza di fondo permaneva nella mia anima e non riuscivo a sacrificarlo per mettere finalmente piede nel lato perverso della vita. Mi lasciavo andare, ma mai completamente. Avevo il bisogno di staccare gli ormeggi, ma avevo paura di perdere qualcosa di irrimediabilmente importante. Rimasi vergine controvoglia e mi bestemmiai in tutte le lingue che conoscevo, per questo.
In soccorso venne, come spesso, nella mia vita, la penna, o meglio, la tastiera di un computer. Essa diede sfogo a tutte la mia voglia di perversione nella stesura di Una di quelle notti, mio primo libro. Fu forse il senso di libertà che respiravo rileggendo quelle pagine che mi convinse che potevo ancora aspettare a cercare la libertà estrema anche nella vita. Fu come un placebo. Ripresi la mia vita con una calma ascetica che non avevo mai avuto, frutto del nevrotico ossessionarmi con la smania di un rapporto completo, momentaneamente soddisfatto dalla stesura di un intero romanzo.
Mi ritrovai riverso sui divani della casa in cui usavamo ritrovarci con i vecchi amici, quelli della comitiva che io, lo scrittore piccolo piccolo, lo scienziato, l’amico dall’aria vagamente giapponese e il ragazzo rosso problematico avevamo lasciato quando io e la ragazza che amavo troppo assai avevamo litigato. Come tutti, c’era anche lei ed era inverno. E nonostante fosse inverno lei era sempre bella e vestiva con gonne corte e collant scuri e le sue gambe erano perfette. Qualcuno doveva averla fatta donna nel frattempo. E non ero stato io. Ero sempre distratto e spesso assonnato come si può essere dopo una notte di sesso estremo e prolungato e faticavo a riprendermi. Però ne volevo ancora. Sorridevo. Ne volevo ancora tanto. E le sue gambe erano sempre lì davanti ai miei occhi e lei cominciava a guardarmi e ravviarsi i capelli e dentro casa era sempre tutto offuscato da una luce soffusa. C’era un dualismo: avevo sofferto per lei, ma in fondo non me ne fregava niente. E poi ce n’era un altro: mi stavo innamorando di nuovo di lei, ma in fondo non me ne fregava niente. Qualunque cosa fosse, a me andava bene. Ma visto che era stata fatta donna, adesso non era più pura e io non avrei avuto problemi a usarla. Rientrava nei miei criteri.
La prima volta venne a salutarmi a mi baciò le labbra per sbaglio. Poi per sbaglio, visto che c’era, dischiuse la bocca e mi assaggiò. E poi mi disse – Basta! – allontanandomi, come se avessi fatto tutto io. Io pensai - Bene, è diventata proprio puttana e delle migliori: non sa di esserlo.
La seconda volta tutti i presenti nel locale si misero a gridare in coro che secondo loro avrei dovuto accompagnarla a casa. La accompagnai, non proprio a casa, ma lì vicino e, nel salutarla, ci baciammo ancora. Quel giorno aveva la tuta e sembrava meno puttana. Mi respinse pure. Poi disse – Non voglio tornare con te -. E neanch’io volevo tornare con lei, stavo pensando a qualcosa di diverso dalla prima volta.
La terza volta iniziammo a baciarci su un divano all’inizio della serata e finimmo distesi sullo stesso divano, io sopra e lei sotto. Lei aveva i jeans ed io non mi feci scrupoli. La toccai dappertutto: le tette piccole e morbide, il culo, la farfalla serrata dai jeans e dalle gambe chiuse, le labbra, il collo e vaffanculo, mi rifeci di tutti i mesi del nostro fidanzamento che erano iniziati con il mio primo vero bacio ed erano finiti che quella era stata la mia unica conquista. Quando lei andò via, quella sera, io ero diventato una voce bianca. Ci salutammo. Lei sembrava finalmente felice. Forse la prima volta le era mancato proprio il contatto fisico, ma aveva solo tredici anni, non me l’ero sentita. Appena voltò l’angolo mi strinsi le palle con tutte e due le mani e mi sedetti a terra a dondolare: mi facevano malissimo. Johnny era stato sveglio per più di due ore nello spasimante tentativo di distruggere le mie mutande, i miei jeans, i suoi jeans e le sue mutande. Era tutto bellissimo, così era più facile: niente fidanzamento e tappe bruciate come se il tempo ci avesse dato poco ancora da vivere.
Presto finimmo appartati in uno stanzino buio chiuso da una porta a vetri, per fortuna fumé. Le cose si fecero più intime: le baciai le tette da sotto la maglia. Lei diventava rossa e farfugliava, eccitata e imbarazzata. Sembrava ubriaca, ma era un effetto che le facevano i miei baci e le mie mani e il continuo sfrusciarsi del suo ventre velato dai collant e dalle mutandine contro la mia strumentazione foderata dai jeans. Ogni attimo diventava estremamente erotico, un momento in cui si fermava con le sue labbra a pochi centimetri dalle mie con le braccia lanciate oltre il collo, un ciuffo di capelli che le copriva gli occhi non permettendomi di capire cosa stava guardando. Sembrava proprio la stanza a praticarci questo effetto. Era qualcosa di sconvolgente, capace di destrutturare i miliardi di gigachilometri di spazio di cui era composto l’universo e di portarcelo nel nucleo tra il mio respiro e il suo. I pianeti assumevano la forma del suo culo, le stelle delle mie palle, nebulose coi capezzoli volteggiavano in galassie appena visibili dalla soglia di pelosi e iridescenti buchi neri che trasudavano fragranti perle di umori sconosciuti. Tutto questo senza un solo comprensibile motivo, ma soltanto perché io ero io e lei voleva me, chissà perché.
Una sera, nel rivestirsi timidamente su una sedia, ruppe il silenzio mistico in cui ero immerso.
- Sei vergine? – mi chiese. Pensai che fosse arrivato il momento in cui voleva confessare di aver già fatto l’amore.
- No – le risposi, mentendo perché non volevo essere da meno – E tu? – lo chiesi per non essere scortese.
- Sì, io sono vergine.
Per un attimo i pianeti e le nebulose furono scossi da un momentaneo eccesso del sottofondo universale. Poi ripresero le loro forme erotiche, irradiati da una nuova luce.
La parola chiave non era sesso, ma verginità. Non poteva essere. La sfumatura di significato comportava una scelta che avrebbe condizionato la mia vita quasi irrimediabilmente. Alla sicurezza di un puttanismo a cui poter partecipare per poi riprendere la mia strada, si sostituiva adesso l’incertezza di una verginità che avrebbe certamente richiesto serietà in cambio e la parte onesta della mia mente si mise all’erta per evitarmi qualunque mossa falsa. Per di più, all’uscita della casa, una sera in cui stava per andare via, lei mi aveva chiesto, quasi come fosse un’affermazione e una prerogativa imprescindibile per cui poter avere altri rapporti: - Noi due stiamo insieme? – e io le avevo risposto – Vabbe’.
E infine c’era l’amore che non potevo più tenere in silenzio, relegato in gabbia insieme ai demoni dell’infanzia, tra le cose peggiori che mi fosse mai capitato di incontrare. Non avevo mai trovato le fruste per dominare le paure e le passioni, ma le passioni avevano una conformazione diversa, non ero completamente sicuro che portassero solo problemi come le paure.
Per il momento pensai di concentrarmi solo sul sesso e di mettere da parte l’altra faccia della medaglia, ma la verginità, per quanto succulenta, divenne sempre più ingombrante. Era bella, ma arcigna, devota quando aveva desiderio e aggressiva quando non ne aveva e cercavi di stimolarla. Io mi innamorai di questo. Di qualcosa che si faceva desiderare ma anche odiare. Di qualcosa a cui potevi pensare per tutta una giornata, rincorrendo l’etereo ricordo di un profumo particolare, ma che poi non era detto che ti fosse concessa. Mi innamorai di una cosa strana e per questo non mi concessi di amarla in modo normale, ma di amarla troppo assai.

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