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Skizzando nel vento 2: La triste storia dei vomiti

di Stefano Saccinto
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Pubblicato il 30/07/2008 23:09:00

2
La triste storia dei vomitini a chiazze
(Devo sempre espormi ai rischi come un fesso, io)



OTTOBRE DEL PRIMO CASINO

Sapevo che non avrei capito neanche una cifra, quando avrebbero iniziato a spiegare matematica seriamente, ma nonostante tutto, tenacemente, mi ero messo a studiare e ripetere le stesse cose ogni pomeriggio cercando di farmele entrare di forza nella testa, mentre l’interferenza della sigla di Belle e Sebastien che mio fratello cantava a ripetizione riecheggiava nelle pareti vuote all’interno del cranio rimescolando simboli, numeri e formule.
Eppure lo stesso, alla prima interrogazione, verso metà ottobre, la professoressa Martielli mi aveva colto nella ferma e assurda convinzione di aver capito quella materia per la prima volta nella mia vita. Mi si disegnò sotto la vista una figura di merda celestiale perché d’improvviso tutte le formule che avevo tentato di imparare per tre settimane ininterrottamente, lasciando perdere del tutto persino la mia idea di scriverla, una canzone almeno, mi risultarono inutili quando cifre di espressioni chilometriche mi si pararono davanti agli occhi, increduli che le avesse scritte la mia mano, come traccia dell’esercizio da svolgere.
Abbassai la testa, le dissi che tutto quello che sapevo era che se in pericolo tu sei, Belle salva la tua vita.

Dopo l’interrogazione (praticamente aveva parlato solo la professoressa, invano, provando a farmi uscire qualcosa di bocca) tornai al mio posto in prima fila vicino a Luigi Corona.
Mi ero accorto in quel periodo che Corona non era proprio il criminale che credevo, ma peggio. Si era già preso due note per aver toccato un paio di ragazze ed una quasi sospensione per aver quasi alzato le mani sul professore di storia dell’arte che aveva un nome del cazzo, sì, però...
“Barra, ho parlato col tuo professore di matematica delle medie, è un mio caro amico” iniziò la professoressa “Mi ha detto che la matematica non la digerivi molto bene, perché hai scelto un liceo scientifico?” si piantò le nocche delle dita intrecciate sotto il mento. Non risposi neanche a quella domanda.
Il fatto è che io ce l’avevo messa davvero tutta a cercare di capire il significato delle sue spiegazioni e realmente non avevo smesso di studiare neanche quando la mia testa minacciava di andare a farsi fottere, dolente sul libro di algebra, forse se non ci si fossero messi di mezzo quei cazzo di cartoni animati…
Scossi la testa piano, serrando le labbra, tentai di dire qualcosa almeno stavolta, ma alla fine mi tenni il mio silenzio da demente che durò un’ora/due secondi, finché la professoressa, alzando le spalle, non chiamò qualcun altro a spiegarle le formule che lei stessa ci aveva insegnato.
Quel qualcuno fu una ragazza di nome Michela Traversa. Avevo il forte sospetto che fosse completamente deficiente dagli indizi che incessantemente disseminava nell’etere intervenendo con affermazioni e domande assurde in tutte le ore della giornata. Formulai che mi riservavo di indagare più approfonditamente sulla cosa.
Eppure la sua mano iniziò a scorrere velocemente sulla lavagna, lasciandoci numeri e lettere che non avrei mai immaginato, che non avrei mai compreso.
In cinque minuti tutte le tracce sulla lavagna erano belle e svolte, con una ortografia da amanuense ed un ordine di cui non sarebbe stato capace neppure un calcolatore. Non avrei mai visto la mia mano riuscire a scrivere le stesse cose.
Continuai ad osservarla mentre rispondeva a tutte le domande così come la professoressa gliele chiedeva, accalorato fino alla fronte, tanto che sentivo qualche linea di febbre salirmi su.
Mi sbottonai la camicia nera che indossavo sino al bottone più basso, poi me la sfilai di dosso e la poggiai sullo schienale della sedia in modo automatico, senza preoccuparmi di sistemarla.
A maniche corte la situazione non era migliorata un granché.
Mi infilai una penna tra le labbra e cercai di dimostrarmi almeno attento all’interrogazione, perché sembrassi sinceramente intenzionato ad incamerare anche la più piccola nozione matematica stillata da polvere di gesso e proferir di labbra.
La mia finta attenzione venne premiata, per fortuna.
“Allora, facciamo così, Barra: per questa volta considero la tua interrogazione come una verifica senza voto, ma la prossima volta che verrai alla lavagna non potrai permetterti lo stesso lusso. Ti consiglio di farti aiutare da qualcuno, se non riesci a studiare da solo, la matematica va capita fino in fondo, non è come le altre materie perché il libro da solo non può insegnarti ciò che non comprendi in classe. E poi scusa, potevi chiedermi di rispiegare la lezione, noi professori siamo pagati per questo”
Avrei voluto baciarla, ma promisi solamente, balbettando ed arrossendo, che avrei cercato di recuperare tutto ciò che non mi era chiaro lasciandomi aiutare da qualcuno, anche se sarebbe stata la prima volta nella mia vita, perché me l’ero sempre cavata da solo.
La prima ora passò così, con la prima dimostrazione di incapacità dell’anno.
Non ero stato interrogato da nessun professore e contando che tutte le materie riuscivo a comprenderle abbastanza velocemente, ero stato chiamato proprio dall’unica professoressa che non avrebbe dovuto farlo.
La seconda ora era di ginnastica, saltellare a destra e sinistra come un deficiente e flettere il mio busto toccando con le punte delle dita fino a terra non cancellò lo sconforto per quello che sarebbe stato il mio futuro in matematica, ma quando, dopo un quarto d’ora di esercizi, il professor Aniello ci gettò un pallone in mezzo al campo, mi accorsi che era arrivato il momento di sgomberare la mente da ogni pensiero.
Il calcio è il deterrente per qualsiasi genere di preoccupazione, sarà perché il senso è correre, superare un ostacolo, raggiungere il fondo, sarà per quella meta chiara che hai ben esposta davanti agli occhi, sarà per il fatto che quando giochi non sei Gabriele Barra, non sei uno studente, non sei un pidocchioso di quattordici anni che vuole solo farsi i cazzi suoi, sei uno che gioca e sei il modo in cui giochi e basta. E quando perdi, se perdi, non esiste nessun tipo di problema, non è successo niente, non devi preoccuparti di nessuna conseguenza, non devi farti complessi.
Dimenticai di essere Gabriele Barra e la mia squadra perse con la conferma di quelle che erano le mie asserzioni: non mi sarebbe successo niente di grave per questo.

Al rientro il corridoio pullulava di fanciulle in attesa che cominciasse la prossima ora di lezione.
Ne osservai un po’, riprendendo la mia ricerca, sapevo che in mezzo al mondo esisteva una donna che faceva al caso di ogni uomo, a dire il vero sapevo che ce ne fossero sette ma io avrei messo nel fondo cassa del resto della popolazione maschile le mie altre sei, pur di trovare quella che avrebbe saputo trasformarsi in musica. Riuscii a scovarne un paio da tenere in considerazione nel caso fosse tornato l’impellente bisogno di scrivere qualcosa. Magari ne avrei lasciate cinque, nel fondo cassa, no?
La prima era una ragazzina con un caschetto biondo che doveva avere la mia età, aveva un viso piuttosto semplice e lineamenti morbidi, però sembrava promettere molto come aspirante portatrice di belle emozioni.
La seconda ragazza aveva lunghi capelli ondulati e castani e un paio di occhi dal taglio orientale. Mi osservò passare senza smettere di chiacchierare con la compagna con cui se ne stava. Le ricambiai lo sguardo scoprendola arrossire e voltare la testa precipitosamente.
Raggiunsi il bagno per lavarmi la faccia, ma lo scorrere dell’acqua fresca sulla pelle era così piacevole che portai l’intera testa sotto il getto della fontana.
Restai così per qualche secondo. ‘Ragazza bionda!’ pensai ‘e ragazza con gli occhi orientali, quando l’acqua avrà trascinato via con sé l’immane stanchezza e questa tristezza spasmodica, via definitivamente, io vi cercherò e voi sarete le muse del nuovo approdo della musica melodica contemporanea!’
Poi smisi di sparare cazzate e me ne tornai in classe.
Mi lanciai sullo schienale della sediolina per scimmie sotto il banco e buttai la testa all’indietro chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era una bella doccia sotto cui ficcarmi aprendo al massimo l’acqua ghiacciata, restando immobile per ore ed ore, sentendo i giorni fuori passare e persino le settimane e poi le intere ere ed io sotto la cascata permanente mi sarei cristallizzato, la mia pelle sarebbe stata levigata fino a sembrare di pietra, di marmo, rassomigliandomi al David di…
...Sarah Moretti, in piedi dietro il suo banco dietro la mia sedia, che sorrideva mostrando una fila di denti bianchi dietro due labbra rosa e sottili. Vista al contrario, col mento al posto della fronte e con i capelli che sembravano barba, aveva subito una mutazione interessante.
“Cosa c’è?” le chiesi. Avevo riaperto gli occhi in quell’istante sentendo il suo dito bussare sulla mia fronte.
“Stai bagnando tutti i miei libri, idiota!”
Alzai di scatto la testa e mi voltai. Credevo realmente che stesse sorridendo, ma una volta che il mondo aveva riacquistato la sua giusta angolazione, le pupille, dal suo sguardo accigliato, mi squadrarono perdendo tutta la dolcezza che avevano avuto quando lei se ne stava a testa in giù.
“Scusa, non me ne ero accorto...” cercai di farmi perdonare, ma quella sbatté violentemente la sua sedia contro il banco e fermò le mani sui fianchi.
“Io... io non lo so! Cosa dovrei dire adesso a mia madre, io... me lo spieghi?” ed indicò il casino di pagine bagnate che avevo combinato.
La mia mente macinò un paio di pensieri affrettati che mi portarono a voltarmi verso il mio banco.
Quando osservai i miei libri, tutti di seconda mano e scarabocchiati come fossero stati schede per bambini d’asilo, scartai la possibilità di fare a cambio con i suoi (nuovi e tenuti nel tipico ordine delle ragazze per bene finché non ero arrivato io, naturalmente).
L’imbarazzo di trovarmi a dover fornire una giustificazione di fronte ad una persona che non conoscevo (e per di più una ragazza), mi fece schizzare così velocemente il sangue in faccia attraverso le vene, che in pochi secondi sentii i miei occhi desiderare di lacrimare per avere almeno un po’ di fresco umido.
“Mi dispiace davvero, io... ecco...” mi premetti il palmo della mano sulla tempia che mi pulsava al ritmo di musica tribale, osservai le vene sulle mie braccia gonfiarsi smisuratamente e venir fuori come scolpite in rilievo sul marmo, ripensai al David, me lo cancellai dalla testa in un fotogramma, non riuscivo più a reagire in alcun modo, in fondo non potevo rimproverarle niente.
“Potevi pure tenerteli sotto il banco, i tuoi libri del cazzo, no?” intervenne Corona in quel preciso istante.
Corona era un Dio della comunicazione diplomatica.
“Tu fatti i fatti tuoi, io li posso tenere dove voglio, i libri, hai capito? Finché restano nel mio spazio e si dà il caso che…” la ragazza si stava dilungando, forse non sapeva che il Dio della comunicazione diplomatica non avrebbe esitato a sfoderare presto le sue migliori qualità oratorie e mentre piccoli fiori di saggezza prendevano forma dalle labbra di Corona: “Ah sì? E allora vedi di ficcar...” gli strinsi una mano sul volto coprendogli la bocca.
“E’ colpa mia” dissi con lo sguardo su Luigi e poi mi voltai verso Moretti, improvvisamente sapevo cosa potevo dire “te li pago, i libri, così facciamo finta che non sia successo nulla” cercai anche di sorridere.
“No, senti... scusa” sbatté le palpebre, lei “volevo solo... dirti di stare più attento... la prossima volta”
Il professore di inglese entrò nella nostra aula seguito da mezza classe che stava fuori ad aspettare il suo arrivo. Poggiò la sua cartellina sulla cattedra e si diresse verso la porta per chiuderla. Poi sganciò uno dei bottoni della sua giacca e si mise comodo sulla sedia.
Corona si mise seduto nella sua classica posizione: un piede sotto il banco e dondolando sulla sua sedia che cigolava fra la sofferenza ed il rimpianto di culi più composti.
Il professore lo guardò un paio di volte, con lo sguardo minaccioso che assumeva ogni qualvolta puntasse gli occhi su di lui, infine, rassegnato, iniziò finalmente la lezione introducendo un nuovo argomento che avevo imparato un mucchio di tempo prima, alle scuole medie e prima ancora alle elementari, forse.
Non ero mai stato un genio in inglese, i miei voti oscillavano dal cinque al sei in prima e seconda media. Poi un giorno di maggio era sceso quaggiù un mio cugino tedesco e l’avevo tenuto con me per due settimane. Lui non parlava italiano, io non parlavo tedesco, ma entrambi conoscevamo quel po’ di inglese che ci permetteva di comunicare. A meno che non volessimo dirci soltanto cazzate, dovemmo ingegnarci abbastanza per poter avere una qualche discussione decente e grazie a questo il mio inglese migliorò di parecchio ed i miei voti rimasero comunque gli stessi.
Così, nonostante la tenacia di tutti gli insegnanti nell’essere sempre ingenerosi al momento di valutarmi, adesso almeno avrei potuto permettermi di non seguire le lezioni di inglese senza che ci fosse differenza nel mio rendimento.
Come al solito in quell’ora succedeva quasi di tutto tra i banchi della nostra classe e bastava porgere le orecchie per ascoltare dall’ultima fila bestemmie ed insulti riferiti in coro al professore e alle sue sorelle e non di meno anche ai compagni. In assolo, invece, c’era Cristiani col suo vizio di urlare stronzate in chissà quale idioma indigeno Neozelandese.
Con la coda dell’occhio mi accorsi di Corona che finalmente smetteva di dondolarsi sulla sedia.
Poggiò la fronte sullo spigolo del banco, piegandosi come se stesse male, poi fece un po’ indietro la sedia e tornò a poggiare la fronte sullo spigolo.
Lo guardai un po’ più attentamente e mi accorsi che gocce di saliva grosse quanto noccioline colavano dalle sue labbra fino al pavimento.
Dopo una decina di minuti aveva combinato un casino a terra: pezzettini di crackers che ogni tanto masticava e Pepsi schiumante che aveva sotto il banco.
Deglutii una dozzina di volte, trattenendo il vomito, cercando di ignorarlo e di interessarmi alla lezione e mi riuscì molto bene, almeno finché quello non prese a ridere sotto i baffi avendo notato il mio comportamento nei suoi confronti e nei confronti delle porcherie che stava combinando.
Voltò lentamente la testa verso di me senza alzarla dal banco. Aveva la faccia tutta rossa e una grossa linea violacea che gli trapassava la fronte per essere stato troppo tempo con la testa sul taglio del banco.
Rise con un angolo della bocca ed allora non potetti fare a meno di voltarmi nuovamente verso di lui e guardarlo negli occhi.
Una goccia di saliva si allungò dalle sue labbra e finì a terra macchiandogli il labbro inferiore fino al mento, tutto questo senza che smettesse di sorridere.
Mossi gli occhi verso il basso, schivai un conato tirando un soffio d’aria pazzesco e poi rialzai lo sguardo in direzione del lobotomizzato. Tornai ad osservare il professore.
Mi accorsi che Corona continuava a fissarmi come se fossi stato una bella ragazza e visto che non mi toglieva gli occhi di dosso, le mie gote si imporporarono nuovamente e sentii una vampata di calore salirmi fin dallo stomaco.
“E’ forte sputare a terra durante la lezione” sussurrò. Perché non provi anche tu?” lo sapevo, stavo giusto pensando che avesse qualcosa da dirmi.
“...il paradigma è lo schema principale da cui si ricavano tutti i...”
“Dàì, sputa pure tu” cominciò ad attaccarsi alle palle.
Che gusto c’è a sputare in terra durante le lezioni?
“...tempi composti dei verbi. Di solito l’inglese...”
“E’ dài, aiutami a fare i vomitini a chiazze sparse?”
“Sì, come la pelle del giaguaro!” che coglione, Corona. Signori, seguire una lezione può essere molto poco interessante, ma persino dormire è più gratificante che sputare. Invece fare i vomitini a chiazze è la cosa più demenziale che io abbia mai visto fare in una classe, dopo mangiarsi le caccole del naso, è chiaro. E per quanto a molti possa sembrare una leggenda, i miei occhi hanno visto le porte di Tannauser e via di seguito.
“...segue la regola del suffisso ‘ed’ per passato e participio...”
“Eddài, collabora un po’ con il mio senso artistico” il profeta dell’arte biodegradabile “Che cazzo hai paura di sputare a terra?”
Stava diventando insopportabile, senza contare che da quando aveva cominciato a sussurrare, il professore di inglese continuava a guardarmi come se io gli dessi corda.
“Vedi, devi fare così…” e sputava quel poco di saliva che gli era rimasta, poi beveva, se ne caricava un altro po’ e riprendeva “Hai paura di sputare!” sentenziò.
“Non ho paura…” cercai di giustificarmi mentre il professore tornava a guardarmi aggrottando la fronte per cercare di capire.
“Haipaurapaurapaurapaurapaura!” cantilenò prima che l’insegnante prendesse a gridare al nostro indirizzo e quindi zittì.
Ma durò solo finché quello non volse il capo dall’altra parte.
“Maseipropriouncoglionazzocagasottorottoinculochenonvuolesputare, eh?” tirò fuori tutto d’un fiato, avrei tanto voluto capire che cazzo gli girava nel cervello, se fosse o meno la Pepsi a fargli quell’effetto.
“Non ho paura, è che non ne vedo…” stavo cercando di spiegare quando un ruggito mi investi. Non propriamente un ruggito, era il mio nome urlato sulle vette più acute delle possibilità umane.
“Ora ti ho visto, ti ho visto che sei tu, pensavo che fosse Corona, invece sei tu che parli, sei tu che non la smetti” sì accanì l’insegnante puntandomi un dito contro come potesse con quello mitragliarmi.
“Non sono io che…” un secondo ruggito mi travolse mentre provavo a chiarire.
“E parli ancora e parli ancora?” e non dovevo parlare? “E allora adesso vediamo se parli ancora se ti metto un due, vediamo se parli ancora” prese registro e penna e lo aprì con una forza tale da quasi strapparlo.
Restai allibito, in piedi senza neanche essermi accorto di alzarmi. Farfugliai due parole, ma capii che non ne valeva la pena. Mi rimisi a sedere.
“Vicino a quello ti sei messo? Vicino a quello per fare casino? E io ti metto due!” un’esecuzione sommaria, in pratica.
“Non sono io che mi sono…” si alzò automaticamente il tono della mia voce, per scavalcare il suo. Anche stavolta il mio nome fu urlato con un vigore tale che mi parve di veder comporsi nell’aria le chiare lettere di Barra in netto Arial Bold.
“Adesso allora ti metto anche una nota disciplinare così vediamo se mi fai perdere ancora tempo…” ma che cazzo gli avevo fatto io, a questo? Non si poteva contrattare per niente, ogni mio tentativo di fare chiarezza mi portava una maggiorazione della pena.
Per la prima volta nella vita cominciai ad intendere che cosa significasse per davvero ira funesta: quel deficiente di Corona adesso non parlava più, mi ero preso un due per colpa sua e già era un bel casino. Il professore, da parte sua, non mitigava per niente, peggiorava la situazione, mi aveva messo un due perché avevo interrotto la lezione ed io che credevo che le valutazioni si dessero sulla conoscenza della disciplina, oltre a questo adesso stilava la sua nota… scrivendoci cosa?
Osservai la finestra aperta davanti ai miei occhi, il fatuo riflesso del mio viso rabbuiato, mi voltai verso il professore che, con la penna sotto il mento, cercava le parole, verso Corona che rideva, verso la classe ammutolita come si stesse decidendo il mio destino ultimo e l’ira funesta raggiunse la sua vetta.
Sputai contro il vetro con una forza tale da smuovere la finestra come un soffio di vento l’avesse accarezzata. Chiusi immediatamente gli occhi senza pensare a niente.
Poi, a dire il vero, una cosa la pensai e chiaramente anche: ‘Noooooooo’.
Avevo fatto una vera e propria cagata, non c’è che dire.




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