Pubblicato il 12/05/2008
Incipit.
In una notte fredda e piena di stelle sono scesa al fiume. I rumori della città piano piano hanno lasciato il posto al silenzio, rotto a tratti dalle voci dei ricordi di mille vite e dal gorgoglio dell’acqua che s’infrange sui piloni. Sotto al ponte, un viaggiatore insano mi ha raccontato una fiaba che parlava di Roma sparita. Era la storia dell’ultimo barcarolo romano e della sua barca che lentamente si è sciolta nel Tevere, come il ghiaccio nelle mattine di quest’inverno improvvisato. E sull’argine alto ho visto l’anello che la legava alla vita del suo barcarolo. Mai fede nunziale mi è sembrata più preziosa di quel pesante ed arrugginito cerchio. E le scale che portano al vecchio fiume mi sono sembrate la gradinata marmorea della più antica delle cattedrali e l’argine, sacro come l’altare soffuso d’incenso. Lì per lunghi anni si è consumata l’unione dell’uomo e la sua barca, lì il suo passionale amplesso con l’eternità che scorre da sempre nelle viscere del capo del mondo. Quella vera, fulgida e incorruttibile, rimarrà a raccontare ai figli che i padri hanno amato e ad essa ho lasciato appeso un tenero, accorato sospiro.
L’omo e er fiume
E l’omo guarda er fiume co’ rispetto però drentro a li denti tiene stretto l’amaro der ricordo e der dispetto. Rivole la sua barca ch’è affonnata quella ch’er Tevere Bojaccia ja magnata. E vole risentì quella chiaretta* che lo sferzava giù pe’ la scaletta. E vole rivedè li vorti dell’amichi dei barcaroli sotto li ponti antichi. Vole riprovà l’anzia dell’attesa e nelle mani risentì la presa: er pesce tira e guizza, come lotta ma lui nun je dà tregua e co’ ‘na botta tira la lenza e, doppo, co’ le mano lo butta drentro , ancora vivo e sano. Vole riannà a la foce a vedè er mare che ingoja er fiume e continuà a remare. Rivole er sogno della gioventù che se ne ita e nun ritorna più.
*Vento freddo
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