Gli ultimi due anni della mia vita, con estrema noia,
si son scoperti a colmarsi della conoscenza di grandi «poeti»,
nessuno di essi, strano caso, vanta il fatto d’esser nato in una mangiatoia:
meritano tutti una copertina, bianca, dell’Einaudi, con l’arroganza d’esser sommi sacerdoti.
Centinaia di dilettanti inconcludenti, distanti da ogni forma d’umiltà, col motto del «je rode»
uccidono anodini versetti, col veleno dell’inchiostro, come fossero re Erode,
tutti eccellenti, refrattari ad ogni critica, martirizzati sul monte degli Ulivi,
non concepiscono che l’unica nostra salvezza sia infilar loro sulle mani due preservativi,
e, anti-concezionalmente, risparmiare a tutti il torto
d’assistere ogni volta ad un aborto.
Scopro che, secondo Goethe, l’«ironia è il sentimento che si svincola dal distacco»:
ironia, eirôneía, madre di distopia e dissimulazione, resta la lancia di Don Chisciotte,
lancia in resta contro i mulini a vento, avvento dell’attesa dello scacco
contro chi inanella versi tarentini tanto sciapi da condannarci alle garrotte,
svela al cittadino bue come mai un disperato in bancarotta
sia arrivato a assassinare un magistrato e non una mignotta,
indica all’uomo della strada come versi senza neustico
siano in grado di liberare il male cronico di un mondo stitico.
Scopro di essere in balia di una scrittura a immagini tridimensionali
che costringerà tutti i lettori a cambiare in 3d le (tre) lenti dei loro occhiali,
segnalano a me, correttamente, ex magazziniere in blazer
che tra trecent’anni vincerà i mondiali la Svezia di Tranströmer,
che stiamo vivendo in contemporanea una decina di rivoluzioni copernicane
senza accorgersi che un millennio prima di Tranströmer c’era arrivato Alcmane.
[Cherchez la troika, 2016]
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