Perché continuiamo a scrivere,
travolti dal rischio di non esser chiari
ai nostri vicini di casa, all’amico,
alla merciaia dell’angolo,
mai sazi di vergar lettere
controcorrente, come arabi,
lontani dalla linearità delle bollette
della luce, dello scontrino del barbiere,
d’un conto del solito ristorante cinese?
L’arte non resuscita i morti
dalle camere ardenti, o forse sì,
non sottrae i malati dalle celle
delle cliniche, o forse sì,
non ci sottrae dai risultati in ribasso
delle borse, o forse sì,
non ci trova collocazione stabile
nel mondo del lavoro, o forse sì.
L’arte è memoria, viscida sfera di contatto
con morti, malati, borse, lavoro,
con essa versano inchiostro e affanni
intere generazioni d’homo sapiens
in cerca di un capro espiatorio,
nell’intenzione, tutta artistica, di dar fastidio ai vivi,
non lasciandoli dormire.
Scrivere è sonnifero a doppio taglio,
con cui radere al suolo chi vuol vendersi al dettaglio.
[Patroclo non deve morire, 2013]
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