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Il viandante e il bambino

Argomento: Poesia

di Paolo Ottaviani
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Pubblicato il 02/05/2014 16:09:56

IL VIANDANTE E IL BAMBINO

Ragionando su alcuni passi di Trinità dell’esodo di Eugenio De Signoribus

 

 

In interiore

 

il lungo grido nato

con l’inizio del tempo

 

lì connaturato e nutrito

da lì risalito e moltiplicato

 

il mai uguale nudo dolore

il mai uguale silenzio

 

la sua alfa generatrice

l’a del suo abbigliamento…

 

ah, se ciascuno vedesse

la propria lettera malata

 

e isolarla potesse

in uno sfinito sé!

 

o in un fuori straniarla

e rinunciare a quel suolo!...

 

così la restante parola

che è salva e salvante

 

potrebbe conoscere il corpo

che l’ha generata

 

e risanare ogni nome

e la mappa lacerata…

 

eppure lì, fissandone i confini,

e, nell’oltre, la caduta

 

lì, ascoltando il pulsare

sfuggente della lingua,

 

ancora sentirà l’erranza

della matrice tradita

 

ancora sentirà l’eco

d’una colpa nel buio

 

di nuovo annasperà in una scia

d’astro spento o dissolto!...

 

e lei, la parola rinata

nell’arca dell’alleanza

 

che potrebbe guardare in sé

il volto della sua terra

 

lei, a quella porta santa,

arriverà ripiegata

 

come una discordanza

o una smossa ferita

 

come ci fosse un dolo

prima della lettera

 

sola e intraducibile

nel primordiale universo

 

aperto per il vasto sempre

e, per ciascuna vita,

 

il sempre inizio

 

 

 

Questa straordinaria, coinvolgente sequenza di versi, ordinati in 22 distici e chiusi o, meglio, schiusi sul quinario finale - il sempre inizio - con il quale si potrebbe ricominciare la lettura della medesima sequenza poetica - In interiore - come un mantra vedico perennemente rigenerato e rigenerante – qui infatti si parla  dell’origine dell’uomo e dell’origine del tempo come un lungo grido di nudo dolore che lacera l’intero universo- costituisce la seconda delle tre direzioni lungo le quali corre la Rua, il soffio dello spirito. Suddiviso in tre grandi sezioni - Evo paterno, Cruna filiale e, appunto, Rua dello spirito - l’ultimo lavoro di Eugenio De Signoribus - Trinità dell’esodo, edito da Garzanti nel 2011, si pone su una linea di stringente continuità ma anche, sorprendentemente, di commovente novità rispetto all’ormai lungo cammino del poeta marchigiano. Un cammino quasi interamente raccolto nel volume, sempre edito da Garzanti, Poesie (1976-2007). Quel libro infatti si chiudeva con una lirica intitolata Congedo  e accennava ad una vigilia, quindi a una sorta di preparazione spirituale per un nuovo giorno di poesia. Come in ogni vigilia qualcosa è destinato a morire e qualcos’altro a nascere o a restare. E infatti in questo nuovo libro - Trinità dell’esodo - che ha già raccolto importanti riconoscimenti - nel 2012 il premio Brancati-Zafferana - continua a manifestarsi  “quell’incalzante e assiduo stato di stupore morale” che conduce il poeta ad una inesausta “ricerca di equilibri delicatissimi tra smascheramento, invettiva contenuta, strazio privato” come assai acutamente aveva già notato Giorgio Luzzi. Una ricerca sempre svolta nel segno di quell’intima eleganza e di quella naturale grazia che Eugenio De Signoribus, come per un dono celeste, sa trasferire dalla sua persona alla sua poesia. Eppure, dentro questo impeccabile, se pur assai arduo e complesso, nitore del pensiero e della parola si insinua una crepa che inesorabilmente si allarga fino a farci perdere ogni sia pur minimo orientamento. L’esodo non è verso la salvezza, ma verso l’ignoto più assoluto. La struttura stessa della triade, con tutti i possibili riferimenti alla trinità biblica, all’universo dantesco o alla filosofia hegeliana, sembra andare in frantumi e polverizzarsi. Molta letteratura contemporanea avverte con sempre maggiore consapevolezza che le recenti mutazioni intervenute nella natura e nei comportamenti dell’uomo hanno introdotto, nella nostra storia e nel nostro quotidiano, elementi di rottura così dirompenti da sfuggire ad ogni controllo e tali da impedire un rapporto fisiologico con il nostro passato. Da questa rottura consegue una inedita sottrazione di conoscenza, un oscuramento di qualsiasi razionale o emozionale comprensione del presente e l’impossibilità di progettare e perfino di intuire il futuro. L’esodo dell’uomo contemporaneo sembra dirigersi, secondo la parola poetica di De Signoribus, verso un anonimo “luogo senza contorni, come se un enorme scasso / di terra avesse ogni cosa rimosso e spianato”. Ma la geniale intuizione del poeta sta nell’aver reso protagonista di questa terribile diaspora non un popolo o una comunità, ma solo un inerme, stanco viandante che porta però in sé “il bambino che è, che sente dentro sé / il piombo della mortificazione”. Ed ecco come questo viandante ci viene presentato nell’eponima poesia:

 

Il viandante

 

il viandante delle interne strade

arriva a notte fonda ad una tenda

in fondo a una ruvida linguetta…

oltre, s’inciuffa un precipizio,

da un lato s’apre una fitta selva

e dall’altro s’accampa una valletta

 

(nella sua mappa, lì è segnato un punto

con nodi e corde,

abitato cioè da sorde bande

che ti lasciano un passo senza posa

e ti scortano sulla via ritrosa…)

 

egli è stanco e gli occhi si stropiccia

e con timore smiccia alla fessura

e intravede nel grembo una figura

e un’altra figura e una ancora

distese sull’unico mantile…

 

egli si siede, schiena sul cortile,

appiccia il suo viso sulla schiusa

e come tagliato da una scure

osserva il sonno altrui febbrile

 

Siamo ancora nella prima grande parte di questo libro-viaggio, nell’Evo paterno. Ma il viandante è destinato all’oltre, oltre la fine, oltre il dopo. E la seconda parte del libro infatti - Cruna filiale - ha per sottotitolo proprio quella indicazione - oltre il dopo - che, pur richiamando simultaneamente i concetti di spazio – oltre - e di tempo - dopo - in effetti li espunge entrambi. Siamo ormai nel regno dell’assoluto dolore. Una sorta di laica via crucis, segnata anch’essa da 14 stazioni, scandisce questa sezione del libro e alla tredicesima sosta, quella che dovrebbe richiamare la deposizione dalla croce, si leggono tre versi di nuda, infinita desolazione:

 

XIII

 

Il dolore è più vasto della neve che è sopra ogni cosa

e che poi si corrompe e s’annera.

Ma il dolore resta sopra ogni cosa. Regna.

 

Eppure, proprio da questo regno di primordiale dolore, improvvisi, quasi scanzonati, “con le mani in tasca”, si muovono bambini “solidali nel ripartire”. È una ripartenza verso l’utopia. Trinità dell’esodo infatti si chiude con questi versi:

 

ecco, utopia, nel quotidiano stento

il tuo volto nell’oltre mi traduce

 

in quel corso ogni vero ritraluce

prima del chiaro o prima che sia spento

 

 

 

 

 

 


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