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Esistenzialismo e Crepuscolarismo in Giuseppe Villaroel

Argomento: Letteratura

di Donatella Pezzino
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Pubblicato il 01/05/2023 08:57:58

La mia poesia è rimasta sospesa tra le esercitazioni dell’Ottocento e le arditezze del ‘900. Con questa breve ma felice espressione, Giuseppe Villaroel (1889-1965) riassumeva l’intera cifra del suo verseggiare. E infatti ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla sua scomparsa, l’autore catanese non si lascia etichettare facilmente. Già molto refrattario a qualsiasi tentativo di catalogazione entro gli schemi di un unico movimento culturale, questo intelletto sensibile e poliedrico (laureato in legge e in lettere fu, oltre che poeta e romanziere, anche insegnante, giornalista e critico letterario) si dimostrò sempre estraneo alle facciate, alle pose, alle avanguardie urlate o, come scrisse Luigi Tonelli, “alle seduzioni della volubile moda"; più incline a considerare la poesia un fatto intimo, un luogo dove ritrovare la propria autenticità, un rifugio dove riversarsi intero o rintracciare il senso ultimo dell’esperienza umana. L’ esserci dell’uomo, in particolare, fu un aspetto della vicenda universale che lo assorbì per tutta la vita e che impregnò la sua poesia fin dagli albori; più nascostamente nelle opere giovanili e via via in modo sempre meno sotterraneo negli scritti successivi, per poi emergere chiaramente nel periodo della piena maturità. Nella sua poesia, questo esistenzialismo si innesta nel tronco di un crepuscolarismo che c’è – innegabilmente – ma che molti critici si sono rifiutati di attribuirgli: manca infatti nel Villaroel quella vena ironica che costituisce uno dei tratti caratteristici della poesia crepuscolare. Tuttavia, anche ad un esame superficiale, il suo verso appare permeato fino al midollo di quella malinconia, di quella stanchezza, di quell’attenzione alle piccolezze che appartengono in toto alla sensibilità degli autori crepuscolari. In questo contesto, le reminiscenze della poesia classica e di quella ottocentesca intervengono a marcare ulteriormente la tendenza, già a lui congeniale, a stemperare in tonalità spente e autunnali la percezione della realtà. Lungi dall’essere un atteggiamento puramente intellettuale, questa crepuscolarità è una vera e propria attitudine che nasce dal suo profondo di uomo e di poeta e ne filtra l’intera visione del vissuto umano: basti pensare alla sua delicata e struggente descrizione del “vate” Rapisardi, così ritratto nell’opera Gente di ieri e di oggi:

 

Perché, diciamolo ad alta voce, Rapisardi fu di cuore sensibilissimo, generoso e indulgente. Ma, ironia della sorte, sembrò del tutto l'opposto. Sembrò gravido di rancore, selvatico e grossolano. Ed era, viceversa, un timido e un buono, cui spesso l'ira toglieva il senso della misura; più nelle parole, che nei fatti. E, se difetti egli ebbe, altri non furono che quelli di un eccessivo orgoglio e di un'ombrosa suscettibilità.

 

E più avanti:

 

Per fortuna del Rapisardi, quando la vitalità lirica del suo mondo interiore, superato il gravame delle costrizioni sociologiche, dialettiche e speculative, riuscì ad aver libero sbocco nel sentimento e nella fantasia, ecco il poeta ritrovar se stesso e consegnare al tempo, qua e là, nelle « Religiose », nei « Poemetti » (e persino in alcuni brani dei suoi pletorici poemi) un'arte durevole. È questo il Rapisardi elegiaco, desolato e scettico (ma di uno scetticismo che non si essicca e ripone fede nelle forze eterne e nel mistero della natura); è questo il Rapisardi nostalgico. Allora il poeta coincide con l'uomo; e i suoi tristi occhi stupiti interrogano la vita, le stelle, l'infinito. Allora le chiome lunghe si addicono alla sua grande solitudine spirituale e le parole combaciano col suo temperamento di trasognato amante della libertà e della giustizia umana.

 

D’altra parte, Villaroel non è del tutto scevro dalla vena ironica tipica dei crepuscolari: l’umorismo che manca al poeta, infatti, lo ritroviamo nel narratore (in particolare nel volume di racconti Via Etnea); ma sempre in modo delicato, sotteso, lieve come un velo di polvere che si posa sulle cose. Dai suoi versi, invece, ogni sorriso, anche amaro e disincantato, appare bandito, e il cuore è immerso in un continuo trascolorare nel quale la realtà esterna e gli stati d’animo si fanno specchio ed essenza l’uno dell’altra:

 

perchè mi trema dentro gli occhi il pianto delle cose che tornano

 

Crepuscolare è anche quel suo bisogno di compianto e di confessione nel quale vibra, di quando in quando, un anelito verso un non-luogo che è rifugio da una perenne insoddisfazione. Quello del Villaroel, in particolare, è il disagio di una solitudine fragile e sconfinata, che nella perdita dei valori e nell’alienazione delle città tentacolari vede amplificarsi il senso di precarietà della condizione umana:

 

Rettangolo giallo di case con le finestre aperte
e le tendine bianche che sventolano tutte al sole.
Il motore dell’officina vibra in un vasto ronzo.
Suore in mantelli neri passano timide e sole.

E nel meriggio morto, cinta di pioppi, inerte
la villa sonnecchia e la vasca si sbava viscida e verde.
Ma il Re di bronzo saluta sul grande cavallo di bronzo
scalpitate nell’azzurro lucido che si dilata e si perde.

 

Poesia di vasti silenzi, anche quando ad essere evocati sono suoni, rumori, colori. In primo piano sta il dolore, che secondo Villaroel è ciò che differenzia la poesia “vera” dalla ricerca di un’armonia meramente formale: “Le tue poesie “ scrive a Michele Rinaldi in una lettera del 18 aprile 1964 “ sono felicissime come costruzione, suono, immagini, abilità metrica, scorrevolezza, armonia; ma che dentro vi sia il tuo vero mondo, la tua sofferenza, il tuo esclusivo singolare modo di sentire, soffrire la vita, di amarla o disamarla, non si avverte o almeno a me non viene fuori; a me viene fuori il felicissimo creatore di suoni, immagini, versi, canti, l’uomo che si esalta del suo stesso comporre, che si commuove della sua voce; ma che soffra un dolore umano, che sia legato ad una necessità insopprimibile di sentimenti non mi risulta. Canti l’acqua e ne vien fuori un canto musicalmente fascinoso; ma non riesci a comunicare al lettore la tua emozione, non del canto ma del pensiero, non dell’immagine ma della fantasia, non dell’orecchio ma dell’anima.” E’ proprio questo il criterio che lo porta a disdegnare molti grandi poeti contemporanei e a preferire la spontaneità rustica e commovente del suo concittadino Giuseppe Nicolosi Scandurra. “Aveva delle inesperienze espressive” scrive infatti a proposito del poeta-contadino “delle incertezze di costrutto e il suo linguaggio non era tutto del vero dialetto letterario. Che importava! C’era, lì dentro, un lirismo di getto, una delicata tenerezza di sentimento vivo e profondo, un’immediatezza di fantasia e di forme che rivelavano il poeta di razza, il poeta fedele alla grande ispirazione di nostra madre terra.” A conferma dell’importanza fondamentale che il Villaroel attribuisce a questi valori, bisogna sottolineare che, nonostante l’indubbia raffinatezza d’impronta classica (evidente nella scelta del metro, ad esempio), la sua poesia si attiene sempre ad un lessico semplice e chiaro, lontano tanto dalle roboanti sperimentazioni avanguardiste quanto dai virtuosismi ricercati tipicamente “decadenti”. Eppure, nella sua fase giovanile, l’autore catanese aveva mostrato una certa propensione ai canoni dell’estetismo dannunziano, verso i quali lo spingevano soprattutto gli studi classici e la sua innata sensualità. Nel Villaroel più maturo, invece, questo formalismo lascia progressivamente il posto ad una sensibilità nuova, contrassegnata proprio dal rifiuto di ogni artificio che possa offuscare l’intimo travaglio umano; la poesia, quindi, come la vita, diventa tanto più autentica quanto più è sentita, o meglio sofferta. L’utilizzo di un verso lungo, in tal senso, risponde all’esigenza di non spezzare il flusso di coscienza: la metrica barbara - e in particolare l’alessandrino francese - offre al poeta lo strumento ideale con cui i suoi versi possono far “sentire”, appunto, quella coralità di voci interiori:

 

Ma io resterò nella notte per sentire le lacrime dell’ infinito
stillare dentro il mio cuore, ora che i grilli hanno levato il coro
in questa tristezza profonda fatta d’azzurro e d’oro
in cui si sfoglia morendo il rosaio tutto sfiorito.

 

Con la stessa crepuscolarità, l’amore non viene vissuto in una
sfera di possesso concreta e immanente, ma accarezzato, quasi vagheggiato, con la nostalgia di un ricordo o di un sogno irraggiungibile:

 

E il cuore t’ebbe per sempre senza averti mai

 

In questo sogno, il desiderio della donna trapassa da un’accesa carnalità tipicamente decadente (Ah resta così: non coprirti; quest’abbandono impudico/ha un acre sapore innocente di verginità primitiva/una sensuale dolcezza di casta ninfa boschiva/che si specchi sul fonte azzurro nel vasto silenzio aprico.) ad un distacco contemplativo quasi “stilnovista” nel quale la bellezza femminile viene colta e goduta quale riflesso dell’armonia del creato, diventando via d’accesso ad una sfera superiore, di liberazione e innalzamento dello spirito.

 

Si leva il vento e porta la tua voce
tra le foglie e i ricami della luna

 

“L'essenzialità della donna, in fondo “ scrive Franco Orlandini ” gli era pur sempre rimasta impenetrabile, sotto le forme così cangevoli ed enimmatiche in cui si presenta; e tale incomprensibilità ha indotto Villaroel a considerare le donne, anch'esse, come parte inesplicabile dell'universo arcano.” E questa stessa natura, spenti del tutto gli ardori della gioventù, si trasforma da idilliaco mondo di bellezza a specchio di inquietudine sul quale Villaroel trasferisce i propri fantasmi lirici; a sfondo, quindi, nel quale l’uomo consuma giorno dopo giorno l’angoscia del suo vivere.

 

Sole. Sole. Sole.

Un diluvio di sole per la vasta pianura arida che le stoppie disseccate ricoprono d’un lungo lenzuolo giallo.

Pare che la morte abbia alitato sul mondo il suo letale respiro, spegnendo ogni germoglio vegetale.

 

E ancora:

 

Sentire l’angoscia muta dei vasti giardini oscuri
che una stella malata riguarda con tenerezza suprema.

La notte così ci ravvolge con viscide braccia di bruma
e l’urlo dei treni c’insegue come il grido d’agonia
di un uomo assassinato a tradimento per via.

 

Ciò diventa tanto più manifesto negli scritti della maturità, e non a caso: è quella, infatti, la fase dell’esistenza nella quale i ricordi assumono una gravezza a tratti insostenibile riportando, insieme alla vividezza dei dolori passati, anche i vecchi interrogativi sul senso stesso dello stare al mondo. In tale contesto, il silenzio di Dio accentua fino al parossismo la condizione di isolamento che fa dell’uomo un punto piccolissimo e sperduto, non solo di fronte al resto dell’universo, ma anche rispetto agli altri esseri umani: qualsiasi legame appare illusorio, primo fra tutti l’amore, in ogni sua forma.

 

Oh! triste partire così taciturni e ignoti per un viaggio antico
senza un addio che ci lasci senza un sorriso che aspetti,
deporre come un bagaglio tutti i sogni e tutti gli affetti
e non trovare all’arrivo un solo volto amico.

 

L’uomo è condannato, irrimediabilmente, alla solitudine: a Villaroel, l’esperienza del suo tempo ha consegnato l’immagine di un incolmabile distacco tra essere umano ed essere umano e tra l’essere umano e Dio. Perfino il rapporto uomo-donna, lungi dal costituire l’incontro di due anime che decidono di percorrere insieme il cammino della vita, appare poi viziato, nei fatti, da mille ripicche, gelosie e miserie che ne svelano tutta la cruda inconsistenza. Come dall’intero creato, l’uomo è separato dalla donna in modo quasi ancestrale; lo si avverte da quella partecipazione di tutte le cose allo strazio di questa lontananza, che uomo e donna avvertono maggiormente nel momento in cui sono più vicini:

 

I tetti, ancora assonnati, hanno dei brividi azzurri.
I vetri, ancora chiusi, lacrimano di rugiada.
E i fanali, nel silenzio verdognolo della strada,
muoiono di malinconia, lentamente, ai primi sussurri.

Addio! Tu non rispondi. Addio! Mi guardi smarrita,
col tremore del pianto soffocato nella bocca aromàta di baci.

 

Questo farsi delle cose un tutt’uno con l’anima è reso con straordinarie pennellate d’effetto da un uso abbondante – e al tempo stesso abile - della sinestesia, come è particolarmente evidente in questi versi, contenuti nella raccolta Il cuore e l’assurdo:

 

E’ primavera. E’ primavera. E il mare
ha un riso azzurro e un brivido di seta.

 

Altrove, l’evocazione sinestetica villaroeliana assume forme più articolate, coinvolgendo simultaneamente sfere sensoriali diverse:

 

Deo gratias – Una campana triste come i rintocchi dei funerali
risponde nel vuoto freddo di quel silenzio lucido e bianco.
E un sole malato d’inverno agonizza pallido e stanco
dietro i grandi vetri opachi delle finestre ogivali.

 

Ancora una volta, il silenzio è al tempo stesso lo spazio nel quale l’anima si muove, mentre cerca inutilmente di afferrare e vivere le cose, e la sua irrevocabile condanna; quella dimensione che, mentre lo avvicina, lo isola dagli altri uomini e da Dio. Perché questo isolamento, questo silenzio, non implicano estraneità, né scaturiscono da essa; sono, al contrario, intrinsechi alla prossimità. Dio c’è, e fa sentire la sua presenza in ogni cosa; ma nega all’uomo la possibilità di un dialogo, privandolo dell’unica via d’uscita dalla sua solitudine esistenziale:

 

Dio è in noi, nella polvere, nel vento, nelle cose.
Tutto vede e osserva. Ma tace. Circola nel nostro sangue,
soffre il nostro tormento, è insonne nel nostro letto. Ma tace.
La sua vita è cosí: umile e illimitata. Condanna,
perdona, subisce, comanda. Ma tace. Scuote la terra, i mari.
Sospende gli astri nello spazio e trema nell' erba. Ma tace.
Il mistero è la sua forza. Il dolore è la sua legge. Atterrisce,
illumina. Ma tace.

 

Donatella Pezzino


Bibliografia

- Giuseppe Villaroel, La tavolozza e l'oboe. Liriche, Ferrara, A.Taddei e Figli Editori, 1920.
- Giuseppe Villaroel, Il cuore e l'assurdo, Milano, La Prora, 1933.
- Giuseppe Villaroel, Via Etnea, Milano, Ceschina, 1956.
- Giuseppe Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna, Ed.Cappelli, 1954.
- Giuseppe Villaroel, Quasi vento d'aprile, Milano, Mondadori, 1956.
- Giuseppe Nicolosi Scandurra, Natura e sintimentu. Con prefazione di Giuseppe Villaroel, Vincenzo Muglia Editore, Catania, 1922.
- Franco Orlandini, Giuseppe Villaroel e l'ombra delle cose, Articolo pubbl. su Incontri nr.9/2005 da www.literary.it
- La congiura del silenzio. Lettere di Michele Rinaldi e dei suoi corrispondenti (1960-1985), a cura di Bruno Rinaldi, Youcanprint, 2016.
- Sebastiano Catalano, Giuseppe Villaroel la vocazione del giornalista, articolo pubblicato su “La Sicilia” del 10 luglio 1985.
- Francesco Grisi, I crepuscolari, Newton Compton, 1995.
- Annali della Fondazione Ugo La Malfa. Storia e Politica, XXIV, Gangemi Editore, 2009.

 

 

 

 

 


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