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Maria Lenti, Segn e artaj/Segni e ritagli

Argomento: Poesia

di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 06/02/2025 11:18:59

Cara, e preziosa, la figura e la scrittura di Maria Lenti, saggista, scrittrice ed ex docente marchigiana ma soprattutto, ai nostri occhi, al nostro cuore, poetessa intelligente e raffinata le cui interrogazioni mai cessano di rimandarci dal fronte domestico e civile delle sue geografie pungoli di vita, e d'attenzione, da un moderno ingolfato, deriso e perciò sempre più bisognoso d'amore. Così è anche con quest'ultimo lavoro (2024) per la cura della Puntoacapo Editrice nella dovizia della bella nota introduttiva di Gualtiero De Santi cui dobbiamo a proposito della scrittura della Lenti il chiarimento della natura della lingua qui usata, un impasto tra dialetto d'Urbino (di cui Maria è figlia) e un italiano da lei lavorato nella misura di grandi e piccoli mondi. Più esattamente, sottolinea De Santi, "una combinazione o meglio una giunzione di italiano e dialetto accolti nella linea del verso e derivanti da quella che potremmo definire koine (..), appunto un incrocio ben ritmato e anche fantastico nel suo carattere di lingua ufficiale e frammenti di antico e volgar eloquio. Idioma poetico, l’urbinate, colto nel momento in cui sotto la lingua ufficiale rispunta il dialetto dal passato e dalla memoria". Che poi è ciò che, a proposito di memorie e ripropositate presenze, è ciò che esattamente risale da queste pagine, i luoghi della Lenti insieme ora i luoghi familiari dei cari e delle storie personali e quelli della storia più grande degli uomini che le vicende intime laddove toccate da ciò che le definiscono nelle aspirazioni non possono non imprimersi levando il grido anche nelle nostre.

Parlavamo all'inizio di geografie in interni ed esterni di spazi da cui nel ritrovo dei propri appunti confermarsi in quel sì al mondo che seppure nella fatica hanno nei ripetuti affacci, nelle ripetute discese il senso di una condivisa e partecipata aderenza. Finestre, diremmo, e non solo dalle sue, di Maria, dalla limpidezza del mare, a chiamarci, a trascinarci se il tempo è bello, e palazzoni che si vedono e non si vedono, da quel tavolo nel giorno che poi nell'appuntare si fa scuro, con "nom e cognom, la nascita e la mort" (con "nomi, cognomi, la nascita e la morte"). Sembrando dirci così che è la vita a scriverci, non noi, nella sapienza di un divenire cui noi possiamo, dobbiamo solo accompagnare, pure in quel solo giocandosi l'esatta misura di un'esistenza mai rimandabile se non se ne vuole la rovina. Così se come da proverbio "l’ann è lungh e i giorne èn fitti" ("l'anno è lungo e i giorni sono fitti") e il respiro tra consonanze e dissonanze sovente sembra mancare pure la preoccupazione di Maria, da sempre soprattutto etica, civile e morale partendo questa volta dai piccoli ritorni, semplici, intimi, familiari che fanno cari alla vita è nella sua riaffermazione laddove la radice è recisa, dove anche il naturale invecchiare si fa richiamo, per quegli uomini, e per quelle donne cui non il futuro ma il presente è negato. Urbino allora non si fa borgo chiuso, storia chiusa ma strada aperta a quel riapprendere in cui è tutto l'appassionato umanesimo di un sentire che ancora sa guardare ed apprendere se nell'apprendere è l'ispirata grazia dei ritrovamenti e degli incominciamenti.

Piccole o grandi lezioni di un quotidiano che può strattonare ovunque, come tra bancarelle ad esempio, al mercato dalle parole del giovane laureato nigeriano:“... per imparare l’altro/bisogna dimenticare ciò che si conosce”. O quel che si conosce ripensarlo, come l'amore in queste pagine così tanto riaffermato tra le pieghe dei ricordi e delle ossa, come le parole, di tutti i giorni e della poesia stessa cui la Lenti ben si avvede dai moniti di un tempo che va cancellando uomini e cose. Gaza, il conflitto tra Russia e Ucraina, la demagogia della informazione e della politica ma anche la deriva di una lingua, del dialetto stesso che non tiene più il passo già questo potrebbe bastare come risposta che dà a noi e a se stessa l'autrice al perché dopo aver appreso tanto dover poi partire per un viaggio che non si conosce. La morte, come la vita resta infatti una semina, smussata, resa, passata come un testimone, che non c'è eco ma riaffermato sguardo come quello che in questo libro risale dalla seconda splendida sezione in cui la Lenti traendo ispirazione da testi poetici di autori antichi e moderni (magistrale quella dalla catulliana "Odi et amo") reinterpretandoli in realtà va a reinterpretare tutti noi, e lei con noi, nel dominio di una nominazione che non avendo confini rompe le onde di un mare che non ha ultime spiagge. Ma abbandoni, come nella rivisitazione di Adonis, nel cui fragore la parola stessa (Aleixandre) può farsi bevanda di luce, spazio di labbra che nel ripetersi le generazioni fanno infinite.

Rima difficile, difficile illimite che pure non ha sorpresa se già in precedenza dai piccoli spazi del suo bussare, lo specchio, ancora, sempre, è quello dell'amato, corregionale, Leopardi:"dal terrass dalla finestra/molti arbusti di ginestra:/sent l'odor, vegh el color/.. Leopardi, el su bel fior"("dal terrazzo, dalla finestra/molti arbusti di ginestra:/sento l'odore, vedo il colore/...Leopardi, il suo bel fiore"). Nella vita che si accorcia la vita ci prolunga perché si incarna, indovinato ciclamino che dal davanzale dato rilkianamente indovina il suo colore. Freschissima, profumatissima Maria che in questo dono ci rinnova.




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