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Gli angoli del corpo poesie Edizioni Montag

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Comunicazione di Marino Santalucia
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Pubblicato il 15/03/2014 15:04:30


Se resisto al tramonto del corpo,
io tradisco

si apre con un incipit assiomatico, irrefutabile, la silloge poetica di Marino Santalucia. Una certezza, la sua, lasciare che il Tempo compia il suo corso, pena un’imperdonabile ubris, tracotanza estrema che comporta l’ineluttabile oblio dei solchi arati sulla terra, divenuti rughe del viso, delle rigature del “ tronco , adagiato sull’asfalto”, metamorfosi delle membra sfatte dal tempo, della quercia fiera, retta verticale delle vertebre ormai ripiegata su se stessa, dell’interezza di corpo che è divenuto altro da sé.
È già tutto in quest’apertura inconfutabile, memento in primis per se stesso, il canto apparentemente disperato che l’anima del Poeta, sgomento di fronte alla trasfigurazione di un corpo dalle adiacenze ormai slabbrate e dalle prossimità ormai sfibrate, dipanerà nell’ordito della raccolta.
Il verso accorato di un’anima che spietatamente quasi crudelmente, urla il non più riconoscersi, l’essersi ormai ineluttabilmente compiuto quel processo,quell’ attraversamento dell’equatore”, che si risolve nella somma schizofrenia tra una psiche consapevole e un corpo anarchico, tra uno spirito lucido e acuto e una materia sovversiva, fatta di membra, di ossa, di organi che in un atto di ribellione estrema hanno rinnegato l’appartenenza destinica, tradito inopinatamente la fiducia incondizionata in essi riposta violato il legame atavico di sangue e di carne, quell’ indissolubile congiunzione voluta dal caso, fin dal primo soffio vitale dell’essere.
Il corpo, le membra, i sieri, tolgono la maschera e svelano d’un tratto il ghigno dell’ inganno, colpevoli anch’essi, agli occhi del poeta, di un sommo atto di Ubris, la ribellione all’imperituro soffio vitale che consentiva loro di essere, animandoli, e grazie al quale la corruttibile materia si era fatta spirito vivente, sangue e carne di eternità.
L’autore, con un’ asprezza inclemente, urla l’improvvisa consapevolezza di un processo che, nonostante sia fatalmente connaturato al suo “essere”, lo sorprende in un istante, lo sbigottisce come uno schiaffo inaspettato, lo disorienta come un tradimento inaspettato.
La sua storia non è altro che “ una bocca tra due parentesi spinte, verso il basso” una mancanza impietosa di senso, un insignificante intervallo “ tra il me e il nulla”.
E sorge e cresce come una marea, snodandosi tra le poesie, il fantasma della scissione, il demone della schizofrenica percezione di sé. “Scompongo l’inquietudine su questo corpo, con l’anima tra i denti/ viaggio tra il coltello e la ferita incontrandomi per caso”. E ancora, “ I pezzi che ritrovo intorno a me discordano con i vuoti del corpo/ non riesco a calzarli”. C’è ormai solo un baratro incolmabile tra la mente e il corpo, dissezione assoluta dall’aspetto di una morena, le cui falde, divelte, si disconoscono “I pezzi che ritrovo intorno a me discordano con i vuoti del corpo, non riesco a calzarli e m’arresto sorpreso”.
Egli, ora, meramente ospita la sua stessa vita – irrimediabilmente altro da lui - così come il suo corpo. “ Su di me la vita si getta a picco dagli scogli, ospitandola come una sposa, stramba confusa verso il destino”. Guarda la materia del suo essere dal di fuori, dall’alto ( dove la sua anima si è involata in un processo di smaterializzazione), a distanze siderali: “ Visto dall’alto, il mio corpo somiglia ad un tronco, disteso sul mondo” e si compatisce, non è più che un residuo d’albero adagiato, senza vita. Un tronco che commuove, ma anche impietosisce “come non piangere attraversandoti, ora che sei quercia?”.
La disperazione cruda di questi versi, l’angoscia senza appello che monta e sale, si vela di compassione. Quiete e lente salgono lacrime amare alla vista di ciò che si è compiuto; alla consapevolezza di non aver compreso il momento in cui le membra, gli organi, la pelle, lo stesso sangue, hanno cominciato a ribellarsi, prendendosi gioco di colui che padrone di essi si credeva.
Si attenua sommessamente il sapore amaro del declino e uno sguardo di pietas sorge dalle ceneri. Il corpo che aveva tradito si fa albero, quercia, si compenetra con la madre terra, il tronco, simbolo possente di una natura fiera che è stata e permane.
E ancorché lo smarrimento del poeta “si protrae privo di ricordi in un contenitore vuoto”, “circola dentro una voce sconosciuta” il suo canto morto comincia ad albeggiare, a oriente, una soffusa luce, lontana, portatrice di intuizione.
Compare il mare, “le cicche di sale” straordinario contrasto tra la purezza selvaggia dei cristalli salmastri e i resti inutili di uno strumento di morte, volteggiano tra i versi petali bianchi, fiori che sì appaiono come parole morte, ma pur sempre fiori, giardini. I nodi sono “imboscati”, contaminati al fluido respiro della natura.
Tutto si trasfigura in evocative immagini della madre terra, una Demetra antica e viva che accoglie, nonostante tutto, i suoi figli esuli nel Cosmo. Tutto ad essa ritorna e tutto prende le sembianze dei sui frutti, la pelle diventa “ un arazzo” , schizzato di venature verdi delle arterie, non altro che linfa di foglie, screziato dallo scarlatto del sangue, che è terra, che è legno, che è vita.
Straordinari versi in cui la disperazione si trasfigura in estatica bellezza e lo sgomento si addolcisce nell’abbandono ai primordi della vita, a quell’essenziale che è il fondo e il centro del senso.
“In quell’istante/il mio corpo nasce per attraversarsi di nuovo” un bagliore, un miraggio, un dubbio, forse una certezza. Il chiedersi se, dopo lo sgomento che atterrisce, si possa intravedere, in lontananza, una luce, e nelle viscere della disperazione, l’occulta chiave di volta che squarcia le tenebre, fulminandole “i miei occhi bruciano fiamme assetate”.
C’è la vita nel fuoco e i suoi occhi bruciano. E bruciano perché sono assetate di ossigeno, di vita.
Non è una disfatta, né una sconfitta, questa orfica discesa agli inferi che Marino Santalucia ci disvela lentamente. Appare invece come un obbligato passaggio dal buio alla luce, dall’inconsapevolezza alla conoscenza, dalla cecità alla visione. Un viaggio iniziatico grazie al quale lo sprofondare fino al centro dell’angoscia, si mostra quale unico viatico di risalita ad astra .
Il corpo è chiamato “ Tempio”, “ La metamorfosi del corpo, è il disfacimento di un tempio/ dove il Re, piange sul ciglio del fiume”. E’ divinizzato, paradossalmente celebrato, è il tempio dello Spirito e il suo disfacimento, allora apparente, …. In tutto questo c’è qualcosa di naturale/ costante oserei dire”. Non una fatale corruzione, ma una metamorfosi, prima intravista, poi glorificata. “ Abbraccio tutto quello che mi circonda, briciole di mondi con lingue e denti differenti/ Generano suoni nuovi vibrando nell'aria, che attraversandomi provocano la vita”.
Questo suo corpo disfatto, condannato come sommo ingannatore, è il Tempio, il suo Tempio, e ancorché consumati dal tempo, i denti strenuamente abbracciano, in un atto di famelica vitalità, la totalità del mondo circostante e così anche le lingue, non più una, ma miriadi di fiamme, avide di vita.
Tutto si spiritualizza nella chiusura della raccolta, si placa il pianto accorato di chi dispera la fine dell’epoca d’oro, e la disperazione iniziale si sublima in un canto struggente quieto, in un perdono incondizionato e in un abbraccio assolutorio, dati dall’ acquisita consapevolezza di una pervasiva e onnipresente armonia che regola l’esistere “ respiro le ore infrante sugli scogli, trattenendo i cocci/ per restarvi impigliato come due amanti”.
Delle ore trascorse, non restano che schegge, cocci infranti sugli scogli, e il poeta è lì, un coccio tra i cocci, un frammento di nulla consumato dalle ore infrante, ma avvinghiato e felice in un ultimo abbraccio d’amore, con la vita andata, con i cocci che erano un tempo giare dorate, con le ore dissolte nel buio della notte, con l’eterno svolgersi della vita.
E non c’è più il tradimento; non più ubris; non più l’inganno. Tutto è svelato ormai perche “ Trascorso e odierno si liberano in ogni cosa/ non domani, ma ora/ io sono per sempre” ! E quel corpo, pur in frantumi, si svela scomposto in variazioni di infinito nella “ Luce esatta” nella sola , vera , unica Luce che gli è propria, quella di portatore di infinito e traghettatore di impalpabile spirito”.
Un inno alla vita la silloge di Marino Santalucia, un canto alla spiritualità più pura, al diamante lucente occultato nelle viscere di un corpo apparentemente transeunte e corruttibile, un corpo che è invece la nostra unica possibilità per percepire l’eterno e l’unico strumento concessoci per scioglierci, dissolvendoci , in un mondo senza tempo.
Un ritorno al paganesimo delle origini, al fondamento della spiritualità delle genti quando l’uomo era e si percepiva come una scintilla di un tutto che palpita, respira e, nel suo mutare, consente alla vita di rigenerarsi in un ciclo senza fine.

Una scintilla, quella di Marino Santalucia, della resurrezione che auspica D.H. Lawrens, nella sua Apocalisse, quando, parlando dell’uomo contemporaneo, dispera“ abbiamo smarrito il cosmo. Né il sole, né la luna riescono a comunicarci più la loro energia. In termini mistici: la luna si è offuscata per noi e il sole si è velato. Ora, è necessario per noi tornare al cosmo ……tutta la catena delle nostre capacità ricettive ormai atrofizzate deve essere ricondotta a vita. Sono occorsi duemila anni perché il processo di atrofizzazione fosse compiuto, chissà quanti ne serviranno per farlo resuscitare. ….Quando sento le persone lamentarsi della solitudine, so bene cosa è loro accaduto: hanno smarrito il Cosmo.”

Quel Cosmo che ritroviamo nella poesia “ paganesimo “ che chiude la raccolta e attraverso i quali ci inoltriamo nel Tempo eterno “ Informi dentro me/ prendono forma intarsi/ e cesellamenti/ Il corpo diventa musica primordiale/ Un antro che s’apre e lascia trapelare un mondo senza tempo”.

Antonella Catini Lucente

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