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La scimmia del prete

di Rosanna Varoli
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Pubblicato il 12/01/2012 16:14:54

LA SCIMMIA DEL PRETE

Era una giornata d’ottobre, di mattina tanto presto che ancora un’unghia di luna spuntava tra i nuvoli grassocci.
Sull’argine del Rio Grande – tranquilli, non è un western, niente buoni né cattivi né bum bum di pistole, qui è tutto sfumato e un po’ fanè… sapete, la fumara – sull’argine del Rio Grande che striscia proprio a ridosso della chiesa di San Pantaleone, piccola, giallina e pinnacoluta come una linaiola, si snodava uno strano, breve corteo.
“ Cò fal ancora col pret mat… ” si chiedeva la Gina, già in piedi da un pezzo per rimondare le vacche, osservando la scena dalla finestra della sua cucina, dove s’era rifugiata un momento per prepararsi un caffellatte.
Molto spesso col pret mat entrava e usciva, con la veste lunga e sventolante e gli occhiali cerchiati d’oro, dai discorsi accesi della Gina, di suo marito e di tutti i paesani che abitavano nelle case sparse come galline razzolanti attorno alla chiesetta intitolata quasi, più che a un santo, a una maschera della Commedia dell’Arte.
“Al ne gà miga voia d’lavorer… si scorda di dir messa… si può dare? A sarè cme se mi a m’scordès d'ander a monzer… po’ al formai cme s’fal ? ”
Questa era la prima, grave accusa che i parrocchiani muovevano a Don C.: di non aver voglia di lavorare, di dimenticarsi perfino di dir messa pur di stare a leggere e rileggere i suoi libroni. E, del resto, lui glielo aveva detto appena arrivato: io sono un professore, chiamatemi professore perché quello è il mio mestiere.
“ Che profesor e profesor… al pret al gà da fer… se voleva fare il professore al gheva da rester a scola…”
E lì era venuto fuori - glielo aveva riferito la maestra della scuola dove andavano tutti i loro figli, una mattina che era entrata al bar a bersi un caffè e li aveva sentiti fare questi discorsi - era venuto fuori che Don C., lui, a scuola, in città, e anche all’Università, ci sarebbe rimasto volentieri, eccome, che insegnava bene e gli studenti guai, ma che il Vescovo, un bel giorno, zac, l’aveva fatto levar via di lì come si fa levar via un dente che fa male.
“ Perché l’e mat, quello lì è matto, non ha mica tutti i suoi a casa…t’al dig mi…”
“ Ah, sì, i suoi a casa, poveretto, non ce li ha mica più davvero… son tutti morti, è solo… specialmente per la sorella più giovane, morta così male, ha patito molto…”
“ Sì, va ben, alora e par col lì che sta più insieme alle bestie che ai cristiani?…na roba da mat anche quella, sempre in mezzo alle bestie e un po’ ai ragass… e basta… e poi sui libri… mah ”.
L’altro motivo di grande meraviglia, l’altra fonte di critiche feroci da parte dei paesani era la costumanza davvero particolare di Don C. di accompagnarsi con animali domestici di ogni tipo e di trattarli amorevolmente, o di osservare quelli selvatici con un’attenzione incomprensibile per quei suoi detrattori, e perfino di parlarci. I ragazzi, i pescatori, i cacciatori del posto l’avevano sorpreso spesso seduto sul greto dell’Enza, con la tonaca tutta inzaccherata, fermo immobile, lo sguardo fisso in un punto, ad aspettare chissà cosa, a volte a fare strani versi di richiamo, un gran blocco di fogli e un lapis posati sulle lunghe gambe che s’indovinavano incrociate sotto la nera livrea da corvo.
A parlarci, quando ci si riusciva, si capiva che ne sapeva da sgarbati, e di tutto, ma le scienze, le scienze naturali erano la sua vera, grande passione, era quello il campo della sua ricerca, dei suoi studi, delle sue letture. Le bestie, le piante, la terra coi suoi tesori. Le pietre, i massi coi loro colori e le loro forme infinitamente varie, ma di una varietà che non si affidava soltanto al contrasto stridente, all’eclatante differenza, bensì alla leggera diversità di una sfumatura, al cambiamento per la lieve deviazione di una linea. Questo interessava a Don C., questo letteralmente lo ammaliava, lo dicevano spesso anche i ragazzi e, per la verità, loro, lo dicevano con bonomia “…è capace di star delle ore a guardare un giarone…”.
E l’aveva detto pure il Vescovo “… troppo terragno quel prete, troppo dentro alle cose che si toccano, che si vedono, che si fiutano… dove stanno l’atteggiamento e il messaggio della trascendenza, del divino, del celeste? No, non può essere un buon pastore di Santa Romana Chiesa…”
“ Don C. – gli aveva detto durante una delle tante burrascose reprimende che gli aveva inflitto – voi mi ricordate Giordano Bruno… avete presente vero?… e come no… immagino, immagino… mens insita omnibus, vero? Il principio creatore, il divino, il Dio è dentro alle cose, e magari corrisponde alla ragione, eh?… ed è solo con la ragione umana che possiamo conoscere la realtà e il perché delle cose, vero? La fede non serve, solo la scienza eh? L’amore per la conoscenza e la ragione, non esiste altro… e come pensate di tirarceli su questi ragazzi… vi rendete conto che ne state facendo degli atei? ”
Lui, Don C., ogni volta tornava in canonica e continuava a fare come aveva sempre fatto. Ai ragazzi piaceva, anche per via di tutte quelle storie vere di bestie che sapeva raccontare così bene. E li faceva pure ridere.
Poi, un giorno, aveva portato a casa una scimmietta. Veramente, non è da dire che il suo bestiario domestico fosse sguarnito, anzi. Aveva già Poldo, il cane che, a un suo cenno, aveva imparato a tornare alla canonica, staccare il cappello dall’appendiabito e portarglielo in caso di dimenticanza e di bisogno; Fufi, il gatto che faceva pipì nella tazza del water; la Cirì, una capra petulante che più d’una volta aveva fatto il suo ingresso trionfale in chiesa durante la messa perché, spingendo con le corna, riusciva ad aprire la porticina che, dalla sacrestia, introduceva alla cappella dell’altare maggiore, e Cico, il pappagallo in grado di prodursi in ben più di un canto liturgico, con una particolare predilezione per “ Mira il tuo popolo, o bella signora…”
La nuova bestiola, grazie alle arti di un etologo tanto esperto e amorevole, si era ben presto ambientata, e la relazione fra i due si era andata rapidamente trasformando in una vera e propria amicizia. Marta, un piccolo cercopiteco, che Don C. aveva voluto chiamare come la sua sorellina morta annegata nel fontanile, pendeva letteralmente dalle sue labbra, lo adorava, sembrava lo ascoltasse e comprendesse tutto ciò che diceva. Gli stava perennemente poggiata su una spalla e non si rassegnava facilmente a scendere quando Don C. doveva cambiarsi d’abito e andare a dir messa. Da lassù, approfittava di ogni segno di croce per afferrargli la mano che toccava la fronte e baciarla o mordicchiarla per gioco, si permetteva di aggiustargli gli occhiali quando lo vedeva metter mano ai libri, gli muoveva tra i capelli quelle sue manine velocissime in una regolamentare spulciatura. Considerava Don C. una sua esclusiva proprietà, e quotidiane erano le sue sfuriate contro i poveri chierichetti che osavano avvicinarsi al suo prete per aiutarlo nella vestizione: soffiando e stridendo, si buttava loro addosso per morderli e graffiarli a sangue, per tirare orecchie e capelli… Solo l’intervento di Don C. riusciva a calmarla, ma non c’era messa che non fosse preceduta da una scenata di gelosia, e ogni volta qualche chierichetto serviva all’altare portando i segni della battaglia.
La Gina, quella mattina, si era posta quasi una domanda retorica: in realtà, le sarebbe bastato un minuto di riflessione in più per capire che cosa stesse succedendo sull’argine.
Era andata a finire che, la sera prima, dopo la messa delle sei, la Marta non s’era più vista. Don C., controllando con difficoltà l’ansia e il dispiacere, l’aveva cercata dappertutto, aiutato da alcuni ragazzini che l’amavano perché non ancora in età da fare i chierichetti.
Era già buio quando uno di loro, gridando e piangendo, aveva richiamato Don C. e gli altri proprio nel fienile della Gina.
La povera Marta, con la bocca aperta in un ghigno di disprezzo sguaiato, penzolava da una trave bassa, e sembrava, più che una scimmia, un coniglio nostrano appeso, pronto per essere scuoiato.
Lacrime silenziose, sgorgate da sotto gli occhiali, erano scivolate sulle guance di Don C. Con delicatezza l’aveva sciolta dal cappio e se l’era portata in canonica, poi era uscito e aveva confabulato brevemente con i bambini. Durante la serata, chi fosse passato vicino alla casa del prete, avrebbe potuto udire ripetuti ed energici colpi di martello.
Sull’argine del Rio Grande, quella mattina, sotto gli occhi della Gina, si stava dunque snodando il breve corteo funebre della Marta, con Don C. vestito dei regolari paramenti per le esequie dei defunti, il più grande dei ragazzini che reggeva una cassettina di legno chiaro con una croce in rilievo sul coperchio, e gli altri, compresi Poldo e la Cirì, che seguivano mesti. Cico era l’unico rimasto in canonica: a quell’ora, d’ottobre, per lui, c’era troppo freddo.

Venuto a conoscenza del rito funebre compiuto per la bestia, il Vescovo, zac, ancora una volta, aveva levato via Don C. da dove si trovava per trasferirlo altrove.
Dalla città alla campagna della bassa, dalla campagna della bassa alle colline azzurre e ricciute attorno a Collecchio: sembrava che l’alto prelato si preoccupasse almeno di dargli modo di conoscere e studiare ogni volta un ambiente diverso. Differente conformazione geologica, differenti pietre, massi, giaroni, diversa vegetazione e pure qualche variazione di bestiario… Per Don C., che tanto sapeva di non poter mettere radici e si era rassegnato all’idea, anche perché si considerava cittadino del mondo, con le radici vere, quelle biologiche, nella specie umana tutta, era stato un buon passaggio. Figuratevelo dunque rapito per il ritrovamento di un’ammonite nei calanchi, felicemente immobile a osservare i nidi in condominio delle nitticore sul greto del Taro, completamente immerso nel sonoro di Bosc ed Carega, tra caprioli e tassi, deliziosi laghetti e inebrianti profumi di timo serpillo, elleboro e violetta.
La sua Marta l’aveva dissotterrata, in gran segreto, dalla terra ghiaiosa sulle rive dell’Enza e, senza che nessuno sapesse nulla, aveva potuto riseppellirla nel piccolo cimitero che sorgeva dietro l’incantevole pieve romanica di cui era diventato prevosto suo malgrado. Si era perfino permesso di porre sul piccolo tumulo una bianca lapide con il nome, MARTA, e la data di nascita e di morte. Ai nuovi parrocchiani aveva raccontato che lì erano sepolte le spoglie della sua povera sorellina dopo la riesumazione e, poiché portò con sé nella tomba il segreto di questa piccola, struggente menzogna, mai i collecchiesi seppero che, accanto ai resti dei loro cari, giacevano in realtà quelli di una scimmietta bizzosa e innamorata.


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