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Terre maledette

di Giampiero Di Marco
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Pubblicato il 05/02/2012 13:36:46

Terre maledette

Una volta in quella casa ci abitava una famiglia di coloni.
Cacarovagna si era accosciato su una grossa pietra bianca accanto al fuoco acceso sull’aia, e mentre la cena lentamente cuoceva nel paiuolo messo sul treppiedi, andava ingollando grossi sorsi di vino da un fiasco che teneva sempre a portata di mano.
La giornata di lavoro era finita ed anche la padrona con il nipote che trascorreva le vacanze estive con lei al paese, insieme ai braccianti rimasti per le ultime faccende, venivano in circolo attorno al fuoco.
Adesso, alle parole dell’uomo, si voltavano a guardare nel buio crescente la sagoma nera del casolare mezzo diroccato e abbandonato, sopra il quale dietro la macchia di fichi d’India era appesa una luna piccola e rotonda.
Ero giovane allora quando i coloni presero in fitto il podere.
Prima di Garibaldi anche la Santella era proprietà della Chiesa, poi venne espropriata dallo stato e venduta, così continuava il vecchio gravemente.
Ma quello che l’aveva comperata non riusciva ad abitarci in questo posto maledetto, specie poi da quando i soldati avevano ammazzato un colono e la sua giovane sposa, appena sgravata, perché dicevano che aiutassero i briganti.
I piemontesi durante una perquisizione avevano trovato un fucile, quello che l’uomo si era portato dietro quando l’esercito di Franceschiello si era disciolto e lo usava per la caccia.
Ma i soldati non vollero sentire ragioni, o forse non le capivano neanche, perché parlavano un’altra lingua e lo avevano ammazzato come un cane davanti alla casa, lui e la moglie che proprio pochi giorni prima si era sgravata di un bambino che era morto subito dopo la nascita.
Mio padre me lo raccontava sempre, perché era venuto anche lui a vedere i due corpi stesi contro il muro della casa, coperti dalle mosche e mi diceva del petto gonfio della donna dal quale era uscito sangue e latte.
Per molto tempo nessuno volle affittare questo fondo, anche se la terra era buona ed il proprietario si lamentava che aveva fatto proprio un bell’affare a prendere le terre della Chiesa.
Niente, la gente preferiva morire di fame o emigrare in cerca di fortuna, piuttosto che venire a lavorare alla Santella.
Ma poi il tempo fece dimenticare tutte le vecchie storie.
Una famiglia prese in fitto la terra per pochi soldi, era tanto ormai che era abbandonata e se ne venne ad abitare nella casa.
Avevano un bambino ancora lattante.
Al mattino uscivano sui campi e la madre lasciava il piccolo nella casa disteso a dormire in una cesta appesa al gancio del soffitto di travi per paura che i topi glielo azzannassero.
La donna cercava di tenersi sempre ad una distanza tale da sentire il pianto del bambino per accorrere subito, ma quello non piangeva e se ne stava buono buono per tutta la mattina senza strepitare.
Ormai tutti erano interessati al racconto attorno a Cacarovagna che, magnanimo, faceva girare un po’ il fiasco ad asciugare il sudore nelle grosse maglie di lana degli uomini ed i brividi che il racconto metteva loro nelle ossa.
Un giorno torna dal campo sotto la mezza per preparare il pranzo e trova il piccolo immerso in un sonno profondo con gli occhietti infossati che non si svegliava nemmeno per succhiare il latte. E la cosa strana era che non stava nella culla, ma proprio in mezzo alla stanza, come se qualcuno l’avesse messo a terra appositamente.
Intanto la cena era pronta e la padrona cominciava a distribuire in giro, nelle gamelle di latta che gli uomini portavano con se, ricordo della vita militare, i fagioli cotti con un gambo di sedano, diversi peperoncini rossi e qualche pomodoro di quelli piccoli e tondi, di secca un po’ asprigni al sapore.
Sul fondo della gamella venivano adagiate grosse fette di pane e sul tutto qualcuno provvedeva a spargere un buon dito d’olio d’oliva da un piccolo recipiente di rame con un beccuccio.
E poi?
La voce del ragazzo usciva tremolante nella domanda, mentre nel buio che si faceva sempre più cupo si accostava al corpo grande e caldo della zia, quasi a volersi nascondere sotto le sue sottane, per stare al sicuro ma al tempo stesso curioso di sentire il seguito della storia.
E poi, e poi…. Cacarovagna continuava, mangiando e bevendo mentre tutti gli sguardi degli altri passavano dal fondo della scodella su di lui, da quel giorno il bambino cominciò a deperire, a deperire. Non c’era verso di farlo mangiare, niente. Non voleva più allattare.
La madre disperata non si staccava un minuto da lui durante il giorno, ma il giorno il bambino dormiva sempre profondamente.
Finchè una vecchia comare la consigliò di far chiamare ‘zì ‘nTonio il vecchio magaro che abitava vicino al fiume dopo la scafa di Mortola.
E venne il vecchio.
Io me lo ricordo ancora, ero piccolo, ma questi fatti che racconto, li dovete credere perché ne sono stato testimone io stesso, con questi occhi.
Cacarovagna girava attorno lo sguardo quasi a volersi sincerare che qualcuno potesse mettere in dubbio quello che diceva, ma nessuno se la sentiva di contraddirlo.
Tutti erano presi dalla magia del racconto.
Continua ‘stu cunto, Giuva’! Esclamò uno dei braccianti, il più interessato di tutti, mentre scolava il fondo del fiasco per darsi coraggio.
Il magaro venne, era lungo e magro, nero come la pece e l’inferno, con tutto il suo armamentario per gli scongiuri.
Ascoltò tutta la faccenda dalla bocca della povera madre.
Poi seduto accanto al camino raccontò l’antica storia della casa.
Nunziata la donna ammazzata, la moglie del colono, era figlia di una strega, lui lo sapeva.
Ed era lei che tornava nella casa dove aveva abitato e dove aveva trovato una fine orribile e Nunziata dava a succhiare il latte delle sue mammelle al bambino, quelle mammelle che non avevano potuto saziare il suo piccino morto.
Per salvare questo bambino dall’influenza della strega bisognava fare in modo che Nunziata non potesse più avvicinarsi.
Allora il vecchio confezionò con le sue mani un abitino contro il malocchio, avvolgendo in un sacchetto una figurina di S. Antonio nemico del demonio e due foglie di erba ‘nnammuratella che era andato a cogliere sotto la macchia di fichi d’India dietro la casa. Cavò dalla tasca del pantalone un sacchettino che conteneva della cenere che lui stesso aveva preparato bruciando in una tegola della chiesa vecchia di monte Ofelio, nella giornata dell'8 dicembre, il giorno della Madonna, tredici foglie di ulivo e tredici foglie di palma benedetti che lui aveva conservato dalla domenica delle Palme.
Legò l’abitino al collo del bambino addormentato e recitò una preghiera, mentre gli segnava la croce sulla fronte.
Ebbene voi non ci crederete, lo so, ma io vi dico che il bambino vomitò una grande quantità di latte verdastro dalla bocca e subito si sentì meglio.
Era il latte della strega, quello.
Non lasciarlo mai solo-, disse alla madre, portalo con te sui campi e di sera, appendi questo sacchetto di sabbia dietro la porta, così se viene Nunziata, si mette a contare i granelli di sabbia e passa la notte e appena spunta il giorno le streghe debbono fuggire.
Il racconto era finito, ma la compagnia accanto al fuoco indugiava ancora, quasi che preferisse rimanere piuttosto che affrontare il viaggio di ritorno verso casa, per la strada che attraversava il bosco.
Fu la padrona che iniziò allora a raccontare.
Una sera come questa mio padre ritornava al paese dalla campagna. Vide un uomo camminare davanti a se, tutto intabarrato nel mantello a ruota nero.
Il padre non aveva paura di nulla, era stato in Brasile emigrante da giovane e poi negli Stati Uniti e ne aveva viste e vissute di tutti generi, ma il fatto che gli accadde quella sera gli rimase impresso talmente che lo raccontava sempre.
Vide quell’uomo che faceva la stessa strada e pensò di raggiungerlo per fare un tratto insieme.
Aumentò il passo per raggiungerlo, ma niente, lui aumentava il passo e quello aumentava anche lui e non riusciva a raggiungerlo, gli diede la voce, ma quello non rispose, non si girò neanche.
Camminava davanti a lui, ad una curva di distanza, sui tornanti di monte Ofelio, finché all’altezza della Chiesa vecchia tutt’a un tratto sparì.
Il nipote non era riuscito neanche a finire la sua cena per l’orrore del racconto precedente e a questa sortita della zia non riusciva a capire come potesse la donna raccontare certe storie, quando sapeva che dovevano passare proprio per quella strada, nel bosco fino alla chiesa per tornare verso casa.
Gli adulti sono incomprensibili per i ragazzi.
Non sapeva che la donna aveva più paura di lui e che parlava per darsi coraggio, come fanno spesso gli adulti che alzano la voce, quando si sentono a disagio e in difficoltà.
Finalmente la compagnia si apprestò a fare ritorno a casa.
Domani bisogna raccogliere i fagioli, mi servono ancora dieci braccianti, disse la donna a Cacarovagna, chiama gli stessi dell’anno scorso mi raccomando.
Sceglieva sempre gli stessi, la donna, che a suo dire erano i più fedeli, quelli che lavoravano sodo, senza rubare al padrone che gli dava da campare.
Era Cacarovagna il soprastante che dava loro la voce la sera, avvertendoli e quelli all’alba aspettavano seduti sul bordo della strada all’ingresso del fondo, con gli arnesi a tracolla ed un fazzolettone a quadri nel quale portavano il loro pane giallo.
A volte erano in soprannumero e quelli scartati perché vecchi o malfidati se ne andavano verso altre proprietà in cerca di lavoro, mentre gli altri entravano nel fondo e si sparpagliavano per i campi.
Era notte inoltrata ormai quando la donna, inforcata come cavalcatura il vecchio asino di casa con davanti a se il ragazzo, mosse il passo del ritorno.
La mulattiera che portava al paese costeggiava con tutta una serie di tornanti una collina verde che sorgeva nelle immediate vicinanze del borgo.
Il sentiero passava attraverso una folta vegetazione di castagni che stillavano tutta l’umidità della notte.
La strada era buia ormai tra gli alberi e la luna appariva solo a tratti ad illuminare uno scosceso sentiero, reso ripido e malsicuro dal dilavamento delle acque piovane, ma sul quale il vecchio asino si muoveva con sicurezza.
Il ragazzo in silenzio ripercorreva col ricordo le storie che aveva ascoltato e chiudeva gli occhi nel timore di trovarsi davanti l’uomo nero.
La strada non finiva mai.
Un urlo di un uccello notturno che svolazzava all’improvviso tra i rami, una volpe che attraversava il sentiero fuggendo nel bosco, lo faceva sobbalzare e rintanare sempre più sotto una specie di mantello che la donna si era buttato a tracolla.
Ecco il punto più pericoloso, l’arco sotto la chiesa vecchia e abbandonata con il campanile diroccato e la campanella che rintoccava ad ogni soffio di vento.
Antico ricovero di briganti si raccontava.
E di briganti uccisi si narrava, che ritornavano al loro antico covo per vegliare sui loro tesori sepolti chissà dove tra i boschi di castagni.
Passata la chiesa, la strada si allargava, diventava piana e più sicura, persino più illuminata, sgombra degli alberi che nascondevano la luna che ora risplendeva, chiara, proprio in direzione del paese.
Dopo la curva, ecco il paese addormentato nella notte chiara e, rassicurante, la sagoma fedele e tranquilla della torre medievale vicino casa.
Finalmente i pensieri ritornavano a fluire tranquilli e quasi a sfidare la paura provata, mille particolari venivano alla mente del ragazzo delle storie sentite, mille piccoli particolari incompresi, mille domande affioravano alle labbra.
Ma che era l’erba ‘nnammuratella, e lo scongiuro, che preghiera diceva il magaro, la conosci, zia?
E infine ma che gliene fregava alla strega di sapere quanti granelli di sabbia c’erano nel sacchetto?




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