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Il purgatorio secondo Pino Benelli

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 30/09/2013 20:15:08

IL PURGATORIO

 

SECONDO PINO BENELLI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SALVATORE SOLINAS

 

 

 

 

 

 

 

Era seduto in seconda fila, quella riservata ai dipendenti del luogo, nella prima invece i posti erano destinati ai grossi papaveri, i posti rimanenti erano occupati dai dipendenti delle sedi periferiche che erano di gran lunga i più numerosi. Sul palco il mega direttore galattico, il suo vice e lui, il nuovo acquisto arrivato fresco fresco dagli Stati Uniti, il guru della finanza. Gli avevano dato un ingaggio che lui, Benelli, non avrebbe guadagnato tanto in tutta la sua esistenza, se le cose fossero andate così come stavano. Non doveva avere più di trenta anni: abito di lino bianco e maglietta girocollo nera, solo a lui era consentito quell’abbigliamento pseudo casual a rimarcare il puledro di razza. Sul megaschermo passavano fotografie di paesaggi, diagrammi su diagrammi di titoli azionari che salivano, scendevano, si appiattivano. Ma Benelli aveva occhi solo per quell’abito bianco che brillava come una stella alla fiocca luce dello schermo. Tre anni e io pure sarò così, sarò su quel palco se non commetto errori…e non sbaglierò! Dopo due mesi di praticantato allo sportello, gli avevano assegnato un ufficio dove riceveva coloro che domandavano un prestito. Gli avevano raccomandato di stare attento, di valutare se il soggetto era in grado di restituire la somma con gli interessi. Aveva stabilito un metodo che funzionava abbastanza bene e, una volta pubblicato, tutti lo avrebbero conosciuto come il manuale Benelli. Esso consisteva nell’eseguire un attento esame dell’aspetto del richiedente per rilevare alcuni segni rivelatori delle sue possibilità economiche. Coloro che, per fare alcuni esempi dei casi più frequenti, puzzassero di aglio erano nullatenenti e quindi da scartare immediatamente. Valutare il vestito del soggetto: maniche un poco corte, giacca che tira nei bottoni o è troppo larga, sono indice che l’abito è stato preso a nolo. Se i gomiti sono lisi, si tratta di un vecchio vestito riadattato. I soggetti eccessivamente profumati vogliono mettersi in mostra, ma in realtà sono insicuri e inaffidabili. In quei due anni che aveva occupato l’ufficio, aveva negato il prestito a ogni tipo di essere umano che rientrasse in tali ed altri parametri. Una sola volta s’era sbagliato, ma era ancora nuovo del mestiere. Ricordava perfettamente quel contadino dalla pelle scura e grinzosa che gli aveva domandato un prestito per comprare il terreno del vicino. Lo avrebbe coltivato a mais, diceva. Portava in pegno il campo e la casa in cui abitava. Ricordava le sue mani cotte dal calore del sole, le unghie spesse e polverose. Gli era sembrato un affare sicuro, tanto più che la casa e il terreno coprivano abbondantemente la somma di denaro richiesta. Il raccolto dell’anno successivo andò male, il vecchio non pagò le rate dovute e la banca gli portò via tutto. Non sapeva che cosa ne era stato di lui e in realtà non gli era importato. Due giorni dopo Albertini lo convocò nel suo ufficio: “Caro Pino, hai sbagliato a concedere il prestito a quel vecchio” Si davano del tu, per un intero pomeriggio tutti i dipendenti erano stati nel salone di una baita di montagna a cantare mano nella mano canti degli alpini, dicevano per fraternizzare, che cazzata! “Devi stare più attento! Alla banca non interessano terreni, vecchie case e palazzi, non è il mercatino dell’usato! Vogliono che non si presti denaro a chi non lo restituirà. So che non è facile, ma confidano in uomini come te. I tuoi voti all’università ti fanno un tipo promettente, non rovinare la carriera con simili distrazioni” “Non accadrà un’altra volta, ti ringrazio Mario”.

 

La carriera, la carriera innanzi tutto, e giù croci sulla casella “Negato”, prestito negato. Proprio quando la stella s’era levata dallo scranno per parlare, un violento dolore gli trafisse il fegato estendendosi a tutto l’addome. Accidenti, proprio ora, pensò. Soffriva di stitichezza. Il medico gli disse che era lo stress da troppo lavoro e gli raccomandava di frequentare una palestra, di fare passeggiate, col bel tempo. Come avrebbe potuto lui, che entrava in ufficio alle otto del mattino per uscirne alle ventuno, che cenava sobriamente alla trattoria a cento metri da casa per poi sdraiarsi sul divano stordito dalla televisione, come avrebbe potuto trovare lo spazio per quei passatempi? Che la tisana del farmacista facesse effetto proprio allora gli pareva una scalogna terribile. Quando si accesero le luci e tutti si alzarono per un breve intervallo, egli corse alla toilette. Passata una prima porta di acciaio, sopra la parete di fronte c’era scritto a grandi lettere “Purgatorio”. Che stupidi, pensò, infastidito da si fatta volgarità. Entrato dalla porticina a fianco della scritta che portava sopra un tipo con i pantaloni, si trovò in una sala con cinque lavandini in fila, sormontati da un lungo specchio, e cinque box che parevano adatti più a un maneggio che a soddisfare i bisogni per i quali era accorso. Entrato in uno di essi si sedette con un lungo sospiro di sollievo. Pensava di potersi sgravare immediatamente e porre fine a quella situazione dolorosa, invece non accadde nulla di tutto ciò e il mal di pancia continuava a crescere fino a strappargli le lacrime. Aveva ecceduto nell’assumere quella maledetta tisana? Mai dare ascolto ai farmacisti, che cosa sanno loro? E se fosse un blocco intestinale? Mio Dio, avrebbe atteso ancora una decina di minuti e poi sarebbe corso all’ospedale. Avrebbe domandato aiuto a un collega.

 

I colleghi! Entravano con passo nervoso, lavavano le mani, qualcuno usava il box accanto. Udiva i loro passi, di alcuni riconosceva il confabulare nevrotico. Eppure loro non erano stitici. No, essi erano privi di sensibilità, di coscienza, dormivano sonni tranquilli di notte. Lui invece era ossessionato dall’idea della brillante carriera che gli spettava, che lo aspettava se non avesse commesso errori, se avesse letto correttamente in quei visi, tutti diversi e tutti uguali, la situazione patrimoniale, la serietà, le capacità. Visi sempliciotti, come semplici sono tutti gli esseri umani. Per non dire degli stratagemmi infantili: i più anziani gli davano del tu, come a lasciar intendere che poteva essere loro figlio: “Ho un ragazzo della tua età, ti assomiglia” esordivano col dire. I giovani, erano circa suoi coetanei, volevano mettere su un’impresa senza la minima competenza, volevano sposarsi, acquistare casa con un lavoro precario, senza speranza, addirittura disoccupati. Che follia! Uno di essi pretendeva di garantire il mutuo con una bicicletta da corsa, una Bianchi degli anni settanta. Gli aveva fatto tenerezza. A tutti diceva “Vedremo cosa si può fare” e mentre uscivano scarsamente speranzosi, poneva la fatidica croce sulla casella: non concesso. Tutti quei visi, quei sogni delusi, gli avevano tolto il sonno.

 

Questo male è la mia espiazione, pensò, ricordando la scritta all’ingresso del cesso: Purgatorio. Una fetida ventata si abbatté sul cavo bianco del water increspando l’acqua del fondo. “Ci siamo, forse è tempo che mi liberi. Ritornerò immediatamente in sala, saranno tutti seduti a tavola per la cena. La stella, abito di lino bianco, sarà seduto al tavolo dei dirigenti, e pensare che lui, Benelli, era seduto sulla tazza, solo con i suoi pensieri, i suoi rimorsi. Un guizzo di luce illuminò per un attimo la parete di fronte e in essa gli parve si materializzassero due occhi: due occhi miti lo guardavano con una fastidiosa compassione. Il dolore divenne così acuto che gli strappò un breve lamento. Meno male che la visita alla toelette era finita e c’era lui soltanto. Chi sa che cosa avevano pensato i colleghi di quel box perennemente occupato. Qualcuno avrà pur notato la sua assenza, possibile che nessuno abbia sospettato che fosse lì dentro, dietro quella porta con il cerchietto rosso attorno alla maniglia a significare che era occupato, forse ucciso da un malore improvviso.  Intanto quegli occhi lo osservavano senza curiosità e tuttavia fastidiosi. Comparve infine l’intero viso: era lui, l’imprenditore, ben riconoscibile, come solo la fotografia scattata dalla memoria poteva mostrarlo. Gli dispiaceva, aveva detto, non per se, ma per i suoi operai. Che ne sarebbe stato di loro? Figuriamoci, dicevano tutti così, poi si scoprivano tesoretti, collezioni di macchine di lusso, ville al mare e in montagna, imbarcazioni. Se veramente si fossero preoccupati degli operai, perché non investire i soldi nell’Azienda anziché in tali cazzate?  Mentre quello parlava, un’espressione da mite agnello sul viso, gli era venuto un moto d’impazienza, di rabbia, e si era ficcato la penna in bocca. Gli promise con una certa maligna soddisfazione che si sarebbe interessato personalmente, che avrebbe interceduto affinché l’Istituto gli concedesse il prestito. Mai provò soddisfazione più grande di apporre una croce ben calcata sulla casella: non concesso.

 

Forse fu allora che cominciò a soffrire di stitichezza, quel fastidioso disturbo che gli dava una sensazione di pienezza, che lo privava della voglia di mangiare, del gusto di vivere.  Era dimagrito, era divenuto nervoso, intollerante alle cose più banali come le luci a neon, i rumori del traffico. Le persone che parlavano a voce alta gli facevano orrore. Scattavano in lui dolorosi crampi muscolari e una fitta allo stomaco che gli procurava una sensazione di nausea. Alcuni mesi dopo, mentre passava per una strada del centro, vide un mendicante in ginocchio, il bicchiere di carta in mano e appeso al collo il solito cartello: ho fame, ho figli, e così via. Lui teneva in tasca, a portata di mano, una manciata di monetine da distribuire ai mendicanti. Era quello il solo modo di fraternizzare col prossimo. Meglio di nulla, si diceva. Come fu davanti al mendicante, questi pose gli occhi miti su di lui che, paralizzato dallo stupore, non ebbe la forza di distogliere i suoi né di estrarre dalla tasca la monetina. Quell’uomo era l’imprenditore che gli aveva domandato il prestito. Lo riconobbe senza ombra di dubbio, nonostante la barba incolta, l’aspetto trasandato dei vestiti. Era proprio lui. Continuò a camminare non avendo altro davanti agli occhi che quel viso che lo osservava senza rancore, lo stesso viso che si dipingeva ora nei riflessi di luce sulla parete. Aveva sbagliato! Quella volta aveva sbagliato, non dal punto di vista dello stramaledetto istituto bancario, ma dal punto di vista della sua coscienza. Un fiotto caldo e puzzolente si riversò sulla porcellana.

 

-Espiazione della colpa- Gli vennero in mente queste parole pronunziate dallo zio direttore del carcere circondariale:- Fino a completa espiazione della colpa-. Come d’incanto, il dolore si dileguò e un dolce torpore invase l’addome. Grazie a Dio era finita. Compiuti i lavacri di rito, ritornò nella sala dove i colleghi si aggiravano attorno ai tavoli del buffet. Tutti in abito nero, scarpe di vernice nera, calzini bianchi: marionette del teatrino della banca, pensò. I più anziani, i riveriti e temuti pezzi grossi, erano già seduti al tavolo della presidenza, con quella prosopopea di uomini importanti, attorniati dai camerieri. Erano le marionette più vecchie e tuttavia non era dato loro conoscere il burattinaio. Uscì dall’albergo: era una bella giornata di sole. Si tolse la giacca e mise in tasca la cravatta slacciandosi il colletto della camicia. In un negozio comperò un paio di scarpe da tennis che tenne indossate. S’incamminò sul lungo fiume. No, non sarò uno di loro, non m’importa la carriera. Lavorerò per godermi le giornate di sole come questa e soprattutto non sarò io a decidere dell’esistenza dei miei simili: “Sono libero, gli venne da gridare, viva la libertà!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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