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estratto da ’l’aura dei corpi introdotti’

di Alessandro Dantonio
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Pubblicato il 30/05/2015 23:10:37


Travature oleose spingevano in alto la pietra del tetto di una casupola immersa nel cuore del bosco, sepolta da faggi e querce, tra la sponda rovinosa del torrente e la spalla del monte che saliva su per sentieri tortuosi e un po’ intricati tra le piante e qualche inaspettata radura, e fino a dove poi, diradando del tutto, queste sparivano lasciando il posto alla distesa vellutata dei pascoli verdi della montagna più alta, che in cima si nascondeva in una nebbia fredda e grigia, un velo fitto e impenetrabile allo sguardo, ma che ogni tanto si squarciava all’improvviso e rivelava la vetta di scura roccia incastonata nel blu più profondo. Lui stava là sotto, e guardava i muri spessi di pietra, e li sentiva che lo schiacciavano a terra, li sentiva premere sui suoi occhi, e sul petto, e sulla schiena, e faceva fatica a respirare. Dovette sedersi un momento su una roccia lì accanto, e bagnarsi un poco la fronte con l’acqua gelida del ruscello, che rallentava in quel punto la sua corsa in una piccola ansa piò tranquilla al riparo di due grossi massi. Si bagnò ripetutamente la faccia, fino a che non si sentì meglio, e il suo respiro perse l’affanno e tornò regolare. La discriminante inoperosa sua mansuetudine delle ultime ore traspariva dai suoi occhi come l’opera infelice e tragica di un maniscalco che ferra gli zoccoli a un cavallo malfermo e troppo vecchio per correre ancora, la lucida vergogna di pensare così di sé la nascondeva dietro al sorriso spaesato che ogni tanto affiorava sul suo volto bloccato in un’espressione molle di contemplazione distaccata delle cose e dei luoghi. Era all’opera una costante disgregazione dell’essere e della sua anima più schietta, era in atto la dissolvenza dell’immagine stessa sua e dello spazio piano che occupava in quella statica proiezione dell’esistenza inadatta e incompleta. L’origine del male era il male stesso nella sua forma primitiva e minima, e ora era cresciuto dentro e fuori e occupava ogni spazio, come una metamorfosi quasi compiuta. Ma era l’amarezza che lo tormentava, e ancora quella fetta di lucidità che trafiggeva il suo cuore torturava la sua mente e creava la condizione terribile della battaglia, di una lotta intestina perduta ma perenne. Era una sorta di sacrificio umano perpetrato e perpetuo come una condanna eterna, anche se in apparenza lieve, era un purgatorio stravolgente e amaro. Si ridestò con trambusto dai suoi pensieri e da quel trapestio che faceva la sua figura infilata a forza dentro la stamberga appena visitata. Si accostò nuovamente alla parete pietrificata e maleodorante di rancida muffa e di sterco vecchio, e del marciume delle foglie degli anni accumulatesi a terra nella stanzona buia. Lo squarcio nel tetto malsicuro faceva pensare alle bombe e agli aerei che sganciavano le loro grevi forme senza costrutto, tutte in fila, una dietro l’altra in una metafisica stringa d’ordine e severità, tutto con tenerezza vile, con tenero candore e senso del dovere. Si era appoggiato alla pietra come ci si pone di fronte alle lapidi dei caduti in guerra, con quel senso di rispetto che appartiene ai posteri, e che ci lascia sempre un poco perplessi sulle ragioni dei padri e dei padri dei padri e degli avi tutti. Noi siamo nel presente ben più adatti a vivere, questo è certo. Più dappresso al sentimento umano dell’esistenza, lungi dal nostro ricordo il morbo dell’astio, della viltà e dell’onore mancati.
Si trascinò fuori passando lo sguardo triste e sfuggente per quello squarcio malcucito ancora per un ultima volta e si posò come un mantello sui mucchi dei ricci macilenti e delle campanule appassite ai lati del muro pietroso e scuro di fuliggine e di sporco. Le dita delle sue mani percorsero avanti e indietro più di una volta il profilo della pietra servita ad edificare la casa e le sue stanze, il suo vuoto intorno al posto, la sua difficoltà nel rendere felici l’uomo e la sua donna, e la loro progenie, e lo sventato che avrebbe ucciso anche pur di impossessarsi di ogni bene, di ogni cosa, e dell’amore straziato della donna. Lui trovava la sua presenza ridicola e frustrante, e rise a squarciagola mostrando i denti bianchi e feroci ai passeri e ai tordi che lo guardavano estasiati dal suo canto selvaggio. Dentro quella natura mezzo sepolta dal tempo inutilmente trascorso, lui trascinava ancora il suo stato di esule perduto con l’abnegazione di un martire, di un patriota posto a guardia dell’ultima linea di difesa, e prima di cadere di fronte alle forze nemiche, alla loro superiorità schiacciante. L’alba successiva lo avrebbe visto ancora là, a difendere la postazione, a cercare di strappare, pochi centimetri alla volta, terreno e ingordigia a quei feroci millantatori che gli sparavano contro. Ah se avessero potuto vederlo, seduto sulla roccia, fiero come un granatiere d’assalto, portare il fucile con la grazia marziale dei grandi guerrieri dell’antico impero. La luce del sole trafisse ancora e ancora da più parti la scura coltre del fogliame e lo colpì di bianco fortissimo, come un flash di macchina fotografica. Scattate e guardate qua la mia posa migliore, e voi fratelli dispersi dalla guerra e allontanati dalle vostre donne e dalle vostre famiglie, credetemi, ce la farò, ce la faremo, e vi riscatterò tutti, tutti quanti, tutti voi, uomini e donne che avete perduto la fede, ricuciremo insieme i lembi strappati del nostro onore, del vostro onore, e guai, guai a chi proverà ancora a separarci
L’ordine metafisico delle visioni più lucide era lo strazio che soccombeva all’emotività e traeva vigore dalla carne e dai muscoli e dal sudore forte e copioso che colava tra le scapole e dalle ascelle bagnando canotta e maglietta. Sotto la luce diurna più fatale, quel sole che lambiva la pietra come una lama furiosa, la maestria del vecchio guerriero con la spada era commovente anche se insensata, ma i fendenti erano buoni, e validi. Da buon spadaccino avvezzo alla battaglia si traeva egregiamente d’impiccio e si prendeva i suoi con sé con grande generosità e orgoglio di padre. Ma nonostante questa consapevolezza estrema il suo cuore tremava e lui non sapeva se tutto ciò sarebbe bastato, e se quel vigore iroso sarebbe durato ancora. Cadrà il nemico, e torneremo vincitori alle nostre case, come fecero gli antichi, Agamennone e Menelao, e molti altri venuti dopo, a rinverdire le stesse trame e le stesse sconcezze, trastullo dei potenti e dei saggi infingardi.. Ma io che so, se sono qua, che so io, oltre alla mia lucida maestria di ferocia e di potenza, la mia capacità di combattere e di vincere e di straziare, che altro so, non leggo i libri dei saggi, e non so di conto che non vada oltre le file dei bicchieri che lascio sulla tavola, sono fiero, questo si certo, fiero e attonito, e pieno di pietà solenne. E quando tornerò da questo scempio leggerò le poesie di Ovidio, leggeremo le poesie di Ovidio, e dei suoi amici, e come loro ci trasformeremo in porci, bevendo vino a volontà e godendo della compagnia e della lettura, e trasporteremo quelle cose pesanti che altri non riescono a portare sulle nostre schiene, e cantando versi bellissimi di gioia. Alle donne che scopriranno le nostre cose dico che oltre la loro chioma posso guardare lontano, i laghi e le masse delle acque che portano le navi lontane nei porti a oriente e a occidente, e i venti contrari e a favore ci dicono che giungeremo nei porti carichi delle mercanzie che a loro fanno girare gli occhi, e lasciano la bocca piena di saliva, e irrobustiscono i muscoli delle cosce e e della schiena. E anche le ancelle vestiranno quelle sete.
A quel punto l’uomo si trasse da tutto l’impaccio, e come un oste ubriaco si solleva a stento dalla seggiola, prigioniero nella sua bettola, lui sollevò più che poté la schiena incurvata e guardando faccia al cielo le nuvole corpose che si ammassavano lì sopra, trasse un respiro profondo e pieno come una nota d’oboe. La calma si piantò lì in mezzo, la calma e la specificità del momento, e ammiccamenti e occhiatine sognanti, e la compiuta opera, e la follia compiuta. Girò sui suoi tacchi, e le gambe magre baldracche pelose, stabilì con rigore che un altro assalto lo avrebbe portato quando il sole fosse sceso un poco più basso, e tolta la maglia e scoperto il petto riccio di un vello caprino, prese un bastone a terra e passatolo ripetutamente nella fanghiglia tracciò con esso segni e strisce irrazionali sulle sue spalle, il torace e le braccia. Cantava intanto l’usignolo e cigolavano i tronchi più sottili sotto l’aria a folate leggere, ma il suono cupo che emetteva lui dalla caverna della gola, cupo e continuo, allontanava i calabroni e le vespe e faceva scattare con destrezza le lucertole sui muri. Odo il silenzio, odo il silenzio, ripeteva, odo il silenzio, e traendo la spada enorme, agitandola sulla testa con grande forza allontanava gli spettri e le paure loro e i loro meschini inganni e trucchi. Chi è cattivo s’agita cattivo anche nel sonno e non ha pace, che la cattiveria sua trae vigore dallo scempio della sua mente, e non riposa e si distrugge nella povera idea d’essere al mondo per un motivo. Cadrà l’amarezza sotto ai colpi, e dovrà fuggire, e se non potrà trovare altri cui balenare negli occhi e vuotare le orbite, nel castigo mio, nostro, sfumerà come nebbia nel vento abbandonando per sempre la battaglia e la lotta. Ciò dicendo, con il riso alla bocca e la severa loquacità d’ubriaco, incespicando nelle parole e più volte ricominciando la frase, saltellava con dote e agilità tra i rocchi posti sghembi davanti al rudere, e menando ancora colpi e fendenti a rafforzare con gesti il senso del suo narrare. Ogni tanto rideva largo e sguaiato, e lasciava che la risata si perdesse in un’eco piccola nella valle e nella boscaglia intorno, e ritornasse a lui vera o immaginata come la risposta affermativa ed entusiasta di un uditorio attento. A quelli parlava, a quelli si rivolgeva, con suppliche e rimbrotti, alternando la prosa al canto, la magnificenza dell’eroismo e del furore alla smodata allegria senza costrutto dei balordi. Sembrava un re giullare, con una corona di papaveri e funghi sulla testa, agghindato così, un po’ per la battaglia e n po’ per la farsa, e ogni tanto strabuzzava gli occhi, e sapeva farli piangere anche, davvero commosso e commovente, e diventava all’improvviso un soldatino piccolo sotto l’elmo. Qualora si fosse girato verso la valle ed ascoltato lo stormire delle foglie e gli strilli dei piccoli rapaci, la sua goliardia insana avrebbe fatto parte dell’insieme naturale delle cose là intorno, per noi così insolite e modestamente feroci, come lo erano la sua luna e le sue membra scatenate e la sua faccia contratta nel ghigno di un temporale. Saliva allora sulla pianta come una giovane scimmia in divisa da lanzichenecco, e come alcuni suoi avi sopra i rami arringavano gli altri a terra, lui sembrava il mozzo che dalla coffa avvista il leviatano e incita gli altri a fare il loro dovere di marinai e cacciatori, e lui quello di comandare la ciurma a un arrembaggio coraggioso ed ostinato. La sua ferma voce lucidata dal canto e dalle chiacchiere sbottava a tratti mostrandosi e rimbalzando tra le piante del bosco e le rocce della montagna, le foglie al vento e la frizzante aria degli insetti e degli uccelli, era la voce dell’uomo che tenta di superare la voce del creato tossicchiando avvizzito e infondendosi quel po’ di coraggio con urla e boati e risate terrificanti e lamenti e piagnistei. E se non fosse neanche bastato il giorno intero ad ospitare il grave fardello suo e della sua ciurma inventata, allora anche la notte, anch’essa tutta intera lo avrebbe accolto e ospitato e fatto lavorare alle sue cose straordinarie, allungando una luna vivacissima sopra la sua testa e sopra tutto quel teatro di odi e versi e sciabolate furibonde. Meritava l’attenzione che meritano le grandi scene certo, era destinato così all’opera sua come un devoto è destinato prima o poi ad incontrare sul suo cammino il sacro e il divino Ma quel suo percorso, talora indeciso sulla direzione, talvolta bloccato dalla riflessione immobile, trambustava loquace e faceva tremare la terra e le pietre, e risuonava tra gli alberi della forzutissima sua buona lena di visionario, e fregiandosi anche della goliardia dei vincitori e dei forti d’animo.


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