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Un’ora

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 02/08/2017 21:15:15

M ed F entrarono in casa poco dopo mezzanotte, e già dai loro primi passi all’interno del piccolo appartamento in cui convivevano si poteva intuire un’agitazione malcelata. F perse giusto il tempo per togliersi le scarpe rosse, tacco 12 delle grandi occasioni, e buttarle in un angolo vicino alla porta, avviandosi poi con passi veloci ma composti in bagno: il modo in cui si era disfata sbrigativamente di quello strumento di seduzione, di cui andava così fiera, esprimeva in modo chiaro il bisogno impellente di un attimo di solitudine, una rinvigorente pausa lontano da tutto e tutti.
M, pur con modi diversi, non era da meno in quanto ad atteggiamenti di esplicito nervosismo: con i laconici occhi neri piantati verso i propri piedi evitò di osservare i movimenti di lei, fingendo di non accorgersi dei presagi di un imminente litigio. Il silenzioso viaggio in macchina era stato un antipasto piuttosto chiaro, ed il profondersi in risposte monosillabiche di F alle domande con cui lui cercava di avviare una conversazione (una cosa che lo metteva estremamente a disagio) lo aveva convinto della necessità di scavare un solco ancora più profondo fra loro, una volta giunti a casa. Lei avrebbe avuto tempo per commiserarsi, qualunque motivo potesse avere per farlo; lui avrebbe potuto evitare di sentirsi inadeguato; la vita sarebbe andata avanti, ed una serata storta non avrebbe lasciato segni indelebili sul loro fine settimana ancora da concludere.
Raggiunse con calma il divano bianco a due posti che si trovava in zona giorno, una delle poche concessioni all’arredamento che aveva trovato in loco al momento di affittare quel bilocale, in cui viveva da ormai quattro anni. Come disfarsi, d’altronde, di comodità a buon mercato come il poggiapiedi estraibile dai braccioli, od il poggiatesta reclinabile? Mentre attendeva che la morbidezza della finta pelle si adeguasse alle curve del suo corpo ebbe il tempo di pensare alla possibilità di prendere un bicchiere di rhum, un vezzo che non si concedeva da tempo: trovò però una posizione estremamente comoda prima che quella voglia improvvisa attecchisse abbastanza nel suo cervello, e convintosi che non valesse la pena di fare tutto quello sforzo adagiò mollemente la mano sul telecomando, cercando qualcosa di abbastanza interessante da permettergli di profondere un credibile sforzo d’attenzione verso la tv al plasma, di modo che all’uscita di lei dal bagno non gli sembrasse ipocrita rivolgere la propria concentrazione su qualcosa di diverso dalla propria partner.
Non passò che qualche secondo, però, prima che si imbattesse in una pubblicità di mobili. Sapeva che era una trappola a cui sarebbe potuto sfuggire senza colpo ferire, tuttavia la punta d’irritazione lasciatagli da quei silenzi velati d’accusa in automobile lo convinse ad emettere un singulto esagerato, un lamento volutamente udibile che, infatti, fu sufficiente ad interrompere la solitudine autoimposta di F.
“Che succede?” La sua voce era neutra, senza traccia di alcuna emozione. Aveva già iniziato a struccarsi, ma sulle labbra era ancora stampato il vivido rossetto rosso, mentre da un lato le penzolava l’unico lungo orecchino ancora al suo posto. Era un regalo che le aveva fatto lui tre mesi prima, per il suo compleanno: un lucido parallelepipedo azzurro, il colore preferito di F, pendente da una catenella d’oro di un paio di centimetri e che, a parere di M, slanciava il suo profilo e riduceva l’impressione che avesse delle orecchie troppo grandi (cosa, quest’ultima, che si era guardato bene dal rivelarle).
Lui girò di poco la testa, sfoggiando un sorriso appena percepibile dalla posizione di lei. “Pubblicità dell’Ikea. A quanto pare oggi siamo perseguitati dai mobili svedesi.” Si profuse in una piccola risatina, cercando di evidenziare l’ironia della situazione, ma era un maldestro tentativo di placare acque che lui stesso aveva smosso lanciando il sasso: poteva ritrarre la mano, ma non cancellare le conseguenze del suo gesto.
Lei fece qualche passo nella sua direzione, dimentica delle operazioni in cui si trovava affaccendata fino a qualche istante prima. “Stai cercando di dirmi qualcosa? Può essere che tu mi stia dicendo che non ti sei divertito stasera?” Disse quelle parole in maniera innocente, quasi da bambina, ma M era abituato a quel suo modo fanciullesco di farsi beffe di lui. Odiava la sua ironia, almeno quando la utilizzava nelle loro discussioni.
“Sii onesta, non puoi dirmi che non ti sei annoiata!” Vista l’ormai palese inutilità del suo iniziale stratagemma azzerò il volume del televisore, voltandosi completamente ed abbandonando la comodità ricercata con tanta cura poco prima. “Due ore a parlare di letti, mensole, armadi e chissà quante altre cazzate. Sembrava di essere ad una televendita, altro che ad una serata tra amici.”
“Ma certo, mobili, tu guardi sempre e solo la superfice. Ah!” Sulle labbra di lei si dipinse un sorriso che esprimeva appieno quell’ironia precedentemente malcelata. “Degli amici ti parlano dei loro progetti per il futuro, e tu ascolti solo con mezzo orecchio.”
“Progetti per il futuro? Progetti per il futuro!? Da quand’è che il proprio futuro dipende da...” si mise a cercare freneticamente fra i depliant sparsi sul tavolino di fronte a sé, trovando infine quello che cercava “dalla nuova scarpiera Ostlund? Vantarsi dei propri acquisti è diventato ‘parlare dei propri progetti per il futuro’?”
“Al massimo Ostana, e sono dei faretti per l’illuminazione.”
“Oh grazie, abbiamo un’esperta.”
Lei gli si parò di fronte, con un’espressione furente in cui era impossibile ritrovare la smorfia che i muscoli facciali disegnavano poco prima. “Tu senti solo quello che vuoi sentire. La notizia era che LORO comprano casa. LORO si stanno sistemando DEFINITIVAMENTE. LORO non giocano più alla coppietta felice che vive alla giornata, si stanno prendendo un impegno serio! E tu riduci tutto questo ad un atto di shopping compulsivo?”
“Adesso basta comprare una casa e qualche mobile per ‘prendersi un impegno’? Cosa le metterà al dito il giorno che si sposeranno, una cassapanca?”
“Almeno loro stanno facendo qualcosa! Avevano qualcosa da dire, non stavano tutto il tempo a guardare la propria birra in attesa di andare a casa!”
“Ahah, ecco il punto!” Si alzò, ammonendola con l’indice mentre un sorriso cattivo si faceva largo fra i peli della sua barba ben curata. “Io ti faccio fare brutta figura. ‘Eccolo, quell’orso di M, che non sbava di piacere quando sente parlare di quel nuovo ristorantino tanto carino, o di quanto ci fa sentire sicuri comprare altre cose che ci fanno apparire sofisticati e alla moda…’”
“Dio perché devi ribaltare sempre tutto?” Alzò le mani esasperata, e se le tenne per qualche secondo fra i lunghi capelli neri, facendole poi ricadere pesantemente sui fianchi mentre stringeva con forza i pugni ed ingobbiva le spalle. “Tu non sei inadeguato, tu VUOI apparire inadeguato. Così ti puoi sentire superiore a loro. Ma la sai qual’è la grande notizia? Tu non lo sei!”
M strinse forte la mano destra, rimpiangendo la mancanza del bicchiere di rhum che agognava qualche minuto prima. Avrebbe voluto avere quel bicchiere, ora, solo per scagliarlo forte contro la finestra dell’angolo cottura. Un bicchiere è un bicchiere. Una finestra è una finestra. Si possono ricomprare, riparare, ma la sua dignità non poteva essere mandata in frantumi alla stessa maniera. Sentiva il bisogno fisico di lasciarsi andare ad un gesto plateale, ma non gli veniva in mente nient’altro. “Ma certo, io sono solo quell’ottuso gorilla che lavora in una palestra. Scommetto che è quello che pensano i tuoi amici quando mi vedono, solo perché non mi entusiasmo per le loro cazzate...”
“Smettila di compiangerti!” urlò lei esasperata, “Sei tu che giudichi loro, non il contrario! Tu e i tuoi amici, sempre intenti a parlare, parlare, come se il fatto di aver letto...” si avvicinò alla libreria, rovistando nervosamente fra i volumi finché non ne strappò uno dalla moltitudine “il cazzo di Nietzsche vi dia chissà quale diritto di parola! Avete mai ascoltato qualcosa a parte la vostra voce?”
“Quello che hai in mano non è Nietzsche, è un libro di Neil Gaiman”. Non era importante farglielo notare, ma non riuscì a frenarsi.
“Fanculo!” sbattè il libro per terra con tutte le sue forze, rimanendo irrigidita coi capelli scomposti di fronte alla faccia. “Fanculo te, i tuoi libri e i tuoi amici! Cosa avete mai combinato di cui andare orgogliosi? Parlate di politica e non andate a votare, parlate di massimi sistemi e poi vi ritrovate da Mac Donald’s! Siete solo degli apocriti, ecco cosa siete!”
“Ipocriti, con la I”. La corresse ancora, ma il sorrisetto che sfoggiava fino a poco prima era scomparso dalla sua faccia. ‘Questa stronza sta esagerando’, pensò fra sé.
Lei si avvicinò ancora di qualche passo, ora erano entrambi fra il divano ed il tavolino. “Certo, dammi anche dell’ignorante. Poi sono gli altri quelli che giudicano, vero? La verità è che basterebbe uno come A a mettere in riga te ed i tuoi amichetti. Lui è uno che almeno si è rimboccato le maniche, è stato consigliere comunale per...”
“Oh oh oh, eccolo là!” M le rise in faccia, piroettando su sé stesso mentre esplodeva in sghignazzi palesemente forzati. “Il bel biondino che vuole sempre sedersi vicino a te! Cos’è, la sua tattica sta funzionando? Devo sentirmi geloso?” Il sorriso era ricomparso, ma la smorfia che gli contorceva il viso era tremolante: sotto covava una rabbia che non vedeva l’ora di uscire.
F rimase un attimo a bocca aperta, gli occhioni verdi sgranati, poi si mise a ridere piegandosi in due. Rimase così per qualche secondo, non accorgendosi di quanto nel frattempo la faccia di M si stesse rabbuiando. Quando si rialzò finse di asciugarsi delle lacrime dagli occhi, recitando molto meglio di quanto non avesse fatto lui poco prima. “Geloso? Di A? Ma tesoro...”
si avvicinò di qualche passo
“io sono già stata a letto con lui, prima di incontrarti...”
ancora più vicino, le labbra a sfiorare l’orecchio di M
“e ti posso assicurare che mi faceva godere molto più di te.” concluse in un sussurro.
M alzò un braccio, un gesto istintivo a cui lei reagì con un movimento appena percettibile. Sbattè la gamba contro il tavolino, ma la sua testa era ancora lì, i suoi occhi erano ancora aperti, un’aria di sfida impressa nelle pupille. Qualcosa le tremava dentro, era già passata da situazioni del genere e non bramava certo di ripetere l’esperienza dei lividi nei punti nascosti del corpo: tuttavia, non si sarebbe permessa di arretrare di un solo passo.
Passò qualche secondo prima che la mano di M ricadesse inerte al suo fianco. Ingobbì le spalle e chiuse gli occhi, emettendo un lungo sospiro. Sembrava tutto ad un tratto svuotato da ogni energia.
F però non aveva ancora finito, il fuoco che aveva animato la lite le ardeva ancora dentro. “Cos’è, non sei abbastanza uomo per tenere in riga la tua donna?”
Lui la guardò con uno sguardo enigmatico. Aveva un’espressione decisa, ma non si riusciva a capire quale decisione volesse esprimere. “Non potrei mai picchiarti”, disse con voce flebile “io ti amo.”
F chiuse gli occhi, mantenendo la testa alta, come in un ultimo moto d’orgoglio. Ma sapeva che la discussione era finita, capitava sempre così quando M tirava in ballo l’amore. Cosa avrebbe potuto dirgli, dopotutto? Che l’amore da solo non poteva bastare? Gliel’avrebbe detto volentieri, glielo avrebbe urlato nelle orecchie se solo avesse saputo cos’altro serviva per tenere in piedi una relazione. Ma non lo sapeva.
Si accasciò sul divano, sfiancata, massaggiandosi il polpaccio sbattuto contro il tavolino. Recuperò il pacchetto di sigarette abbandonato lì accanto, quindi ne accese una, iniziando a fumare nervosamente.
“Adesso non vai neanche più sul balcone, a fumare? La puzza di fumo impregnerà tutto in questa stanza.” M odiava l’olezzo di nicotina, e quella di non fumare in casa era una delle prime regole che aveva fissato quando, sei mesi prima, aveva deciso di invitarla a stare da lui.
F non aprì neanche gli occhi. “Adesso i mobili sono diventati importanti, eh?” Fece due tiri nervosi, aspettandosi una replica, ma passarono giusto un paio di secondi prima che sentisse i passi di lui allontanarsi verso il bagno. La porta sbattuta violentemente la fece sussultare, ma perlomeno era il segnale che la lite poteva definirsi conclusa.
M si buttò sotto la doccia, cambiandosi velocemente e buttando i vestiti disordinatamente sul pavimento. Si sfregò la pelle con forza, quasi che potesse lavare via lo sporco che sentiva dentro invece di quello che si era accumulato sulla sua epidermide. Quando finì di lavarsi il bagno era avvolto da una coltre di vapore, e dovette socchiudere la porta per far entrare un poco di fresco. Pulì con una mano parte dello specchio, una cosa che lei odiava, quindi rimase fisso a guardarsi la faccia, con la stessa espressione che aveva rivolto poco prima a lei. Quel volto ora era un enigma anche per lui, si sentiva come svuotato. ‘Che ci faccio qui?’, pensò senza provare niente, poi vide riflesso in un angolo dello specchio l’immagine di lei seduta nel letto.
F aveva finito di struccarsi nello specchio in corridoio, si era tolta l’orecchino superstite e si era messa il suo solito pigiama a righe bianche e rosse. Cercò di leggere qualcosa, ma non le riusciva di concentrarsi e rimase così ad ascoltare il rumore dell’acqua che scorreva, tormentandosi i capelli con una mano, gli occhi chiusi, le sopracciglia sottili arricciate a dipingerle sul viso un’espressione acida. Quel vezzo di scostarsi i capelli con la mano era stata la sua condanna per molto tempo, un gesto che nel linguaggio del corpo veniva interpretato come segno di disponibilità mentre per lei era sempre stato solamente un tic nervoso. Aprì un occhio quando sentì socchiudere la porta del bagno, poi li spalancò entrambi quando vide M uscire dal bagno, nudo ed ancora gocciolante.
Non fece in tempo a protestare quando lui si diresse deciso verso il letto, e capì presto che non ne aveva neanche voglia. Non fecero l’amore, fecero sesso, si unirono con una passione così intensa da apparire come un modo di dimostrare qualcosa l’uno all’altra: era così, ma prima di tutto erano in gara con sé stessi, col proprio bisogno di convincersi che, fra tutte le strade possibili, quella era l’unica che valesse la pena percorrere. Finito l’amplesso si staccarono, esausti, lei rannicchiata su di un fianco e lui supino, gli occhi aperti rivolti verso l’alto. Rimanevano intrecciate le dita delle loro mani, poi lui la attirò a sé e si addormentarono così, stretti assieme, incuranti del caldo estivo, delle lenzuola umide e delle parole forti volate poco prima.
‘Sei mia’, pensò lui prima di addormentarsi.
‘Sei mio’, pensò lei mentre la notte la reclamava.
E andò proprio così.

Anni dopo, all’ennesimo decennale del loro matrimonio, nessuno fra la moltitudine di parenti ed amici accorsi a festeggiarli avrebbe saputo dire cosa nascondeva quel loro sorriso. Pensavano ad una passione che non subiva il peso degli anni, l’intesa di due anime destinate l’una all’altra, ma chi poteva affermare che non fosse l’orgoglio a fare da collante in quella relazione? Nemmeno loro avrebbero saputo rispondere, perché gli occhi di F ed M riflettevano ormai da tempo solo il disperato bisogno di essere indispensabili l’una all’altro. Che questo fosse effettivamente vero non era poi così importante, c’erano così tante cose a cui pensare: i pensili della cucina si stavano rapidamente rovinando, forse era il caso di concedersi un bel regalo comprandone una nuova.
Le loro mani, con molte rughe in più e minore forza, rimanevano intrecciate come in quella lontana notte. In un modo o nell’altro, anche questo era amore.

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