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Riflessi

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 09/10/2017 19:04:55

Quando mi chiedono il suo nome e il giorno in cui sarà mia sposa
Io grido a tutti un nome di fantasma e una data in primavera
Valentina Dorme, Un nome di fantasma

Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?
Oh Dae-su, Old Boy


Flash.
Una coppia di anziani balla, attorniata da persone di ogni età che battono le mani.
Flash.
La faccia di un bambino in primo piano, sorridente, le labbra sporche di panna montata. Guarda in basso, verso la fetta di torta che sta gustando.
Flash.
Un gruppo di ragazzi leva i calici colmi in alto, urlando. Uno solo di loro è seduto, le guance rosse, gli occhi semichiusi, ma alza comunque il suo calice, sorridendo.
Il ragazzo con la macchina fotografica si aggira per il ricevimento, cogliendo qua e là scorci dell’entusiasmo degli invitati. E’ il suo regalo per il matrimonio di una coppia di amici, la decisione di donar loro un ricordo più intimo e meno formale di quello che, secondo consuetudine, viene etichettato come il giorno più bello della vita. Non è il suo lavoro, nella vita fa tutt’altro, ma la passione per la fotografia è cresciuta fino a sfociare quasi in una seconda professione. Altre persone lo hanno chiamato per questo o quel piacere, amici di amici, e per lui, abituato ad immortalare orizzonti sterminati in montagna, è sempre una buona occasione per cercare nei gesti e nelle espressioni delle persone quelle stesse sensazioni che i paesaggi incontaminati gli donano.
Flash.
Il nonno della sposa, col suo cipiglio severo, granitico ed arcaico come la nuda roccia di un picco scosceso ed invalicabile.
Flash.
Bambini che giocano con una palla, sorridenti, vitali come le fronde degli alberi scosse dal vento in primavera, quando il bosco rinasce a nuova vita.
Solo una cosa non gli riesce d’immortalare: gli occhi di una ragazza che continua ad intravedere solo da lontano, occhi che gli ricordano la pace di un laghetto di montagna, il riflesso di acque limpide e pure in cui potersi specchiare. Lo ha colpito la sua naturalezza, quell’essere disordinata in maniera sbarazzina mentre attorno le acconciature delle altre ragazze sanno d’artificio sterile. Sembra impossibile, ma in quel microcosmo alticcio le loro traiettorie assomigliano a quelle di pianeti con orbite destinate a non incrociarsi. Non si cruccia però, perché sa che in qualche foto riuscirà a vederla. Ed una foto in dono è una buona scusa per conoscersi.
Continua a fotografare, il flash che illumina la sala sempre più spesso man mano che il sole scompare all’orizzonte, il blip digitale, meno poetico del click meccanico delle macchine di una volta, che continua a far da sottofondo silenzioso alla festa.

Il bagno di casa, opportunamente preparato, diventa ogni tanto una camera oscura. Le foto migliori, quelle che vorresti sempre avere con te per rendere vividi i momenti indimenticabili, le ha fatte sviluppare da uno studio più competente, ma qui vengono alla luce gli scatti rubati, quelle che solo una stereotipata concezione perfezionistica considera foto ‘sbagliate’. In una di queste gli sposi ballano, mano nella mano, ma l’esposizione è mal calibrata ed è il sottofondo che rimane a fuoco, non senza una certa dose di poesia nel catturare le espressioni di chi si fa partecipe della gioia in primo piano.
Il ragazzo la osserva da alcuni minuti. E’ l’unica foto dove è presente la ragazza dagli occhi così limpidi da sembrare specchi. Non riesce a capirne il colore, neanche dopo un ingrandimento, ma una cosa si nota sopra tutte le altre nel suo sguardo, rivolto dritto verso l’obiettivo.
Terrore. Inesplicabile, puro terrore.
Non riesce a spiegarselo. Cosa può aver fatto per provocare una simile reazione? Continua ad osservare, inquieto sulle prime, ma col passare dei minuti scende come una sorta di pace nel suo animo osservando quell’espressione inconsueta. Si propone di fare un ulteriore ingrandimento dell’immagine, chissà cosa potrà mai vedere in quegli occhi. Ma questa è una domanda che vuol rivolgere prima a lei.

Sono seduti al tavolo di un bar del centro, parlando di cose senza importanza. Ci è voluto un po’ a convincerla, ma sconfitte le ritrosie ed accomodati gli orari il ghiaccio si è sciolto in fretta. Ora può vedere che ha gli occhi verdi, nota che la sua pupilla si dilata spesso, e sa che è un segno d’interesse. Non conosce bene i codici della prossemica, né vuole conoscerli, perché teme che compreso il meccanismo sarebbe invogliato ad assecondarla, ad imparare a mentire. Non vuole capire il linguaggio del suo corpo, non completamente almeno, perché l’ignoranza è una forma di sincerità, la meraviglia la sua ricompensa; l’incomprensione il rischio, una possibile pena.
Si sente legittimato, dopo una buona conversazione ed una birra, a chiederle conto di quella strana espressione. Le mostra la foto e lei cade dalle nuvole, non ricorda cosa le ha scatenato quella posa ma “Dio mio” esclama, “come sono uscita male!”.
“Forse” continua, “il flash mi ha risvegliato un ricordo. Un incubo ricorrente. Non so cosa mi succeda, ma so che finisce col lampo di una macchina fotografica, ed a quel punto mi sveglio terrorizzata.” Si interrompe, sovrappensiero, lui le lascia il tempo di mettere ordine nei suoi pensieri. “Magari ho una fobia per le macchine fotografiche”, dice sorridendo.
La sottile inquietudine di quella foto svanisce velocemente. Lui la guarda fisso negli occhi, e le dice che con quel sorriso in volto è molto più bella. “Non lascerò che nessuna macchina fotografica ti aggredisca in mia presenza”, aggiunge schernendola un po’, e le prende le mani fra le sue come ad avvalorare quell’ironico istinto di protezione. Trema mentre gliele stringe, e lui non capisce se è un brivido di timore od eccitazione; neppure lei capisce quella reazione istintiva, ma sente che qualcosa di ineluttabile è in corso e tanto basta a rassicurarla.

Lui guarda il soffitto, nel buio, senza riuscire a vederlo. Vorrebbe fumare una sigaretta, come fanno nei film dopo un amplesso, strano desiderio visto che non ne ha mai toccata una in vita sua. Scosta un poco la coperta per prendere aria, ma solo quel tanto che basta per non scoprire il corpo di lei, assopita, raggomitolata su sé stessa dall’altro lato del letto. La primavera è scoppiata all’improvviso, ma sepolta lì sotto le coltri sembra non essersene ancora accorta.
Fino a poco fa, mentre si insinuava con la lingua fra le sue gambe, mentre baciava ogni centimetro del suo corpo, durante la penetrazione, si era sentito come se fosse quanto di più importante aveva al mondo; meglio, lei ERA il mondo, durante l’amplesso, e lui si beava di quell’unione a lungo attesa. Ora, separati, gli occhi non vogliono concedergli il riposo, e strani pensieri tornano ad affacciarsi alla sua stanca mente.
La vede rabbrividire, chissà se quell’incubo ricorrente è tornato a trovarla. Il flash, la foto, ricorda l’ultimo ingrandimento lasciato nella camera oscura, i suoi occhi ingigantiti. Non ha ancora fatto in tempo ad osservarlo bene, ma sente che qualcosa di importante si cela in quegli specchi: senza far rumore si alza, insonne, e si inoltra nel mistero.

Lei si sveglia trattenendo un grido, sudata. Il flash, ancora lui, e prima…cosa? I dettagli svaniscono mentre si guarda attorno, spaesata all’inizio, poi più serena man mano che il ricordo di quella stanza si fa più chiaro. La inquieta però l’assenza di lui, non si sente sicura al buio da sola. Scende dal letto, rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi col pavimento, quindi lo cerca fra le poche stanze dell’appartamento. Una debole luce rossastra filtra dal bagno adibito a camera oscura, una bizzarria che l’ha fatta ridere ma che improvvisamente la inquieta.
Entra piano, sussurrando un “amore, che succede?”. Le piace chiamarlo amore dopo così poco tempo, con leggerezza, perché i sentimenti hanno bisogno di levità per non tramutarsi in ossessioni, per non farsi sofferenza. Lui si gira piano, con un’espressione indecifrabile, poi le indica la foto. I suoi occhi, ingranditi. E ciò che contengono.
“E’ questo che sono per te, quindi?” Il suo tono è freddo, astioso. Continua ad indicare, e lei vede la sala per cerimonie, gli sposi che ballano, gli invitati tutto attorno. Una macchina fotografica, sospesa a mezz’aria, senza nessuno che la sostenga.
Nessuno.
“E’ così che mi vedi? Niente?”. Alza la voce, furente, non si fa più domande su quella mancanza di senso. “Cosa dovrei fare per farmi vedere da te? Cosa ci fai qui, in casa mia, se neanche mi consideri?”
Le si avvicina, minaccioso, e lei non sa cosa rispondere. Vorrebbe dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non riesce neanche a voltare gli occhi, incollati ai suoi. La faccia le si fa di pietra, prova sgomento ma non riesce ad esprimerlo: nella mente risuona il rumore di un flash, la sensazione di qualcosa di ineluttabile si fa strada ma stavolta non la rincuora, vorrebbe tremare ma non può. E’ solo una spettatrice all’interno del suo corpo, riconosce i segni di qualcosa che ha già vissuto ogni notte, da lungo tempo, ma è troppo tardi. Non incubi, premonizioni.
“Perché non dici niente?” urla lui. “Cosa devo fare perché mi consideri? Devo ululare alla luna per disperazione? Prendere a pugni la parete fino a sanguinare? Cosa?”. Una voce al suo interno cerca di farlo tornare alla ragione, ma il sangue ad ondate copre ogni rumore nelle sue orecchie: quei sentimenti leggeri come il vento, che evocava lei poco prima, in lui non sono che raffiche di una terribile tempesta. Eccola la natura che cercava nelle persone, ma qui non vi è pace come nelle innevate vette.
Lei sorride appena, schernendolo, ma è una smorfia involontaria che le fa orrore; lui è furente, e senza sapere il motivo di quella collera montante le getta le mani al collo. Mentre l’asfissia la rende incosciente, incapace di costringere il suo corpo a lottare, invece del buio le viene incontro una strana luce: la rasserena quella luminosità, e mentre scivola nell’oblio non sparge neanche una lacrima.
Pochi attimi, ed è tutto finito. All’inizio pensa solo a quanto è stato compiere un atto così tremendo, poi si fissa le mani con orrore. Cade in ginocchio e la guarda, osserva quegli occhi come specchi, e nella flebile luce rossastra nemmeno ora vi si vede riflesso.
“Non era lei”, sussurra tremando. Capisce di aver sbagliato ad accusare di considerarlo una nullità: è lui a considerarsi tale. Quegli occhi gli rimandano la sua immagine riflessa, ed invece di bearsi di un amore che forse neanche meritava lui vi ha intravisto inganno, disillusione, umiliazione. Mentre continua ad osservare quegli specchi ormai immoti si vede apparire, ma è una figura orrida, meschina, gonfia d’ira eppure contorta. La macchina fotografica è lì vicino, la prende come ipnotizzato. Immortala quel momento, perché rimanga traccia dell’orrido essere che è diventato, affinché non possa nascondersi in mezzo alla gente come un lupo fra gli agnelli. La guarda un ultima volta, attraverso l’obiettivo.
Flash.

Si sveglia trattenendo un grido. Il flash, ancora lui, e prima…cosa? Fuori dalla finestra è giorno fatto, guardando la sveglia si accorge di non averla sentita. Le dieci, e lei aveva appuntamento dalla parrucchiera alle nove. Il matrimonio è a mezzogiorno, manca ormai poco.
‘Così imparo a fare sempre le cose all’ultimo’ pensa, maledicendosi a mezza voce mentre scosta le coperte per precipitarsi in bagno.
Si fa la doccia pensando alla cerimonia imminente. Arriverà in ritardo, ed anche in disordine. Mentre si liscia i capelli allo specchio, conscia di ottenere un risultato ben misero rispetto alle acconciature che sfoggeranno le altre invitate, vorrebbe fare a cambio col suo riflesso per rimanere lì, immobile, al sicuro da ogni disagio possibile o pensabile.

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