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La forza dell’amore

di Arnaldo Lovecchio
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Pubblicato il 30/01/2018 13:49:05

L’amore, io credo, si dimostra maggiormente con le piccole cose. Tutti siamo in grado di fare dichiarazioni piene di belle parole, ma sono i piccoli pensieri quelli che dimostrano il vero amore, perché la nostra anima gemella occupa un posto talmente speciale nel nostro cuore da essere presente in tutto ciò che vediamo: così, una borsa ci fa pensare a quella della nostra amata, un caffè preso al bar ci fa pensare a quanto sarebbe meraviglioso berlo assieme a lei. E fu proprio per dimostrare il mio amore che quel giorno decisi di fare una sorpresa a Giulia. Ero appena tornato da un brevissimo viaggio lavorativo e di sicuro non si aspettava che io rientrassi un giorno prima di quanto annunciato. In quel periodo dell’anno solevo trasferirmi nella mia casa in montagna, per godere della solitudine che solo quei luoghi sanno offrire. Avevo portato Giulia insieme a me, certo che avrebbe amato quel luogo così come lo amavo io. Preso dal pensiero del suo abbraccio, decisi di non indugiare oltre e mi misi in viaggio appena tornato, nonostante fosse già tardo pomeriggio. Quando arrivai presso la strada che conduceva al nostro nido, vidi che la parete rocciosa della montagna era crollata, ostruendo il passaggio. Riuscii a scorgere alcuni vigili del fuoco intenti a rimuovere le macerie. Improvvisamente pensai che qualcuno poteva essere rimasto ferito, o peggio; forse la frana non si era limitata a ciò che vedevo davanti a me, forse aveva colpito anche altre aree. Pensai subito a casa mia, e a Giulia. Il terrore si impadronì di me; raggiunsi i vigili del fuoco e domandai a uno di loro, il più anziano, se ci fossero vittime. Lui mi rassicurò: non vi erano né vittime, né feriti, nessuna abitazione aveva subito danni, e la frana aveva interessato esclusivamente quella zona; l’unico problema era l’impraticabilità della strada. Così rincuorato, tornai indietro e pensai a come procedere. Mi chiesi se non fosse il caso di tornare all’altra casa, quella in paese; d’altronde, non sarebbe successo nulla se avessi rivisto Giulia il giorno successivo. La consapevolezza dell’amore mi rassicurava, e nel contempo alimentava la fiamma del mio cuore. Pensai alla paura che avevo provato al pensiero che le fosse successo qualcosa, e decisi che non potevo attendere. Così, preso dall’impazienza di rivederla, decisi che sarei tornato da lei quel giorno stesso. Improvvisamente mi ricordai dell’esistenza di una stradina poco lontana da lì, che mi avrebbe condotto verso casa; era un sentiero poco battuto, io stesso non lo percorrevo ormai da diversi anni, da quando ero un ragazzo. Tuttavia decisi di fare un tentativo, e mi misi in viaggio verso il sentiero. Ogni tanto rallentavo e mi godevo il panorama; c’era infatti ancora abbastanza luce per poter apprezzare le montagne e le loro meraviglie. Come spesso mi accadeva quando guidavo, iniziai a pensare. Quel giorno pensai a quanto fossi fortunato. La mia vita non era stata affatto semplice. Avevo solo dieci anni quando mio padre morì, lasciandomi da solo con mamma. Ebbe inizio un periodo fatto di privazioni, non tanto fisiche quanto mentali. A scuola non avevo molti amici; non mi interessava correre dietro ad un pallone, come facevano tutti i miei compagni di classe. Preferivo perdermi tra le pagine di un libro, sognando una vita fantastica, migliore di quella che Dio, se davvero esiste, aveva deciso di infliggermi. I libri sono una delle cose più potenti del mondo: possono farti sognare, ridere, piangere, puoi diventare un avventuriero in cerca di gloria o indagare tra i nebbiosi dedali di Londra, puoi ascoltare Oscar Wilde che ti parla da un’altra epoca o esplorare la Terra di Mezzo, puoi riflettere con i filosofi o meravigliarti osservando le città del futuro!

Poco dopo la mia laurea mia madre morì. A essere sincero, non posso dire che mi sia dispiaciuto. Era una vera strega, e mi umiliava ad ogni minima mancanza, vera o immaginaria che fosse. Diceva sempre  che ero come mio padre, un disgraziato  proprio come lui. Mi era sempre piaciuto papà, mi aveva insegnato tante cose. Ricordo benissimo quella volta in cui mi insegnò a giocare a scacchi, e la pacca che mi diede sulla spalla quando riuscii a batterlo per la prima volta, a nove anni. In quell’istante, mi sentii il re del mondo.

Mia madre invece era sempre fuori di casa, a divertirsi, e non apprezzava nulla di quello che facevo. Una volta, ero in seconda media, riuscii a costruire una lampada usando una bottiglia di plastica e altri materiali trovati in casa. Quando le mostrai il mio piccolo capolavoro, lei proruppe in una ristata derisoria, e lo gettò nella spazzatura, premurandosi anche di schiacciarlo con foga. Mi sentii ferito, come mai in vita mia, ma lei continuò a ridere e prese a scolarsi una bottiglia di birra. La odiavo.

Tutto cambiò quando conobbi Giulia. Ero stato con qualche altra ragazza prima di lei, ma nessuna di loro si era rivelata quella giusta; tutte mi avevano deluso o ferito, per un motivo o per un altro. Con lei fu il classico colpo di fulmine, e nemmeno tra le pagine di un libro riuscirei a trovare le parole adatte a descrivere cosa provai guardandola. Avrei potuto restare per ore a guardarla in quei bellissimi occhi azzurri, perdendomi in essi come in un sogno, ammirando estasiato la brillantezza di quegli zaffiri. Uscimmo insieme per pochi mesi, poi le chiesi di sposarmi. Lei accettò con lacrime di gioia, e poco dopo venne a stare da me.

Perso tra i miei pensieri, non mi ero accorto che una spia aveva preso a lampeggiare. Improvvisamente il motore dell’auto iniziò a scoppiettare, e in men che non si dica la macchina si fermò. Scesi dall’auto imprecando e controllai il motore. Non me ne intendevo molto di meccanica e di automobili, ma non serviva essere un genio per capire che avevo esaurito fino all’ultima goccia di carburante. Presi il telefono cellulare ma, come era prevedibile, in un ambiente del genere non c’era la benché minima ricezione. Mi sentii subito sconfortato: eccomi li, da solo in mezzo ad una strada deserta, senza la possibilità di poter contattare qualcuno. Fra l’altro, il cielo stava diventando rapidamente plumbeo, promettendo un diluvio di proporzioni bibliche. Fu allora che scorsi un tenue bagliore.

La luce non era lontana e proveniva da una casa. Era una villetta a due piani, tipica degli ambienti montani. Solo allora ricordai quella casa. Da ragazzo, l’avevo vista diverse volte. Era abbandonata da molti anni, ma evidentemente qualcuno doveva averla ereditata, o acquistata. Pensai che sarebbe stato meglio chiedere aiuto agli abitanti della casa, piuttosto che starmene lì impalato aspettando che passasse qualcuno a soccorrermi. Avvicinatomi al portone di casa suonai il campanello e poco dopo mi apparve un uomo dal sorriso cordiale e dallo sguardo vivido e caloroso.

“Salve buon uomo” gli dissi “sono in viaggio verso casa mia, ma purtroppo la strada principale è bloccata e la mia macchina ha qualche problema. Ho urgenza di arrivare a casa il prima possibile. Sarebbe così gentile da farmi usare il telefono di casa sua, così da poter chiamare dei soccorsi?”

L’uomo, che nemmeno per un istante aveva smarrito il suo sorriso, mi rispose:

“Ma certo signore, entri pure e lasci un po’ della felicità che arreca con sé. Stavo appunto gustando un po’ di tè caldo. Venga, entri e si serva pure.”

Entrammo in una sala da pranzo, che era piccola ma confortevole. Dal caminetto irradiava una piacevole calura. Mi guardai intorno e notai che la stanza era arredata in maniera semplice, quasi spartana. Un solo tavolo con due sedie e una vecchia credenza, oltre all’angolo cucina. Riuscii a intravedere, in fondo alla stanza, una scalinata che si affacciava da un piano inferiore e proseguiva verso il secondo piano della villetta; forse, pensai, il piano inferiore ospitava una cantina, come quella che avevo anch’io in casa mia. Sul camino c’era una vecchia foto, che ritraeva il mio ospite, in divisa militare e più giovane di almeno una ventina d’anni, abbracciato a una donna. L’uomo si avvicinò con il tè.

“L’ho appena preparato, ed è un peccato doverlo bere da solo. Sa, i giorni qui trascorrono lentamente, ed è una tale gioia avere un ospite. Sembrano passati secoli dall’ultima volta che ho parlato con qualcuno. Inizi pure ad accomodarsi e mi lasci dare un’occhiata alla sua auto.”

Detto questo, uscì, lasciandomi in casa. A quanto pareva, non c’era nessun altro in casa. Rientrò pochi minuti dopo, dicendo che, come del resto avevo sospettato, la macchina era rimasta a corto di carburante e che sarebbe stato più che lieto di farmi usare il suo telefono.

Osservai il padrone di casa. Egli era un uomo di circa quarantacinque anni, ed era vestito con abiti semplici e un po’ logori. I lunghi capelli, che una volta dovevano essere stati neri come i suoi occhi, erano adesso spruzzati di grigio, e una barba incolta gli adornava il viso. Era molto alto e dava l’impressione di essere ancora molto energico e prestante. Emanava uno strano odore, come di sudore misto a qualcos’altro; era piuttosto sgradevole. Notai anche una fede nuziale alla sua mano sinistra.

“Signore, se posso chiederglielo, dove si trova casa sua? Sa, conosco molto bene la zona e non ricordo di averla mai vista prima d’ora” domandò il padrone di casa.

Gli risposi che casa mia si trovava poco lontano, a circa quattro chilometri verso nord, poco oltre una piccola vallata. Ancora una volta maledissi silenziosamente me stesso e la mia impazienza. Se solo avessi pensato in maniera più obiettiva non mi sarei mai trovato in quella situazione. Ma l’amore, si sa, rende ciechi anche i più avveduti, e sorrisi del mio goffo ardore. Tornai a fissare la fotografia sul camino, sorseggiando il tè. La donna raffigurata era bionda e dagli occhi scuri. Aveva i lineamenti di una fanciulla, delicati e innocenti. L’uomo, accortosi della mia osservazione, mi disse:

“Era mia moglie. È venuta a mancare molti anni fa. Ha lasciato un vuoto incolmabile nel mio cuore. Da quando se n’è andata, tutto è cambiato. Avevamo progettato così tante cose…” - restò in silenzio per alcuni istanti, poi continuò - “Solo chi ha amato davvero può comprendere un simile dolore. Mi dica, lei ha qualcuno che la attende? Ha la fortuna di condividere le sue gioie con un’altra persona?”

Gli risposi che in effetti godevo di una simile fortuna. Gli mostrai il mio cellulare, il cui sfondo ritraeva Giulia sorridente. Mi parve a quel punto di scorgere una strana luce nei suoi occhi, ma essa svanì così rapidamente che mi convinsi di essermela immaginata.

Nel frattempo, la tempesta preannunciata era arrivata. La pioggia si abbatteva sulle finestre e sul tetto con un’intensità che non avevo mai visto, quasi come se il cielo volesse flagellare la terra e punirla per qualche motivo. Il vento sbatteva i rami degli alberi contro la casa, ed improvvisamente vidi una mano fuori dalla finestra. Sobbalzai, ma il mio ospite mi tranquillizzò ridendo:

”Non abbia timore, è solo un vecchio albero. Certo, il ramo ha una forma simile a quella di una mano; avrei dovuto tagliarlo molto tempo fa.” Solo allora mi accorsi che i suoi denti erano  insolitamente lunghi.

Mentre sorseggiavamo il tè, un fulmine fece saltare l’elettricità. Ci ritrovammo immersi nell’oscurità più nera, e mi sentii subito a disagio. Non avevo timore del buio in sé; una volta mio padre mi aveva detto che il buio ci nasconde agli occhi di chi vuole farci del male, e da allora avevo visto l’oscurità come un’amica. No, ad inquietarmi, lo capii solo allora, era il mio ospite. C’era qualcosa di strano in lui e nei suoi modi; la sua gentilezza sembrava troppo sollecita per essere naturale, ed ebbi l’impressione che stesse recitando una parte per qualche oscuro motivo. Il sorriso, in particolare, era sempre stampato sul suo volto, quasi come se fosse una vera e propria maschera. Il padrone di casa invece sembrava aver mantenuto la calma, e mi disse che sarebbe andato nella stanza accanto a prendere delle candele. Mentre aspettavo, non potei fare a meno di pensare di essere finito in un film horror, con tutti i cliché tipici del caso: casa isolata, tempesta, strano eremita. “Si rivelerà essere un pazzo maniaco?” pensai tra me e me, con una punta di forzato divertimento. Tornò poco dopo con due candele, le accese e si sedette vicino a me. Restammo in silenzio per alcuni minuti. La tempesta non accennava a placarsi.

“Le converrebbe restare qui finché il cielo non si sarà calmato. Purtroppo il telefono è saltato, e non potrà chiamare nessuno finché la linea non sarà stata ripristinata. Dispongo di alcune taniche di benzina, per le emergenze, ma non credo che le convenga uscire con questo tempaccio. Rimanga qui ancora un po’, la prego” disse, sorridendo. Risposi che, effettivamente, non sembrava esserci molta scelta.

“Mi parli della sua fidanzata”, continuò “ Mi racconti com’è. Abitate insieme?”. Confesso che la sua domanda mi infastidì parecchio. Non apprezzavo che un estraneo si interessasse alla mia Giulia oltre il necessario, tuttavia lo assecondai, se non altro per riempire il silenzio della stanza. Mentre gli raccontavo di Giulia, mi parve di scorgere nuovamente qualcosa nei suoi occhi. Con la sola luce della candela a illuminargli il viso non potevo esserne certo, ma sembrava che una luce malevola albergasse nei suoi occhi, e che avesse inquietanti pensieri per la testa.

 

Improvvisamente si alzò e disse:

“Vado a prendere da bere. Gradisce del whiskey?” Gli risposi di sì e lui si incamminò verso un’altra stanza, muovendosi nel buio senza problemi. La vaga inquietudine che avevo provato prima si tramutò improvvisamente in paura. Non mi ero immaginato quegli occhi dilaniati da perversi desideri, no, quello sguardo era vero. E se fosse stato davvero un serial killer come quelli che si vedono nei film? Sarebbe forse tornato con una maschera di pelle sul volto e una motosega fra le mani? Pochi secondi dopo tornò con una bottiglia di whiskey e due bicchieri. Si sedette e li riempì, sorridendo ancora. Quel maledetto sorriso mi inquietava quasi quanto i suoi occhi.

“Propongo un bel brindisi! Sa, per gli antichi greci l’ospitalità era un dovere sacro, la chiamavano xenia. Dunque brindiamo all’ospitalità!” disse il mio ospite. Alzai il bicchiere per assecondarlo, e in quel momento mi gettò il suo whiskey in faccia. Mi sentii gli occhi in fiamme, poi mi colpì al volto e non vidi più nulla.

Non so quanto tempo fosse trascorso tra il mio svenimento e il risveglio; forse cinque minuti, forse due ore. La stanza in cui mi trovavo era buia, e in quelle condizioni nulla poteva aiutarmi a farmi un’idea del tempo passato. Mi sentivo indolenzito e frastornato; provai a muovermi, ma mi resi subito conto di non riuscire a farlo. Ero legato su un tavolo, e per quello che ne sapevo ero ancora nella casa. Pensai di provare a liberarmi, ma prima che potessi fare alcunché sentii una porta aprirsi, poi venne accesa una luce. Alzai la testa e vidi il mostro che mi aveva ingannato. Adesso non si dava più pena di nascondere le sue intenzioni. Il ghigno satanico lo faceva sembrare più simile ad una iena che ad un uomo.

“Non affannarti, non ti libererai mai da solo. Che bella giornata, un ospite inatteso e solitario. Purtroppo non sono più giovane come un tempo, e devo accontentarmi di ciò che mi manda la sorte. Sei il primo che mi capita, da quando sono arrivato da queste parti. Ciliegina sulla torta, ha smesso di piovere ed è tornata la corrente. Odio i temporali, tu no?”

Restai a fissarlo sbalordito, non capacitandomi di essere finito in una situazione del genere. Pochi secondi di silenzio bastarono per scatenare nell’uomo una furia spaventosa. Mi balzò addosso urlando e mi colpì al volto con un pugno:

“Rispondimi quando ti parlo, capito?” latrò. Sentii in bocca il sapore metallico del sangue e l’odore del mio aguzzino, che era diventato più intenso e nauseabondo, invase le mie narici. Pensai che il mostro volesse colpirmi ancora, ma invece si voltò e si diresse presso un tavolo alle sue spalle. Su di esso riuscivo a scorgere un panno rosso; lo rimosse e prese qualcosa. Quando si voltò, vidi che si trattava di una grossa mannaia. Aveva la bava alla bocca.

“La società in cui viviamo è così ipocrita” disse, asciugandosi la bava con l’avambraccio “ci insegna che si deve vivere all’insegna dell’altruismo quando invece il mondo è una giungla. Uomini in giacca e cravatta che non sono diversi dalle bestie selvagge. Crediamo di essere diversi, illuminati, ma in realtà siamo solo animali. Da essi c’è molto da imparare, e sarebbe meglio per tutti se ammettessimo la nostra natura, piuttosto che continuare a vivere in questa menzogna chiamata civiltà.” Posò la mannaia e mi prese la testa fra le mani, guardandomi negli occhi. “Sai, ho ucciso il mio primo uomo quando ero un militare, in Kosovo. Non parlo di ordini eseguiti, no, intendo dire che lo uccisi perché volevo farlo. Era un povero mentecatto, un rifiuto della natura. Che senso aveva la sua vita? Sarebbe stato meglio per lui soddisfare qualcuno, almeno così non sarebbe morto invano. Così gli piantai il coltello nel cuore e, Dio, che estasi! Meglio del sesso! Sentii il liquido caldo che mi bagnava le mani e mi sentii in paradiso! È un’esperienza che tutti dovrebbero provare, a mio parere!”

Lasciò la mia testa e continuò a parlare agitando nevroticamente le braccia, come in un ballo perverso. Ormai era completamente in preda ai suoi deliri.

“Già, erano bei tempi! Da quelle parti si pisciano ancora addosso, quando sentono parlare dei miei lavoretti! Ad ogni modo, dopo averlo ucciso decisi di soddisfare un languorino che avevo già da un po’, così lo squartai e assaggiai un po’ della roba che aveva dentro di sé. Sapeva di zampone! Del resto, la carne è pur sempre carne.”

Dunque quello era il mio destino: mi avrebbe torturato e mangiato, magari avrebbe tenuto anche qualcosa come souvenir. Pensai a Giulia e iniziai a piangere. Lo implorai di lasciarmi andare, ma lui mi schiaffeggiò immediatamente.

“Zitto! Conserva le lacrime per dopo! Non sai ancora la parte più divertente.” Così dicendo, tirò fuori dalla tasca il mio telefono e indicando lo schermo disse:

“Non morirai subito, no. Quando sarai abbastanza malconcio, andrò a trovare la tua amichetta, la porterò qui e me la spasserò con lei. Mi sono fatto un’idea piuttosto precisa di dove sia casa tua. Tu potrai rifarti gli occhi, con tutta calma! Poi finirò anche te…ho già l’acquolina in bocca!”

Dovevo assolutamente liberarmi, prima che quel mostro mi rendesse incapace di farlo, e fermare quel maledetto prima che facesse del male alla mia amata! Giulia, Giulia! Il suo amore mi diede la forza necessaria per convincermi.

“Bene, basta parlare. Aspetta qui, vado a prendere la fiamma ossidrica. Non andartene, eh?”

Riprese la lama e si allontanò in fretta, ridendo della sua stessa spiritosaggine. Ora o mai più.

Dondolandomi da una parte all’altra del tavolo, riuscii a sbilanciarlo da un lato, cadendo a terra. Nella caduta, una gamba del tavolo si ruppe, consentendomi di muovermi. Di certo, il pazzo aveva sentito il rumore. Con la forza di un disperato, riuscii a liberare una mano, poi l’altra, ed infine le gambe. Mi ero appena rialzato quando il pazzo rientrò nella stanza. Nella mano destra impugnava la mannaia e il suo volto era contorto dalla rabbia.

“Dove cazzo vai, sacco di carne?” urlò.

Mi si scagliò addosso con la furia di una tigre ferita ed iniziammo a lottare. Era forte, dannatamente forte, ma lo ero anch’io e, fortunatamente, avevo praticato arti marziali per molti anni. Riuscii a bloccargli la mano destra e lo colpii al volto con un sinistro, disarmandolo; sfortunatamente, la mannaia mi scivolò dalle mani. Il mostro ruggì e ripartì all’attacco, caricando a braccia protese. Non riuscii a schivarlo per bene e mi serrò la gola in una morsa d’acciaio, stritolandomi. Il maledetto iniziò a ridere come un indemoniato, certo di avere già vinto, ma riuscii a fargli mollare la presa ruotando il corpo e assentandogli una gomitata sulle braccia. Si rivelò essere sorprendentemente veloce e mi scaraventò a terra, poi mi saltò addosso, portando i denti alla mia gola. Gli bloccai la testa fra le mani con tutte le mie forze, mentre la sua bava colava sul mio collo. Sapevo che, se mi fossi arreso proprio in quel momento, sarei morto. Il suo fetore mi fece quasi vomitare. Il mostro continuava a spingere la testa verso il mio collo, mentre mi colpiva ai fianchi con dei pugni. In un tentativo disperato, riuscii ad infilargli i pollici negli occhi, e fu costretto a lasciarmi. Mi rialzai velocemente e mentre lui faceva altrettanto gli assestai un calcio nei testicoli; si piegò nuovamente sulle ginocchia, urlando come un animale; non persi tempo, raccolsi la mannaia e gli arrivai alle spalle. Lo afferrai per i capelli e gli tirai indietro la testa, poi abbattei la mannaia sul suo capo. Lo colpii, colpii ancora, ancora ed ancora, fino allo sfinimento. Mi accasciai al suolo, mentre il sangue zampillava copiosamente dalle sue ferite. Esausto, con il cuore che batteva all’impazzata, lanciai un grido. Ero salvo.

Mi rialzai dopo qualche minuto, ancora leggermente frastornato. Mi avvicinai all’uomo. Era prono, immerso in una pozza del suo stesso sangue, e dovetti sporcarmi le scarpe quando mi avvicinai. Lo voltai e lo esaminai. I colpi che gli avevo inferto avevano ridotto il suo viso ad una poltiglia disgustosa. Quell’orribile volto e l’odore nauseabondo che emanava il cadavere si fecero strada fino alle mie viscere; distolsi lo sguardo da quella raccapricciante visione e vomitai. Le mie gambe ripresero a tremare, e dovetti sedermi a terra per riprendere fiato. Dopo qualche minuto, mi sentii meglio. Voltai nuovamente il cadavere e gli frugai le tasche. Mi ripresi il telefono ed uscii dalla stanza, che risultò essere una cantina sotterranea. Trovai delle scale che mi riportarono di sopra. Mi ritrovai in una stanza buia; a tastoni cercai l’interruttore della luce e lo trovai. Quando la luce si accese, scoprii di essere tornato in cucina. Le tazze di tè, i bicchieri e la bottiglia di whiskey erano ancora sul tavolo. Ricordai che quel gran bastardo aveva accennato ad un paio di taniche di benzina e mi misi subito a cercarle, sperando che non mi avesse raccontato una menzogna. Dovetti frugare in diverse stanze, finché la sorte decise di aiutarmi. In un vecchio mobile del ripostiglio trovai finalmente le sospirate taniche. Le afferrai e uscii dalla casa. Fuori era calata la notte, e intorno a me c’era solo il silenzio. Cercai la mia auto, e  scoprii che il mostro l’aveva portata nel retro della sua dimora, sistemandola vicino ad un’altra macchina. Svuotai le taniche e girai la chiave: con mia somma gioia, il motore si accese! Prima di andarmene, tornai in casa ed ebbi cura di pulire con il mio fazzoletto di stoffa tutto ciò che avevo toccato, dalla mannaia alla tazza di tè, e annotai mentalmente il fatto di dover gettare le scarpe. Avrei fatto meglio anche a cambiare il cellulare. Mi soffermai per un ultimo istante ad osservare la foto sul davanzale. Chissà com’era andata con sua moglie…

Uscii dalla villetta senza guardarmi indietro, pensando solo alla mia amata Giulia.

Finalmente ero a casa. Spalancai la porta di ingresso e, conscio della sorpresa che avrei provocato, mi precipitai in cantina; avevo preparato quella stanza per Giulia, sistemandola con tutti i comfort: un letto, un piccolo gabinetto, cibo in abbondanza e un armadio con dei vestiti. Sbloccai la pesante porta blindata e trovai la mia amata Giulia seduta sul letto. Piangeva, evidentemente felice di vedermi. Sembrava che non avesse mangiato molto.

“Ti prego, non uccidermi! Non lo dirò a nessuno, lo giuro! Ti prego, ti prego!” disse Giulia.

“Suvvia mia cara, non disperarti. Potrei mai forse far del male alla mia amata?”

“Ti scongiuro, lasciami! Io ti capisco, ma devi lasciarmi andare!” ribatté lei.

“Giulia, ora basta. Non è la prima volta che fai questi discorsi, e ti ho già detto di no. Non lo capisci che ti amo?” le dissi, accarezzandole i capelli.

“No, non mi toccare!” strillò “lasciami andare, maniaco schifoso!” disse, sputandomi in faccia. Poi mi colpì al volto con un pugno e si lanciò verso la porta, ma io la afferrai e la scaraventai a terra. Dentro di me si fece strada l’amara consapevolezza che nemmeno stavolta avevo trovato la ragazza giusta, quella che avevo sognato leggendo i miei amati libri.

Uscii dalla stanza, chiusi la porta e mi sedetti a terra, piangendo in silenzio. Poi, con il cuore sanguinante e gli occhi rigati dalle lacrime, tornai di sopra e presi il coltello.


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