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Geordie

di alessandro venuto
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Pubblicato il 08/01/2020 15:50:45

‘Raccontami ancora quella storia sul vostro nome.’
‘Sono solo leggende.’
Distesi nell’erba alta sulle sponde di un ruscello, i due giovani scaldavano la pelle nuda sotto una coperta fatta di pelli di cervo nonostante il sole del mattino splendesse già alto nel cielo. L’inverno era stato duro e si era lasciato dietro una scia di morti per la fame e il freddo. La coltre di neve che aveva ricoperto il mondo aveva tardato a mollare la presa e la morsa del ghiaccio aveva costretto la gente dei villaggi a chiedere aiuto ai Longobardi chiusi dentro le mura di Papia, pur sapendo che l’avrebbero pagata cara in termini di usura su quanto dato loro per arrivare alla fine dell’inverno. Geordie si era indebitato come gli altri con il re Alboino e, una volta che questi era stato ucciso, avevano sperato di vedersi cancellare i debiti ma la delusione era stata forte quando il suo successore Clefi, salito al trono per volontà dei 35 duchi longobardi, aveva deciso che non sarebbero stati amnistiati. Le colpe del governo precedente non dovevano pesare su quello successivo, aveva proclamato. Alla miseria appena scampata si era quindi aggiunta quella aggravata dal debito e la miseria ha un brutto muso per chi come Geordie viveva facendo il porcaro in un momento storico nel quale tutti i maiali della gente fuori dalle mura erano stati mangiati ben prima che il lungo inverno fosse arrivato a metà del suo corso. Come molti ragazzi della sua età non gli era restato che cercare lavoro dentro le mura di Papia nonostante la diffidenza con la quale i Longobardi invasori guardavano la gente del posto. Eppure, nonostante tutto, era riuscito a trovare un impiego come pastore di pecore e questo gli aveva permesso di sopravvivere mentre molti intorno a lui morivano per il freddo. Aveva seppellito gli anziani genitori e numerosi amici nel villaggio nonostante avesse tentato di aiutare chi poteva dividendo le sue magre scorte di cibo finchè aveva capito che, se voleva avere una minima chance di sopravvivenza, avrebbe dovuto pensare a sé stesso e così aveva fatto, lavorando sodo per il nuovo padrone nel gelo che spezzava il respiro e congelava il volto. Come si possono pascolare animali quando il mondo è coperto da strati e strati di neve e ghiaccio? Ogni giorno doveva procacciarsi fieno e ortaggi da portare agli animali che, al caldo della stalla, stavano meglio di lui. Ma Geordie si prendeva il suo riscatto quando, non visto, riusciva ad attaccarsi alla mammella di qualche capra per rubare poderosi spruzzi di latte caldo. Come godeva allora della sensazione che ricavava da quel liquido tiepido che gli scendeva in gola e da quella, ancora più importante, del vigore che sembrava riacquisire nel corpo stanco e della lucidità che per un attimo tornava nella mente appesantita dalla stanchezza, dal sonno e dalla denutrizione. Per un po' era persino riuscito a portare del latte, ben nascosto sotto i vestiti in una bisaccia di cuoio, alla bambina del capovillaggio, un angelo biondo di circa quattro inverni che lottava come loro contro il gelo. Poi, un giorno che ne aveva preso più del solito e che tutto contento si stava avvicinando alla capanna più grande dove la bimba abitava, era stato fermato dal capovillaggio in persona che, con gli occhi gonfi e rossi, si era limitato a dire che lo ringraziava per quanto fatto fino ad allora ma che il latte non serviva più. Geordie aveva sentito il cuore fermarsi per un attimo sotto gli strati di vestiti e stracci che aveva indosso e, non sapendo cosa dire, si era limitato a mettere nelle mani del capovillaggio il sacco di cuoio con dentro il latte. Si era quindi girato e aveva preso a correre verso il bosco che circondava le loro capanne di legno e paglia e aveva corso, corso finchè non aveva creduto di morire per lo sforzo e la debolezza. Come si può piangere una bambina morta di fame e di freddo? Da quel momento fece un voto con sé stesso: sarebbe sopravvissuto a qualunque costo. Non importava altro.
Poi un giorno, in modo del tutto inaspettato, i primi raggi del sole avevano fatto capolino tra le nubi spesse e si erano fatti via via sempre più caldi. Ogni tanto era possibile sentire rumori come di un corpo morto che cade a terra ed erano immensi cumuli di neve che crollavano dai rami degli alberi liberandone i rami secchi che tendevano verso il cielo plumbeo simili a braccia di scheletri; ovunque, dove prima una sola eterna distesa di neve immota accompagnava lo sguardo, era possibile adesso scorgere l’emersione di radure erbose e, gonfi d’acqua, dei corsi dei fiumi. La vita tornava cavalcando i raggi del sole. I campi vennero nuovamente seminati mentre le gemme che adornavano i rami di pietre preziose diventavano fiori e promettevano frutta abbondante. Chi era sopravvissuto all’inverno si risvegliava alla vita in una primavera abbagliante di colori e fragranze che il vento portava con sé. Sui prati si rincorrevano saltellanti coppie di lepri dal pelo bruno e farfalle variopinte volteggiavano sul pelo dell’erba tra i fiori, mentre le api si posavano con maestria sulle loro corolle in cerca di nettare. Il sole aveva ormai preso pieno possesso del cielo ed ebbro del suo potere andava ormai a coricarsi sempre più tardi, rubando tempo alla notte. Era il tempo della semina, della musica e degli amori. Tutto invitata a rincorrersi, a vivere la vita per come era, senza chiedersi il perché, al suono del liuto e alle romanze cantate sotto le stelle. I sopravvissuti del villaggio di Geordie, esseri umani simili alla pietra e al legno della loro campagna, gente di mestiere, contadini, fabbri e artigiani, non si erano persi nello sconforto per chi non c’era più ma avevano accettato l’invito della vita che si risvegliava e si ritrovavano ogni sera intorno al fuoco accesso nello spiazzo centrale, davanti alla capanna del capo, per dimenticare almeno per un po' le fatiche dei campi e delle officine e per bere e cantare insieme.
Poi, insieme alla primavera, era arrivata lei.
‘Ti prego, racconta.’
Geordie, disteso su un fianco, stringeva a sé il corpo esile della ragazza e lo osservava una volta di più con quel misto di piacere e sorpresa che dà sempre il contatto con qualcosa di nuovo ed esotico: la pelle chiara come la neve sembrava in qualche modo una tonalità del biondo sottile dei capelli lunghi che, sciolti, ricoprivano di un velo d’oro la terra bruna e l’erba verde. Le labbra rosse e morbide risaltavano su quel viso pallido così come gli occhi castani nei quali sembrava che un pittore esperto avesse inserito pagliuzze di filigrana, le stesse che aveva usato per dipingerle il pube. Oh, si sarebbe mai stancato di guardarla?
Geordie non aveva mai visto niente di simile.
La ragazza sorrise e si girò a fissarlo negli occhi verdi quindi con un gesto veloce gli scompigliò i capelli scuri, già arruffati dopo l’amore.
‘Ok, adesso mammina ti racconta la storia che ti piace tanto.’
La sua voce gentile si esprimeva in un volgare stentato, connotato da un forte accento straniero che evocava in Geordie fantasie sulle terre lontane dalle quali quella gente era venuta, le pianure dell’Elba e poi ancora più a nord, terre di sassoni, gente dura armata dei lunghi coltelli dai quali prendeva il nome.
‘Tanto tempo fa il mio popolo, guidato dai re Ibor e Aio, si mise in marcia per cercare nuove terre da abitare e arrivarono nelle terre dei Vandali, guerrieri poderosi e nemici temibili.’
‘Certo che ovunque andiate portate pace e prosperità.’
Geordie rise di gusto per la sua uscita mentre la ragazza assunse un finto broncio.
‘La mia è una razza di esploratori, non solo di guerrieri. Gli dei.. Dio ci ha creato così, non si può sfuggire al proprio destino. Siamo lupi e come tali siamo sempre in cerca di nuovi territori di caccia. E se vuoi che finisca la storia devi fare il bravo bambino e stare zitto.’
‘Come ti permetti!’
Geordie prese a farle il solletico poi la immobilizzò sotto di sé e, mentre la penetrava di nuovo, si perse in quegli occhi scuri come la terra fertile dalla quale venivano.
Teodolinda era la figlia del nobile che gli aveva dato il lavoro. Si erano piaciuti da subito, senza troppi perché, e avevano iniziato a frequentarsi ben sapendo i rischi ai quali la loro relazione li esponeva. Da settimane ormai bastava loro sellare uno dei cavalli del padrone e galoppare via lontano da tutta quella gente, dai popoli divisi tra loro da una palizzata di legno e pietra, dalle ingiustizie e dal potere, per perdersi in boschi senza padrone e tramonti che sembravano fatti apposta per l’amore.
Quando si ritrovarono di nuovo sdraiati uno vicino all’altra, ansimanti e sudati, Teodolinda riprese il racconto.
‘Il capo dei Vandali chiese ad Odino di concedere loro la vittoria contro la mia gente ma Lui rispose che avrebbe concesso la vittoria a quel popolo che sarebbe apparso per primo sul campo di battaglia. Noi invece chiedemmo aiuto a Freya, moglie di Odino e dea dell’amore e della fertilità.’
‘Lei mi piace molto’.
‘Non ne dubito. E comunque zitto.’ Teodolinda guardava assorta un punto lontano nel cielo, dove alcune rare nuvole bianche si muovevano lente nel vasto azzurro. Il rumore del ruscello sembrava essersi alzato di tono nel silenzio che era sceso proprio mentre il sole raggiungeva il suo zenit: uccelli e api sembravano essere andati a riposarsi e la corrente del ruscello cantava argentina a pochi metri da loro nella tarda mattinata.
Geordie avrebbe tanto voluto che qualcuno suonasse per loro un liuto per accompagnare quel momento così meraviglioso. Allungò un braccio e cercò con le dita, nella tasca interna del mantello che giaceva accartocciato tra i vestiti buttati nell’erba, la forma dura di qualcosa al quale teneva molto e che fu felice di trovare dove lo aveva lasciato quindi si strinse di nuovo al corpo di lei.
‘Freya ordinò che uomini e donne si presentassero insieme, al sorgere del sole, sul campo di battaglia e che le donne legassero i capelli intorno al volto, sotto il mento, come fossero barbe. In questo modo avrebbero ingannato i Vandali. La mia gente si dispose prima degli altri sul campo di battaglia e al sorgere del sole Freya fece in modo che gli occhi di Odino si posassero su di loro. Stupito, il dio chiese alla moglie chi fossero tutti quei guerrieri dalle lunghe barbe. Da quel momento noi siamo i Longobardi, ovvero il popolo dalla lunga barba.’ Geordie raccolse con dita tremanti i capelli sciolti di Teodolinda e li dispose tutti intorno al volto di lei, quindi si allontanò un po' per guardare divertito l’insieme.
‘Si, niente male, non c’è che dire. La barba ti dona davvero.’
‘Almeno io ce l’ho!’ rispose lei prima di saltare addosso a Geordie atterrandolo. Lui la guardò senza opporre resistenza. ‘Sei bellissima, Teodolinda. E c’è una cosa che devo dirti.’
Lo sguardo di lei si fece serio. Era persino più bello. Geordie le chiese di mettersi a sedere e lei si mise al suo fianco, coprendosi il corpo nudo con la pelle di cervo. Sembrava una bambina dell’antico popolo. Geordie cercò qualcosa nel mantello e lo tenne chiuso nel pugno.
‘Chiudi gli occhi. Bene. Apri questa mano. Perfetto.’
Qualcosa di freddo le era scivolato lungo un dito della mano sinistra.
‘Adesso aprili.’
Un anello d’oro decorato con motivi arborei di pregiata fattura faceva bella mostra di sé e Teodolinda si potò una mano alla bocca per soffocare un grido di sorpresa. Era bellissimo. Bello ogni oltre immaginazione. Ed era forgiato dalla sua gente. Longobardo. Gli occhi si riempirono di lacrime.
‘Ma come hai..’
Geordie si mise in ginocchio davanti a lei, nudo come un satiro, tremante più per le emozioni che provava che non per il freddo.
‘Teodolinda, so che è una follia ma vuoi..’
Fu allora che, troppo tardi, sentirono il rumore degli zoccoli di numerosi cavalli in avvicinamento.

Geordie non aveva mai visto tanta gente riunita insieme in una piazza. Non pensava che Papia potesse contenerne tanta ed eccoli tutti lì, assiepati intorno all’esile piattaforma di legno dove era stata montata in modo del tutto approssimativo una forca.
Uomini, donne e persino bambini si spingevano tra loro per avere il posto più avanti, quello da dove vedere meglio; avevano per lo più visi sporchi, vesti lacere, occhi spenti accesi di tanto in tanto dal gusto per quel macabro spettacolo. Quel giorno un uomo sarebbe morto. Niente attira di più la gente semplice che lo spettacolo della morte. Il boia, grasso e sudato, attendeva l’arrivo degli uomini del re per procedere all’impiccagione e quando questi arrivarono tirò un respiro di sollievo. Per fare le cose bene devi farle in fretta, soprattutto sul patibolo. Un uomo magro e ben vestito salì sulla piattaforma e con modi affettati impose il silenzio alla folla berciante, un mare di persone che ondeggiava nel calore del pomeriggio. Reggeva in mano una pergamena che srotolò davanti al volto dopo averla liberata dal cordino fissato da un sigillo di cera rossa quindi lesse con voce perentoria:
‘Popolo di Papia, a nome del re Clefi condanno a morte per impiccagione quest’uomo, Geordie, per aver rubato sei cervi dal parco reale. I cervi non sono stati rubati per fame, cosa che il nostro amato re avrebbe capito e perdonato, ma per denaro.’
Un coro di offese e fischi si alzò dalla platea, ben ammaestrata dal dominatore sul modo di comportarsi in simili occasioni. L’emissario del re alzò una mano per chiedere silenzio. Geordie, in ginocchio vicino al boia, si guardava intorno per cercare, tra quei volti sconosciuti, l’unico che avesse mai amato; tra quegli infiniti occhi gli unici due che, come stelle, lo avrebbero guidato sereno dalla Nera Signora. Allo stesso tempo sperava però di non vederli, di non incontrare il volto di Teodolinda nella folla, lei non meritava di assistere a quello spettacolo. Era tutta colpa sua. Lui aveva rubato i cervi e sì, li aveva venduti e non per fame, è vero, per fame aveva lavorato e patito la fame e il freddo, per fame aveva seppellito la bambina del capovillaggio e i suoi stessi genitori, no, conosceva la fame e non aveva rubato per questo. Aveva rubato per amore. Per amore aveva venduto i cervi e col ricavato aveva fatto forgiare dal miglior fabbro di Papia un anello longobardo con il metallo fuso dei monili appartenenti ai suoi stessi genitori, tutto ciò che di loro gli rimaneva.
‘La cupidigia ha spinto quest’uomo a rubare i cervi e da essa sarà punito. Il nostro re ha decretato che il condannato sia impiccato con una corda d’oro, un privilegio raro.’
Un secondo uomo si avvicinò al patibolo e passò al boia un cuscino sul quale era deposta una corda dal colore simile alla paglia. Geordie si sentì mancare. Non era corda normale. Conosceva bene i capelli con i quali era stata intessuta. No, non lo stavano punendo per il furto dei cervi. Ma per amore.
Dalla finestra di una torre che dava sulla piazza principale, Teodolinda mordeva con forza le lenzuola del suo letto per non urlare mentre passavano la corda intorno al collo di Geordie. Si passò una mano sulla testa rasata, poi chiuse gli occhi e pianse.



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