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Lauda di San Gramo

di Davide Savorelli
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Pubblicato il 11/04/2021 14:40:00

 

L’avevan nomato San Gramo per i suoi miracoletti pidocchiosi, per i suoi portentucoli micragnosi... Oh, ma pur sempre miracoli erano! C’era chi aveva iscampato una grandinata sulle messi, chi aveva avuto la benedizione di guarire dalla pellagra, chi aveva ottenuto d’iscacciar i vermi dalle magre pance de’ figliuoli, chi aveva ricevuto la misericordia di fermare una moria nella stalla o di stornare da sé un pervicace giradito o un recalcitrante orzaiolo, tanto per mentovare qualche exemplo... Poca roba, si dirà, ma intanto, piuttosto che niente... Insomma era un santo profeta romìto. Lo diceva il popolo e, si sa, la sua voce è quella di Domineddio. Com’era come non era, tutti credevano che Gramo fosse stato un tempo un canonico d’una qualche ispecie, ma che poi si fosse fatto ribellante e avesse deciso di ritirarsi in luoghi aspri e selvaggi. Bardato solo d’un lacero sanrocchino, colà meditava e pregava con ascetico fervore. Mezzo scalzo, mezzo ‘gnudo, di magrezza chiodigna, occhi grifagni, barbaccia intricata e arruffata chioma da sottobosco, si spostava con l’aiuto d’un vincastro d’olivo. Così scalava erte e balze, facendo riecheggiare dei suoi passi le lande desolate. Terre da lupi adatte al selvatico in cui il benedett’uomo s’era trasfigurato.

Che da qualche parte ci fosse, tutti lo raccontavano. Che qualcuno l’avesse visto, era tutt’altro affare. Infatti quelli che volevano da lui un vaticinio, una grazia o anche solo una buona parola dovevano seguire un annoso rituale ben preciso.

Il postulante, maschio o femmina che fosse, s’aveva d’alzare alle settalbe, ieiuno e con solo un poco d’acqua fresca in corpo. Poi doveva incamminarsi per il sentierino, che si dipanava tra alberi maestosi e incombenti, fino a una radura delimitata dai dodici massi d’arenaria, verdeggiante di muschio. Si raccontava che ogni sasso avesse una sua specialità. Ovvero: ciascuno presiedeva a un aspetto della vita di cui l’interrogante voleva sapere. Ma il difficile era conoscere quello appropriato per la richiesta. Tanto complesso era indovinare l’altare rupestre a cui rivolgersi, che i roganti s’erano rassegnati a determinarlo con l’alea di due dadi. Il questuante di risposte doveva poi inginocchiarsi di fronte alla roccia prescelta e domandare con un sussurro oppure lasciare un oggetto, che significasse l’argomento per cui s’attendeva il responso. Niente scritti poiché le villiche genti di quei luoghi ben poca dimestichezza avevano con lapis e abbecedari. Formulata che fosse la domanda, c’era da levarsi all’impiedi, farsi il segno della croce e rincasare. Trascorso un quarto di luna, si tornava a verificare, sperando che il taumaturgico asceta avesse elargito il suo oracolo. Spesso non c’era, forse perché s’era sbagliato pietrone, ma, qualora fosse rinvenuto, brillava per sibillina incertezza.

Talvolta era una parola, tal’altra eran due. Rarissimamente una frase. Il tutto vergato con del carbone su una liscia corteccia di betulla bianca. Ai fortunati che avevano azzeccato l’ara muscosa, non restava che tornare a valle e portarsi al soglio della Ramìra. ‘Gnoranti di terragna e crassa ‘gnoranza, a essa sola delegavano il compito, per loro impossibile, di decrittare i segni del venerato eremita. Abitava costei in una capannuccia sull’ansa del fiume, dove allevava un quattro polli, qualche sparuto conigliolo e una capra spelacchiata. Per lo più si nutriva d’erbe e di qualche pescetto, catturato con una nassa di vimini. Così, a compensare la di lei consulenza, bastava un sacchettino di canapa ricolmo di farina di farro. Ma bisognava annunciarsi, se non si voleva che il suo cagnaccio rognoso t’addentasse i polpacci. Per evitare l’aggressione di Costola, così si chiamava la bestiaccia infame, c’era da far tintinnare una campanella rugginosa. Si scuoteva la cordicella sfilacciata, che pendeva in cima a un palo d’olmo, e il reiterato ta-tlan metallico acquetava la fiera crudele e diversa. Al richiamo fesso del sonaglio malandato, s’appalesava la Ramìra all’uscio. Seppur avesse un occhio che guardava a Cristo e l’altro a San Giovanni, squadrava il viandante e poi gli accennava di farsi avanti. Il numinoso lasciapassare della sapiente, accoppiato all’urlaccio gutturale scagliato al guardiano ansante di fame, garantiva l’accesso.

La Ninona aveva fatto tutto per bene. Vuoi per istinto, vuoi per beneplacita condiscendenza della sorte che non le era mai stata amica. Con lo stomaco tonitruante di vacuità antelucana, aveva scarpinato fino alla magica radura per affidare il suo quesito a San Gramo. Sgocciolati via i giorni d’ansiosa attesa, era tornata con la fronte aggrottata di timore e speranza. E là aveva trovato ad attenderla il ligneo lacerto predittorio. Lo aveva ghermito con la manaccia sudicia e se l’era stretto al petto, quasi paventando che qualcuno glielo potesse sottrarre. Rinculando, ringraziando e mormorando giaculatorie all’inafferrabile sant’uomo, s’era affrettata a radunare la spettanza della Ramìra. E con la medesima furia smaniosa aveva raggiunto l’argine, nonostante la sua rotonda pinguedine. Intabarrata di scialli, il di lei rosso faccione brillava di sudore e d’aspettativa. Con la destra si teneva le cocche del fazzolettone sotto la pappagorgia, mentre la mancina stringeva il vergato frustolo di gramesca fattura. A tracolla la sporta gonfia di farinosa ricompensa.

«Vien qui», le intimò la Ramìra. E la concessione originò il sorriso sdentato della Ninona.

Si fece avanti con un inchino, adocchiando il brontolante Costola di ringhi sommessi e, al tempo stesso, le proprie caviglie sgraffiate di pruni, lascito della mattana nel precipitoso ritorno dal bosco. Rubiconda e devota, piena di rispetto e incurvata di soggezione, la Ninona la salutò a occhi bassi, ma badando bene di far ballonzolare la borsa generosamente onusta. Nello sforzo di rimarcare la ricca mercede a scambio del servigio, anche le cicce sovrabbondanti accompagnarono il movimento sussultorio in un’inopinata onda lardellosa.

«Be’? Che c’hai?», la riscosse rurale reggitora.

«Mah... ‘na roba... qui», intendendo sia l’oracolo nella sinistra sia il mezzo staio farroso.

«Che roba?», fece perentoria l’altra.

«San Gramo...», specificò con un sibilo da congiura.

«Vien dentro», le comandò voltandole le spalle.

La Ninona la seguì all’interno, un po’ inquieta. Si fece un rapido segno della croce all’ingresso della stamberga in penombra. Odore di fumo e pulviscolo ondeggiante nel sole, che entrava a forza dall’unica finestrella offuscata di sporcizia.

«Siediti giù», le impose l’ospite, facendo altrettanto al lato opposto del tavolaccio malandato. Lei obbedì, posando sull’impiantito scheggiato l’emolumento del baratto. Si preoccupò solo che la seggiola impagliata fosse sufficientemente robusta per le sue forme debordanti.

«Allora? Dov’è? Che non c’ho mica tutta la mattina», la sollecitò scontrosa la Ramìra.

«L’è qui», rispose rapida la Ninona, allungandole lo scorzoso frammento betullino.

La Ramìra lo accolse solenne, quasi fosse una reliquia di Nostro Signore. Scorse strabica la sentenza, compitando a fior di labbra e poi domandò brusca: «Cos’hai chiesto?».

La Ninona si vergognava un poco a rivelarlo, tanto che un’improvvisa vampata le imperlò il baffuto labbro superiore. Pur avendo già superato l’età sinodale dei quaranta, ancora si considerava una donna piacente. E, nonostante in gioventù avesse elargito, con entusiasmo e senza risparmio, le di lei muliebri grazie, s’era fatta, col passare del tempo, una figlia di Tortìa, che tutti la vogliono e nessuno la porta via. Una zitellona, insomma, di nome e di fatto, per giunoniche proporzioni. Però... però ci aveva un verro e quattro scrofe, una qualche biolca d’ubertosa campagna e un tetto sulla testa. Mica poco, tutto sommato, anche considerando che, figlia unica, era la sola erede del lascito genitoriale. Se l’era sempre passata piuttosto bene, quindi, ma adesso, con le caldane che la fiaccavano peggio che se avesse zappato tutto il giorno, non ce la faceva più a mandare avanti la cascina da sola. Allora s’era rivolta a San Gramo, impetrando che gli mandasse un ometto a darle mano, a farle compagnia nelle serate d’autunno, a scaldarle i piedi nelle lunghe notti iemali.

«N’òmo», esalò con virginale ritrosia.

«N’òmo, eh? Be’, San Gramo ti ha accontentata», le rivelò la Ramìra, restituendole l’epigrafe lignea.

Lei la ripigliò titubante, peggio che fosse uno spiedo ardente, ma non aveva comunque risolto il busillis: per quanto almanaccasse, strologasse e si lambiccasse il senso di quegli sgorbi neri rimaneva duro. Serviva la parola rivelatora della Ramìra a spazzar via la bruma dal verdetto di San Gramo. E infatti la Ninona reiterò l’interrogativo corrucciando le sopracciglia.

«Dice che ti tocca l’Antenore, il Vinaccia», squadernò la sacerdotessa laica.

Il Vinaccia? Dio ne scampi e liberi! L’Antenore no! Proprio no! La Ninona lo conosceva fin troppo bene... come tutti del resto. Il Vinaccia doveva il cognomen ex virtute alla sua mai doma passione per la grappa. La cui diuturna assunzione ne aveva fatto segno della riprovazione popolare anche in quei luoghi, dove si era pur di manica larga con chi indulgeva nei piaceri di Bacco. L’appellativo lo designava pertanto con acuta efficacia e lui, anziché adombrarsene, ne menava vanto, quasi che fosse un’invidiabile qualità. C’è da dire che il reiterato esercizio di gomito, le prolungate sbicchierate e una certa natural predisposizione gli consentivano l’assunzione di quantitativi leggendari, ben al di là delle comuni possibilità. Tuttavia anche la Ninona l’aveva visto più d’una volta barcollante e malfermo sulle gambe al termine di nottate di libagioni scriteriate. Una mattina che andava a far legna, che il sole non era ancora venuto su del tutto, se l’era trovato lì davanti, buttato in un fosso che dormiva. Stracco di grappa, russava rugliando, grugnendo tra le ghiande cadute d’una vicina quercia.

«No! L’Antenore no!», s’oppose risoluta ad alta voce.

«Eh ma non funziona mica così, ve’! - la rintuzzò la Ramìra - Hai chiesto a San Gramo? Sì. Hai avuto la risposta? Sì. E adesso devi fartela piacere!».

«Ma me il Vinaccia mica lo voglio... Figurati te!», provò a scansare il suo dannato destino.

La Ramìra si strinse nelle spalle, a significare la sua impotenza di fronte al dettato fatale: «Ormai non c’è più niente da fare: San Gramo ha detto l’Antenore e tu l’Antenore ti pigli! - ribadì con decisione - Sennò lo sai cosa capita...», le rammentò vaga e minacciosa.

Già, la Ninona lo sapeva bene cosa succedeva a chi, una volta interpellato San Gramo, non ne seguiva i precetti: disgrazie come se grandinassero, che ti cascano addosso, che vengono giù tra capo e collo come se fossero state pagate. Insomma c’era da rassegnarsi: nolente e dolente era obbligata a portarsi in casa il Vinaccia. Senza aggiungere altro, si alzò affranta di delusione. La seggiolina scricchiolò di sollievo. Prese la sacca da terra e la schiaffò con malgarbo sulla tavola. Scagliò lontano da sé la gramesca silvestre condanna e uscì, senza neanche salutare la Ramìra.

Costola le si avvicinò digrignando i denti, lei gli mollò un pedatone rabbioso che lo rimise subito in riga: il torvo ringhio si trasformò tosto in arrendevole guaito. Il cane batté in ritirata con la coda tra le gambe sotto lo sguardo furente della Ninona. Per quel giorno la misura era già colma: aveva già avuto la sua razione di dispiaceri.

«Ma Signor che brutte robe! Ma pensa te cosa mi ci doveva capitare proprio a me!», si lamentava angustiandosi sulla via del ritorno. «Che poi dico me: non volevo mica l’Angilone che è bello e biondo, grosso e forte come un bue e che c’ha la pelle rosa e tirata da porco spellato... no! Ma qualcosa di meglio dell’Antenore sì! Mi ci bastava poco alla fine della fiera!». Delusa e iraconda, la Ninona bestemmiò San Gramo ma sottovoce: non si sa mai.

Sola e pensosa per i più deserti tratturi petrosi che segavano il bosco nebbioso, raggrumata nelle sue venture magagne, udì un fru fru fra le fratte, come di verzure scompigliate. La Ninona si bloccò, tondeggiante statua di sale infagottata. Cos’era? ‘Na bestiaccia? Rimase in ascolto. Sì, qualcosa si avvicinava. Poi la creatura si era fermata. La studiava? La puntava? Cosa poteva essere? La Ninona non dovette aspettare molto per scoprirlo: prima ne percepì il puzzo nauseabondo, poi le frasche s’aprirono e apparve. Era una Buba! E la Ninona cominciò a tremare, perché subito rammemorò l’antico detto di quand’era bambina: “Se vedi la Buba nel pantano, gambe in spalla e scappa lontano”. Enorme e infangata, dal ghigno feroce, con le orecchie ritte e una chiostra d’irti canini, l’animale le puntava addosso gli occhi rossi, mentre raspava d’artigli la terra umida. Intuì che in meno d’un amen le si sarebbe avventata addosso. San Gramo la puniva così per il suo sacrilego vituperio? La belva fece un passo verso di lei. Poi un altro, frustando l’aria con la coda squamosa. L’assalto era imminente, preannunciato dal ruggito nascente nella gola ingorda. Un balzo e sarebbe tutto finito per la Ninona. Chiuse gli occhi, raccomandandosi l’anima: incapace di reagire, attendeva rassegnata l’unghiata mortale.

E invece sentì un urlo disumano e poi lo schiocco fragoroso d’una legnata. Poi un verso belluino e poi un trambusto di fogliame scompigliato. Poi un ansimare affannato nel silenzio. Disserrò le palpebre e lo vide: era l’Antenore, il Vinaccia. Con un rudimentale sbandapelo d’ontano, che si era spezzato nell’impatto sulla schiena della Buba, la fissava trionfante.

«L’era da un bel pezzo che la cercavo quella lì: - dichiarò, accennando alle sue spalle - la mi ha ciucciato tutta la grappa che ci avevo nella botte. - si giustificò - Vediamo se adesso ha imparato qualcosa, se ha imparato di sì... che a me mi sta bene tutto, ma che mi freghino la grappa proprio no, quello non ce la faccio mica a mandarlo giù!».

La Ninona lo osservò ammirata, sotto una nuova luce: le aveva salvato la vita e, valutandolo così, a cicca e spanna, non era mica neanche tanto male il Vinaccia.

«Come stai, ve’?», s’informò lui in un rigurgito di galanteria rusticana.

«Vieni a casa con me?», si sorprese a proporre lei, con sgraziata civetteria.

«Ma sì dai... c’hai della grappa?», timoroso che l’invito si risolvesse a bocca asciutta.

“Ma sì Antenore! Per chi mi ci hai presa?», confermò lei con una risatina che voleva essere invitante e che comportò un tremolio ciccioso.

«Ben! Allora andiamo!», acconsentì il suo nuovo paladino. E la prese sottobraccio, con una confidenza che la Ninona trovò fuori luogo, anche se il contatto le causò un brivido di dimenticata eccitazione, di lustri andati e rimpianti.

S’incamminarono. Lui ancora guatando d’intorno, a scongiurare un possibile ritorno della Buba, lei a mangiarselo con gli occhi da sotto in su.

«O San Gramo dal bel muso, guarda in basso, guarda in suso, fà un prodigio fuor dell’uso», filastroccò la Ramìra, sorridendo dolorante e levandosi il travestimento da Buba.

 

 

[ Opera prima classificata al Premio Babuk - Proust en Italie, VII edizione 2021, Sezione B ]

 

 


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