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Quella mattina Apollo

di Salvatore Violante
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Pubblicato il 21/01/2010 17:16:42

(a Prisco De Vivo)

Quella mattina Apollo si levò di malumore. La fatica del suo vivere ozioso l’irritava. Prese la sua arma per rendere più piacevole quella giornata.
L’aveva costruita con cura. Un proiettile di Browning M2 montato su una base di legno faticosamente inciso. Aveva modellato con il suo affilatissimo coltello un pezzo di sorbo. Il proiettile gli era comparso davanti così, mentre tempo addietro bighellonava scalciando tutto quello che gli capitava fra i piedi lungo la strada che portava all’ippodromo. Questa, in terra battuta, costeggiava il perimetro dei vigneti che da Terzigno risalgono l’immensa fornace del vulcano. Quella mattina si avviò per la stessa strada.
La caccia l’avrebbe sollevato. S’era approvvigionato di polvere da sparo da Leopoldo, alla fabbrica dei fuochi: era una casupola sperduta fra le colline di lava, lontana dal centro abitato. Era bello inoltrarsi nella pineta, sentire il soffice letto d’aghi di pino che, ammorbidendola, rendevano la camminata leggera e silenziosa. Il suo occhio era attento, avvertiva ogni movimento mentre l’orecchio era pronto a percepire persino il leggero fruscio delle foglie del vecchio castagno che la brezza solleticava. Non lo distraeva né lo splendido spettacolo del golfo che si stendeva sotto da Sorrento a Napoli, né il profondo silenzio che saliva dal bosco. Cupido comparve d’incanto da un cespuglio di ginestre fiorite.–Che diavolo ti succede, sei diventato poeta? A vederti così solitario potrei crederci davvero.– disse ad Apollo sorridendo. Questo irritato rispose: –non dare a me prerogative che ti appartengono. Sei tu il femmineo, il dolciastro, il bellino. Io sono ben armato sotto e sopra, come si dice, un bel maschio, perciò niente può resistermi e, ancorché avvenisse, saprei come fare.–
In quel frangente, una lunga biscia nera scivolò in cerca di un raggio di sole che riscaldava un pezzo di lava nerissima.
Bum, e la sua testa si appicicò alla pietra; il resto si dibatteva in una cieca agonia. Apollo aveva sparato senza interrompersi: –eccoti una lezione di efficacia, altro che le tue smancerie da impotente.– Cupido lo guardò irridente, nauseato dalla violenza. –Sei tanto virile quanto stupido e non hai cuore! Per questo non comprendi la forza dei sentimenti e l’energia che si nasconde nel profondo del petto! L’uomo di queste terre ha in sé una piccola fucina ricavata da quella più grande del Vulcano. È lì che modella armi invisibili che sprigionano un’energia fantastica. Tu ne sei sprovvisto perché manchi d’immaginazione e riesci a forgiare solo attrezzi visibili e banali. Voglio essere benevolo e mostrarti questa meraviglia. Vedrai come sia possibile bruciare per autocombustione. Assaggerai l’amore fino a morirne. Così imparerai a tue spese di quale forza siano dotate queste armi.–
Disse questo, mentre la curva del sentiero scopriva un prato di alti papaveri rossi che occhieggiavano i corimbici fiori rosa dell’officinale valeriana. Disparve così, dietro la curva, mentre l’altro s’era attardato ad infilzare la preda e a deporla nella sacca. Apollo riprese il cammino subito dopo. Il suo passo s’era fatto ansioso, s’aspettava di ritrovare Cupido poco dopo la curva. Giuntovi non poté credere ai suoi occhi. Al suo posto scorse Dafne sulla sommità del sentiero, di spalle, priva di sospetto. Quel giorno avrebbe dovuto raggiungere i genitori per la raccolta delle nocciole.
La sua gonnellina di panno fiorito le copriva appena metà delle cosce. Stava prona e raccoglieva papaveri; l’ingenua non sospettava di mostrare due coppe candidissime appena segnate a metà da una pennellata di nero.
Così apparve ad Apollo e lo stupore gli bloccò il sangue. –Possibile?– pensò, –Cupido? Con queste sembianze?– Fu solo un attimo. Poi sentì il sangue rifluire e gonfiargli le tempie mentre un irresistibile desiderio gli gonfiava il cuore ed il membro. Si avviò quasi di corsa, attratto da quelle natiche, ansimando: –amami creatura divina, fammi rinfrescare alla tua fonte, donami il frutto di melagrana, presto, l’incendio mi scioglie, non farmi bruciare.– Dafne a sentire i sospiri si voltò di scatto e scorgendo il viso stralunato di Apollo ne fu atterrita. – Gesù, Gesù, aiutami, disse scappando tra i fiori, mantienimi pura, non lasciarmi preda dell’artiglio di Satana!–
Il Signore quella mattina era ben disposto. Dafne più volte aveva chiesto un suo segno. C’era una radice di pino che fuoriusciva dal terreno di quel sentiero. Frastornato dalla passione e dalla lussuria, Apollo v’incappò finendo disteso sulla finissima sabbia. Più volte tentò di rialzarsi ma poté appena sollevare la testa. Impaurito si guardò intorno. Vide una pozza d’acqua in un bacile naturale di lava. Vi si trascinò e, specchiatosi, finalmente si rese conto. Era divenuto nero e serpente: un biscione più grande di quello che aveva assassinato. Ne restò stravolto. Anche così, il fuoco continuava a consumarlo dentro, mentre, irresistibile, una forza misteriosa lo costringeva. Si mise a strisciare lungo il sentiero sibilando il proprio desiderio.
Infine la vide a distanza la bella giovine, mentre il suo corpo svaniva come fumo dentro un giovane fico selvatico. Non poté fare altro che cingerlo con le sue spire e così restare avvinghiato, fino alla fine.
I contadini che passano da quelle parti raccontano di un fico selvatico che, miracolosamente, si è messo a fruttificare. I frutti bianchi e dolcissimi sono di una specie nuova. Aperti, mostrano una polpa bianca all’interno: due mezzelune divise da un segno nero. Dicono pure che il fusto del fico è ancora stretto dalle spirali fossilizzate del serpente. Dicono…., ma potrebbe essere un antico rampicante parassita.

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