Di solito a novembre il tempo è grigio qui a Rotterdam, ma quando mi sono svegliato questa mattina era tutto chiaro, una nebbia fitta, che sembrava ovatta, riluceva fuori dalla finestra.
“Che strana luce”, ho pensato, e mi sono tirato su a sedere appoggiandomi al cuscino sgualcito, per osservare meglio la nebbia lattiginosa, che stava lì immobile e mi fissava come io fissavo lei.
In questo momento, su un treno che sta deragliando, sto realizzando che, in quell’istante, ho percepito in che limbo stessi vivendo, immerso in un biancore impalpabile.
Mi chiamo Simon, ho trentacinque anni, abito da solo, lavoro come consulente informatico, passo giornate scandite da attività senza emozioni. Sono stato timoroso e prudente fin da bambino, e crescendo ho continuato a scansare responsabilità e rischi.
Cosa c’è di più normale di un viaggio in metropolitana? Solita tratta, sedili umidicci, un odore stantio di persone stanche, cellulari che suonano, conversazioni smorzate dal rumore del treno. Molte facce note di pendolari, a volte qualche ragazza carina, un ubriaco che puzza di birra e tiene in mano il solito sacchetto per il prossimo sorso.
Abito fuori città, in un quartiere di case nuove, vicino al fiume Mosa, non distante dal capolinea della metropolitana di superficie. Dal ritorno dal lavoro, in questo tardo pomeriggio gelido, nebbioso, pungente, il treno sulla sopraelevata si è via via svuotato, e come al solito siamo rimasti in pochi, pronti a scendere all’annuncio metallico di “Spijkenisse”, solitamente attutito dal rumore dei freni. Non mi sono neanche alzato quando ho visto le luci della stazione, tanto il treno si sarebbe fermato alcuni minuti per poi riprendere la corsa in senso contrario.
Mai dare niente per scontato: oggi niente fermata, niente arresto, niente di niente, il treno ha preso velocità, un lampo grigio e rosso diretto verso il fiume oltre la barriera protettiva alla fine dei binari.
Adesso brividi di paura mi scuotono da capo a piedi, sono pietrificato mentre altre persone urlano e battono sui vetri, di fronte ho due ragazze che si abbracciano, le loro pupille sono dilatate in un modo che non pensavo fosse possibile. Fuori è buio e mi dispiace non poter vedere il cielo azzurro per un’ultima volta.
Come sarà precipitare? L’acqua grigia sfonderà i finestrini ed entrerà irruente per cancellare tutto?
Il ragazzo di colore seduto poco distante sta girando un video con il telefonino, chissà con chi sta parlando, tutte le mie forze sono concentrate sulla morsa che mi attanaglia lo stomaco.
Io non so neanche più se ho un cellulare, se l’ho mai avuto, anche se riuscissi a trovarlo nello zaino chi potrei chiamare in questi ultimi secondi che mi rimangono? Cosa potrei dire d’importante? Non posso negare l’evidenza: la mia vita è priva di senso, troppe decisioni lasciate in sospeso e me ne accorgo adesso che sto per fare un salto nel vuoto.
Chiudo gli occhi quando sento il vagone inclinarsi e poi avverto il botto ed il brusco arresto, mentre rotolo urtando i sedili, scivolando su una pozza che odora d’urina. Batto la testa ed il mio piede rimane incastrato, avverto il sapore del sangue in bocca, devo essermi rotto il labbro.
Che morte stupida, ma esistono morti intelligenti? La prossima volta mi prenoto per un’uscita senza effetti speciali.
Sono accartocciato su me stesso in posizione fetale, ho freddo ma non c’è acqua a sommergermi: odo ancora le voci, morire non è stato come pensavo, devo essere annegato senza dolore.
Apro gli occhi e c’è ancora il ragazzo che filma con il telefonino, non so neanche come si chiama, rimarremo compagni per tutta l’eternità? Sento ancora il mio corpo, la gamba destra mi fa male, le urla aumentano di tono, in che girone di dannati sono finito? Quello che vedo è un’allucinazione, l’immagine ondeggiante di un mondo capovolto.
“Ci ha salvati la balena” dice il ragazzo.
“Illuso”, penso, “immagina di essere come Pinocchio, inghiottito da un grande pesce, non sa di essere morto”.
Il ragazzo continua a fissarmi e improvvisamente si afferra alla mia spalla con una stretta che mi fa quasi urlare.
“La coda della balena, te la ricordi? Quella gigantesca scultura nel fiume ha fermato il treno, tra poco arriveranno i soccorsi a tirarci fuori!”.
Lo fisso e adesso comprendo il suo entusiasmo: visualizzo le enormi code grigie in plastica rilucente che da diversi anni emergono dalle acque, una coppia di cetacei fuggiti dal mare nati dalla fantasia di un artista sconosciuto, animali fantastici nella foce del grande fiume che si tuffano desiderosi di tornare tra le onde poco distanti. Il treno è finito in bilico sopra una di quelle enormi pinne, come nella sequenza di un film comico.
Giuro che mai più giudicherò insulsa un’opera d’arte, se siamo davvero sospesi su quell’assurda scultura.
Rumori di elicotteri e poi la voce roca di un altoparlante che mi rimbomba nelle orecchie: “State tranquilli, non muovetevi, stiamo arrivando”.
Sono vivo per caso, l’ansia si trasforma in adrenalina, mi alzo con grande difficoltà, respiro profondamente e sento lungo il viso scorrere lacrime, non so se di dolore o di gioia.
Vigili del fuoco mi estraggono con cautela dal vagone ancora penzolante, dalla barella sorrido alle balene sulle cui code riposa il treno. Alzando lo sguardo nel freddo della sera mi accorgo che il cielo si è rasserenato, che emozione poter riveder le stelle!
Autori Vari, Io era tra color che son sospesi, CONCORSO LETTERARIO Edizione 2021, Associazione culturale Fahrenheit 451
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