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Tamerisco XIII

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 05/01/2022 15:07:34

XIII

La migliore difesa è l'attacco

 

La giornata si era fatta caldissima. Adelina aveva telefonato per dirmi che era arrivata a destinazione e aveva già avuto da discutere con la madre.

Dovevano essere le due del pomeriggio, ero sdraiato sul letto con i vetri appena accostati nell’illusione che si muovesse uno spiffero d’aria. In strada il silenzio era perfetto, si udiva solo l’ansimare del ventilatore nella stanza da letto della mia vicina da cui mi separava una sottile parete. Mirella viveva con un ragazzo di colore: un bel ragazzo alto, dal portamento elegante, dai modi gentili che dimostravano una buona educazione. Lei aveva una carnagione bianchissima e lui era nero, assolutamente nero. Mi domandavo come sarebbero stati i loro figli: neri, bianchi, o i loro colori si sarebbero mescolati come il caffè e il latte. Il letto si era messo a cigolare: probabilmente stavano facendo l’amore. Mi alzai per fare la doccia, ero madido di sudore. Quando mi avvicinai alla finestra per prendere un asciugamano dall’armadio, vidi sul marciapiede di fronte un anziano signore che guardava verso le mie finestre. Rimasi a osservarlo per alcuni minuti. 

Un abito di grisaglia, largo e pesante lo faceva sembrare uno spaventapasseri. Fumava portandosi pigramente la sigaretta alla bocca. Sicuramente era là per spiarmi. Era uno di quelli che cercavano Pietro. Pergamena mi aveva avvertito che loro sapevano tutto e mi avrebbero seguito. Dovevo stare attento. Ma guarda in quale pasticcio mi ero cacciato, pensai, per debolezza, per non essere stato capace di rifiutarmi. In fin dei conti quale amicizia c’era stata mai tra me e Pietro perché mettessi a repentaglio la mia vita e magari quella di Adelina? Anzi Pietro non lo sopportavo proprio. Lo trovavo così, come dire, stereotipato, quando arrivava in biblioteca, tirato a lucido, facendo sfoggio della certezza che tutti dovessero ammirarlo, che tutti dovessero provare simpatia, essere divertiti dai suoi modi di fare. Io non credevo che tra di noi potesse esistere amicizia. Pensavo che lo strano rapporto che si era instaurato fosse frutto di debolezza: ecco Pietro si era confidato con me perché aveva bisogno. Nei giorni in cui le cose gli andavano bene, io per lui nemmeno esistevo. E allora, forse per compassione, oppure, perché no, per un certo gusto d’avventura, di mistero, mi ero avvicinato troppo al fuoco e rischiavo di rimanerne scottato.

Fatta la doccia, ritornai in camera. Mi avvicinai cautamente alla finestra. Il mio uomo non c’era più. Ritornai a letto. Avrei voluto che Adelina fosse vicino a me, oppure Susanna. Chissà come faceva l’amore Susanna. Il letto della mia vicina aveva smesso di cigolare. Li sentivo parlare, ridere. Era proprio una bella coppia. Chissà se Gina aveva mai pensato di fare un ritratto a Mirella. Mi assopii, forse dormii profondamente, perché quando mi svegliai la luce del meriggio non era più così forte e una leggera brezza animava le tendine sui vetri. Mi era venuta una certa idea e decisi di uscire. Quando mi accostai alla finestra, l’uomo era di nuovo sul marciapiede: le mani in tasca, ora si dondolava sui piedi, dando segni di stanchezza. Mentre scendevo le scale di casa, mi dissi che la migliore difesa era l’attacco. Era la frase che ripeteva spesso Diego nei suoi deliri calcistici. Uscito dal portone, attraversai la strada e mi diressi diritto verso l’uomo fissandolo sfrontatamente. Era un ometto che a stento mi arrivava alla spalla. Mi meravigliavo che avessero mandato a sorvegliarmi un tipo così piccolo, astenico, un po’ gobbo, con spalle spioventi e per giunta piuttosto anziano. “Non mi scappi” pensai “Ora dovrai dirmi tutto”. Volevo acchiapparlo e domandargli chi lo mandava e perché. Lui mise la mano nella tasca della giacca. A quel punto, se ne fossi stato capace, gli sarei saltato addosso, l’avrei messo fuori uso con un cazzotto, ma in realtà sono una persona per bene che aborrisce la violenza, e meno male, perché lui anziché estrarre la pistola o un coltello a serramanico, estrasse il cellulare e compose affrettatamente un numero. Io rimasi sfacciatamente davanti ad ascoltare: “ C’è uno che mi vuole uccidere; affrontarlo, sei matto! Io gli do tutto.” Riposto il telefono in tasca alzò le braccia come fossi io a minacciarlo: “Ti do tutto quello che voi, ma smetti di seguirmi.” 

“Seguirti io? Veramente eri tu che mi spiavi. Ti ho visto sai: sono tre ore che sei fermo sul marciapiede a sorvegliare le mie finestre. Ora mi dici chi sei e chi ti manda.” C’eravamo incamminati per strada sveltamente, uno di fianco all’altro. “Veramente io aspettavo che arrivasse il notaio”

“Quale notaio?” Mi sovvenne che al primo piano del palazzo c’era uno studio notarile.

“Una questione d’eredità: sono molto malato e perciò volevo fare testamento, mettere tutto per iscritto, tutto chiaro, affinché non ci siano dubbi tra gli eredi, che sono poi i miei figli, tre figlioli.”

Vergognandomi di quell’evidente, enorme granchio che avevo preso, gli offrii una birra nel primo Caffè che aveva i tavolini fuori, all’ombra. Preferì una più salubre limonata: “Cosa vuole, io ho fatto la mia parte vendendo immobili. Ho i giorni contati e non voglio che i ragazzi abbiano a litigare tra loro, come succede quando c’è da spartirsi un’eredità.”

“Mi scusi, io credevo che mi spiasse. Ci sono tanti delinquenti in giro, soprattutto in questi giorni che la città è vuota”

“Io un malvivente? Ho telefonato a mio nipote Michele, il commissario Tango, per sapere come dovevo comportarmi. Lo conosce?” mi chiese vedendo il mio stupore.

“No, forse ne ho sentito parlare, oppure ne ho letto sul giornale”

Riflettei: come mai mi nominava proprio Tango? Impossibile una coincidenza simile! Era evidente che voleva farmi parlare, che magari gli raccontassi che lo cercavo, che dovevo incontrarlo per un affare che stavo a non dire, ma di cui lui immaginava benissimo la natura. Vedendomi pensieroso, il vecchio cominciò a ritirarsi nel suo guscio come farebbe una lumaca appena avesse sentore della presenza di un pericolo. Adesso era pentito di avermi parlato del denaro: non era più tanto sicuro che fossi una persona per bene. Mi salutò con troppa fretta e anche per me fu un sollievo interrompere quella conversazione a dir poco penosa. Ci lasciammo avviandoci da parti opposte, diffidando l’uno dell’altro. Quando mi voltai per vedere che strada facesse, lui pure si era voltato a controllare che non lo seguissi. Qualche tempo dopo, quando divenni amico del commissario Tango, ebbi occasione di conoscere i figli di zio Cosimo. Così lo chiamava Michele e così pure lo chiamavano i figli. Da loro seppi che aveva la mania di credersi malato, in fin di vita, e che invece godeva di un’ottima salute. Zio Cosimo era la gioia e la pena dello studio notarile Zambrelli, dove si recava per lo meno una volta al mese per fare testamento. 



 

 


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