VII
Una telefonata da panico
L’estate era esplosa in tutta la sua violenza. Il calore si era fatto insopportabile, sia di giorno che di notte. A parte la biblioteca, in cui la temperatura era tenuta sotto controllo da numerosi deumidificatori, gli unici momenti di refrigerio erano quelli che passavamo nel nostro albergo di periferia.
Accadde un pomeriggio che squillasse il telefono della stanza, risuonò del tutto inaspettato gelandomi il sangue, nessuno infatti era a conoscenza dei nostri incontri in quel luogo. Quando risposi, l’usciere mi comunicò che era in linea il signor Coito che voleva parlare con la signorina Adelina. Quando Adelina prese in mano la cornetta la linea cadde. Rimanemmo immobili per parecchi minuti, in attesa, fissando il telefono. Poi guardandoci negli occhi ci ponemmo la stessa domanda: come poteva sapere Coito che eravamo in quel posto? Il telefono rimase muto. La via del ritorno, che facemmo a piedi e non come solitamente in autobus. fu una specie di pellegrinaggio dove alla preghiera si sostituiva il ragionamento interiore, il dubbio, le mille ipotesi più o meno sbagliate con cui cercavamo di dare una ragione a quella telefonata. Io supponevo che Coito si interessasse a noi per conto dei Cabrini. Non escludevo che Mario fosse innamorato di Susanna e avendomi visto davanti alla porta della lavanderia dove lei lavorava, pensasse che noi sapessimo dove si era nascosta. Coito ci aveva seguiti e voleva accertarsi che fossimo noi soli nell’albergo.
“Possibile che tutti s’innamorino di quella Giunone in abito nero?” Diceva Adelina, forse con una punta di gelosia che non mi dispiaceva.
“Io credo che tra Susanna e i Cabrini ci siano degli affari loschi. Quando è venuta a trovarti, quella volta che siete andati al mare, magari ha nascosto qualche cosa nel tuo appartamento, senza dirti nulla. Qualche cosa che appartiene ai Cabrini. Così si spiegherebbe la visita dei ladri. Cercavano qualcosa per conto dei Cabrini, te lo dico io. E uno di loro potrebbe essere quel viscido di Coito. A me sembrava tutto incredibile, tuttavia dovevo ammettere che il suo ragionamento aveva un fondo di verità, alla luce di quello che aveva detto Mario in casa di Luigi.
Passammo per un tratto di strada sterrata che era completamente al buio.
Fu allora che ebbi la sensazione che qualcuno ci stesse osservando.
Ebbi un brivido e Adelina mi domandò perché stessi tremando.
Risposi che forse avevo un po’ di febbre.
“Ti sei preso l’influenza perché non stai mai attento alle correnti d’aria”.
In verità mi era venuto un attacco di panico.
Fino a che mi accadeva di sentirmi osservato in pieno giorno oppure di notte ma in una strada di città ben illuminata e frequentata da passanti non avevo altro che una sensazione di fastidio. Essere osservato da una presenza invisibile in una strada buia e deserta di periferia aveva scatenato dentro di me una specie di sommovimento tellurico che a stento ero riuscito a controllare. Avrei voluto mettermi a correre. Mi trattenni accelerando il passo. Adelina si fece trascinare protestando: “Che ti prende, hai voglia di correre, non sei malato, perché tanta fretta?”
Quando raggiungemmo viale S. Giorgio, un viale che costeggiava il fiume, bene illuminato anche se frequentato abitualmente dalle prostitute e dai loro clienti, l’abbracciai stringendola forte. “Sei impazzito, non è che ti è tornata la voglia di fare l’amore?”
Adelina era sempre disposta a fare l’amore, anche appoggiati al parapetto del lungofiume, incurante del sopraggiungere di altre persone.
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