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La piastrina

di Michele Rotunno
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Pubblicato il 03/02/2011 19:19:33

La piastrina




Non ho mai conosciuto mio padre. Beninteso so chi è, quale sia il suo nome e la sua immagine, ma non l’ho mai conosciuto. Ho cinquant’anni e sono nato nell’autunno del 42, sì in autunno quando dai rami degli alberi cominciano a cadere le prime foglie secche e, quando come una di esse, anche lui è caduto dall’albero della vita. Aveva solo venticinque anni, la metà degli anni che ho io adesso. Di lui si sa solo che si è spento nel gelo della steppa russa, durante la ritirata, e di lui, oggi, oltre al ricordo di mia madre e di pochi altri famigliari, restano poche e ingiallite fotografie.
Guardo quelle immagini con immensa tenerezza. Vedo il viso di un giovane all’apparenza ancora immaturo, ma non abbastanza da vestire una divisa e per morire con un fucile in mano. Chissà cosa avrà pensato nei momenti precedenti la sua fine, avrà avuto il tempo di pensare alla donna che lasciava lontano? Avrà saputo almeno di essere diventato padre? O avrà solo maledetto quella morsa di gelo che, avvolgendolo, lo inghiottiva per sempre?
Vedo il suo sguardo nella foto, sembra smarrito, è diretto verso un punto imprecisato, forse suggerito dal fotografo. La sua espressione è seria, di circostanza, magari tesa a non deluderlo. Oltre gli occhi spicca la magrezza del volto, liscio, appena rasato, e due baffetti ben curati che risaltano sul pallore delle guance. Rivolto la foto e leggo la data scritta con bella grafia: Roma, “26/IX/1940”. È sicuramente stata scattata in caserma, forse appena dopo il richiamo alle armi.
Dal contenitore estraggo le altre foto che completano il ricordo di lui. Sono una dozzina in tutto e un paio riguardano la sua vita militare. In una è ancora solo, immortalato davanti una garitta con l’elmetto in testa e un moschetto tra le mani, nell’altra è insieme a dei commilitoni in una posa poco militaresca. Sembrano tutti felici e contenti. Mi chiedo quanti di loro, oggi, gli fanno compagnia.
Le altre foto ritraggono l’aspetto borghese. In una è a torso nudo, con un fazzoletto annodato sulla testa e un piccone tra le mani, impugnato con maggior sicurezza e familiarità del moschetto. Il volto è sorridente, più disteso e naturale. Lo sfondo raffigura un cantiere edile, uno dei tanti in cui ha lavorato come operaio. Accosto questa foto alla prima, non posso non riflettere che in entrambe è ritratto in divisa. In fondo, sempre di due guerre si tratta, cambiano solo le armi. Le altre foto lo vedono ora su una bicicletta, ora con dei coetanei davanti un’osteria con in mano dei bicchieri colmi di vino. Nelle rimanenti è con la mamma in abiti nuziali e in viaggio di nozze a Venezia.
Erano anni che non curiosavo in questo cassetto del comò dove, dentro una scatola metallica, giacciono questi pochi ricordi. Sto per rimettere a posto le foto quando lo sguardo cade su un oggetto metallico. È una lamella di ferro con sopra stampigliati dei numeri, la sua piastrina di riconoscimento, unico oggetto pervenuto alla famiglia tra quanto avesse addosso nel momento della morte. La osservo commosso poi la ripongo nella scatola insieme alle foto.

Trascorro la maggior parte del tempo stando seduta su una vecchia poltroncina in legno dall’imbottitura consumata, posta in adiacenza del balconcino alla romana nel grande tinello della casa di mio figlio. Questa è una posizione strategica in quanto, con il solo movimento del capo, mi consente di guardare nella sottostante strada. Non è che mi interessi molto ciò che accade fuori ma cos’altro posso fare per occupare il tempo? Ho settantadue anni e me li porto pesantemente. Non è solo la pesantezza del corpo che mi opprime ma tutto il bagaglio della vita trascorsa. Nella solitudine della casa arranco tra una stanza e l’altra aspettando che arrivi l’ora in cui si anima per la contemporanea presenza di tutti i componenti della famiglia. Questa non è poi affatto numerosa. Me compresa, siamo in quattro. C’è mio figlio Giancarlo, di cinquant’anni, che si appresta lentamente a ricalcare le mie orme, quindi Angela, mia nuora di quarantotto anni, che ostinatamente cerca di nascondere con inutili e dispendiose applicazioni cosmetiche la realtà imposta dagli anni. Infine c’è Guido, di venticinque anni, l’unico che francamente non riesco a comprendere, non tanto per la differenza di anni che ci separa ma per tutto un insieme di cose e considerazioni che mi sfuggono. Speravo fosse il più vivace della famiglia, i suoi venticinque anni dovrebbero imporglielo, invece lo vedo apatico e annoiato e mi chiedo invano cosa mai lo fa essere così. Il fatto, poi, di non capirlo mi addolora profondamente. Nei suoi riguardi, oltre la nonna, mi sento anche madre. Quando nacque suo padre avevo solo ventidue anni e si era in tempo di guerra. Ero sola perché Alberto, mio marito, si trovava sul fronte russo da dove, buon’anima, non sarebbe più tornato. Poco più di una ragazzina e con un figlio da mantenere e non potendo nemmeno contare su gli uomini della mia famiglia, anch’essi presi in pari difficoltà, scoprii i gomiti e mi detti da fare per guadagnarmi la vita. Giancarlo venne così accudito, per i primi anni, da mia madre e, qualche volta, da mia sorella maggiore. Alla nascita di Guido, Giancarlo aveva venticinque anni ed era tutto immerso nel lavoro di rappresentante farmaceutico. Angela, mia nuora, era stata appena assunta come dattilografa in uno studio notarile ed io, benché lavorassi come bidella presso la scuola elementare mi prendevo cura del bambino, così come aveva fatto anni prima mia madre con Giancarlo. Del piccolo si prendeva cura anche Giovanni, mio marito, il mio secondo marito. Benché invalido di guerra e dovesse camminare poggiandosi alle stampelle, se ne occupava volentieri.
Guido è figlio unico, come suo padre, e a volte mi chiedo se non è proprio questa particolarità che lo intristisce così tanto. Più che triste mi sembra introverso, chiuso ermeticamente in se stesso. Eppure proprio perché solitario dovrebbe essere portato ad una maggiore apertura verso il mondo che lo circonda. Invece lui, come suo padre prima, vive immerso in un mondo tutto suo dove pare non ci sia posto per alcun altro, geloso perfino di esternare i propri sentimenti, ma solo verso la famiglia. Non sta quasi mai in casa, sempre fuori a fare non so cosa. Lui dice di andare alla ricerca di un lavoro, io, invece, lo vedo quasi sempre al bar in fondo alla strada dove passa la maggior parte del tempo con altri come lui.
Con loro scherza e ride, poi, quando rientra in casa, si immusonisce tutto. Così giorno dopo giorno, passo le ore seduta su questa vecchia poltroncina davanti il balcone a vedere come scorre la vita nella strada sottostante, attendendo chissà cosa e, spesso, immersa nei ricordi.

Maledizione ne è spuntata un’altra!, non faccio in tempo a coprirne una che subito ne spunta un’altra!, maledette rughe! Però in fondo, ben camuffate possono diventare un vantaggio. Meglio essere ammirata come donna matura ma ancora piacente che giovane e scialba invecchiata anzitempo. In fondo sono solo queste agli angoli degli occhi… per il resto non si può certo dire che sono fatta male, anzi… posso dare dei numeri a molte signorinelle . eh sì, non ho un grammo di peso in più, le gambe sono perfette. Sì, sono decisamente bella, poi, se me lo dice Sandro che se ne intende vuol dire che è così. Ah, Sandro, Sandro, quel mascalzone, eppure ci sa fare, ah se ci sa fare!, al solo pensarci mi vengono i brividi. Le sue mani, la sua bocca, i suoi denti, la sua lingua…oh che bello…Calma, mi sto eccitando!.
“sbamm”
Cos’è stato questo rumore? Forse la vecchia sarà sbattuta da qualche parte. Sempre tra i piedi quella rompiscatole, a spiare. Sì a spiare…ma che si vuole spiare…che il Padreterno non se la prende…Gesù, che ore sono?...già le nove? Va a finire che oggi si fa tardi.
“Sbamm”
Ancora quel rumore! Ma che diavolo sarà? Guido non può essere, quello a quest’ora dorme ancora, lui è già uscito da un pezzo… mah, vediamo un po’…, ah ecco, lo sapevo io! Quella rimbambita si è addormentata vicino al balcone aperto e …. quello sbatte. Ah, quando finirà questa storia……?

Uffa! Che rottura di palle! Possibile che in questa dannata casa non si possa mai dormire in santa pace, per la miseria! Ma chi ha lasciato il balcone aperto?
Uhm, da com’è duro ci vorrebbe proprio una bella fica in questo momento, già, ma chi? Forse Gisella, no quella è troppo scema. Uhm, vediamo un po’ c’è Merisella, quella ha un bel culo tosto… no, è troppo bassa e porta gli occhiali. Uhm, ma sì, la signora …, la moglie del ragioniere del terzo piano, come si chiama, Tina, sì, sì Tina, sì, sì con quelle gonne sempre corte e attillate… e con lo spacco… sì quella ci sta, quante volte me l’ha fatto capire con gli occhi? E, poi, ogni volta che c’incontriamo per le scale trova sempre il modo di fermarsi e la scusa per piegarsi…oh, sì,sì,sì, magari quando il marito esce di casa il mattino, io salgo su, busso alla porta, sì,sì,sì, lei mi apre, sì,sì,sì, indossa la vestaglia, anzi no, una camicetta corta, sì, sì, sì, sotto è nuda…sì,sì,sì, prendimi mi dice, sì,sì,sì, prendimi,sì,sì,sì, l’afferro.. le infilo le mani tra le gambe, sì,sì,sì, oh, sì…
“sbamm”
Cazzo, cazzo, neanche una sega in santa pace uno si può fare in questa maledetta casa, accidenti dov’ero?, sì,sì,sì, mi abbraccia, sì,sì,sì si toglie la camicetta, si sdraia, sì,sì,sì, ohhhh!
Ohhh, ci voleva proprio….
“Sbamm”
Questo è il balcone, uffa, ma chi se ne frega, quando mi alzo lo chiudo.

Ormai non riesco più a dormire la notte e nemmeno a restare sveglia e lucida di giorno. Vivo in un continuo dormiveglia alternando momenti di trance comatosa a momenti di inquietante agitazione. La notte dormo meno di tre ore poi, svegliandomi del tutto verso le quattro del mattino, desta ma già stanca mi alzo e prendo a spostarmi da un punto all’altro della casa. Questa mattina anche Giancarlo si è alzato presto, erano le cinque, gli ho preparato il caffè, non ha fatto colazione, non la fa mai. Prima di uscire, con un tocco delle dita, gli ho sistemato il nodo della cravatta, ricambiando lui mi ha fatto una carezza ed io gli ho baciato le mani. Che strano, non l’avevo mai fatto prima d’oggi.. appena è uscito mi sono seduta sulla poltroncina e l’ho visto portare fuori la macchina dal garage e, con le luci accese, è andato via. Sono rimasta a guardare la strada deserta, infine, quando si sono spenti i lampioni ho cominciato a vedere le prime persone, il fornaio, il barista, le prime casalinghe, quasi tutte della mia età, uscire per andare al mercato.Eh, se non fosse per queste gambe, sempre gonfie, ora anch’io sarei con loro!
Oh, devo essermi appisolata, adesso c’è più luce fuori e anche un po’ di traffico, brrr, fa ancora freddo la mattina, eh, questa primavera… si porta ancora dietro i segni dell’inverno!
Mah... mah, chi c’è fuori il balcone? Chi è?, ma che fa quel giovanotto? Non ha freddo?, ma… è Alberto!
Alberto?, ma che fa la fuori?, si prenderà freddo, aspetta che ti apro il balcone, ecco, ecco, vieni, vieni dentro mio caro, vien __________________________________

“Mamma, il balcone…” questa dorme alla grossa, “Mamma, ehi mamma” oh, mio Dio, questa non risponde, ma… ma…, Gesù è morta, oh mio Dio!!
“Gianc.. no, no Guido, corri, corri, per favore, svegliati, svegliati, Guido!
“eh, che c’è, Cristo, ma che cazzo succede? Che c’è?”
“Guido!!”
“Sì, sì, che c’è?”
“Corri, la nonna è morta!”
“Santo Cielo, ci mancava solo questa, dov’è?”
“Di là, sulla poltrona, vieni, corri”
“E a che serve?, uffa, chiama qualcuno!”
“Qualcuno chi?”
“Ma che cazzo ne so…, cazzo!”
“Ma…, ma…”
“Oh, cazzo, cazzo, cazzo!”

Ma che cavolo, possibile che il telefono è sempre occupato? È da mezz’ora che cerco di chiamare casa per avvisare che non torno a casa per pranzo e trovo sempre la linea occupata, sarà fuori posto. A quest’ora dovrebbero essere tutti a casa, possibile che nessuno se ne sia accorto? Cristo si sta facendo tardi, va a finire che quelli non pranzano per aspettarmi, poi stasera chi li sente….maledizione, provo per l’ultima volta…, ah, finalmente libero!
“Pronto!”
“Pronto un accidenti, è mezz’ora che chiamo…. Ma che è tutto questo vocio in sottofondo, che diavolo state combinando?”
“Giancarlo, è morta tua madre”
“Come?, mamma è morta?, quando…, un infarto? Accidenti avevo chiamato per dire che tornavo stasera, beh, vorrà dire che tra un paio d’ore sono a casa”
Maledizione!, questa non ci voleva, proprio oggi…adesso mi tocca di chiamare Concetta e disdire l’appuntamento, e dire che aspettavo questo momento da un mese circa…, mah, pazienza!

Che rottura di palle! È proprio giornata oggi! E’ cominciata bene!…, almeno si è tolta di mezzo. Sempre a guardarti, a fissarti, senza dire mai una parola. E, poi, quella faccia lunga ogni volta che mettevo piede in casa, con la disapprovazione dipinta negli occhi…, ma che aveva poi da rimproverare, che glie ne fregava a lei? Come disse quella volta? “devi trovarti un lavoro” come se fosse facile con la crisi che c’è! Il posto tutti te lo promettono: “Ma sì, senz’altro, certamente, puoi stare tranquillo…” Si, tranquillo, poi…”Ma sai ..ho fatto tutto il possibile ma mi hanno detto che bisogna aspettare, qualche mese… due.. al massimo tre, adesso siamo al completo…, comunque è solo questione di tempo, basta solo aspettare”. Sì, aspettare, è una vita che aspetto e sono sempre allo stesso punto. Ho la maturità scientifica e con quella mi ci pulisco il culo. Mi sono anche iscritto all’università, in sociologia, un’altra stronzata…, per fortuna che mi arrangio un po’ altrimenti…, a proposito oggi c’era da fare una consegna, devo avvisare che non mi sarà possibile con tutto questo casino….
Accidenti a lei, proprio oggi doveva andarsene, doveva proprio rompere fino all’ultimo! Almeno non la vedrò più piantata come una statua dietro il balcone a guardare e a pontificare in silenzio, puttana miseria…..

Questa mattina prima di uscire di casa mi ha preparato il caffè. Per la verità lo faceva sempre e, some al solito mi ha suggerito di fare colazione ben sapendo che non mangio mai nulla al mattino presto, ma lei, irriducibile, me lo chiedeva sempre. Prima di aprire la porta di casa mi è venuta vicino, mi ha posato una mano sul braccio e con l’altra mi ha dato un tocco alla cravatta, le ho sorriso e le ho fatto una carezza. L’ultima volta che l’ho fatto avevo si e no dieci anni e lei, allora, si è illuminata tutta, ha afferrato la mia mano e l’ha baciata, delicatamente, e questo è un gesto che non aveva mai fatto prima. Povera mamma se n’è andata senza soffrire, in silenzio, in punta di piedi, discretamente come aveva sempre vissuto. Accidenti, mi mancherà il suo sguardo ammonitore col quale temevo che lei sapesse tutte le nostre colpe. Eppure non ha mai detto nulla, ci guardava solamente, e adesso che non c’è più chi avrà il coraggio di rinfacciarci le nostre verità nascoste?
Dio che famiglia sfasciata che siamo! Mia moglie che a quasi cinquant’anni si impiastriccia il corpo con dozzine di porcherie varie credendo di piacere. Mi domando come fa quel cretino del suo amichetto a sopportarla, mah! Chissà perché abbiamo continuato a dormire nello stesso letto, forse per non far sapere a lei che tra noi non c’era più nulla. Ma forse lei lo sapeva da un pezzo, come forse già sapeva di me e la Concetta di turno. Ma Guido dov’è? Quel debosciato passa tutte le mattine a farsi le seghe nel letto, sfido che sia incapace di trovarsi una donna, figuriamoci un lavoro. Mio Dio quando finirà questa storia? Mi sono arreso da un pezzo a cercargli un lavoro, è così incapace che dopo pochi giorni lo mettono puntualmente alla porta. Alla fine passa le sue giornate al bar ad aspettare la manna dal cielo, quando si renderà conto che sta sprecando la sua esistenza? Eh sì, cara mamma, te ne sei andata in pace, con te ho chiuso i ponti con il passato, ora non mi resta che il presente e il futuro e, francamente, non ne vedo la differenza, incoerente il primo, incolore il secondo.

Il mio corpo è ormai dissolto ma lo spirito è avvolto intorno ad un pezzo di metallo, una piastrina di riconoscimento.
Una mano pietosa l’ha sfilata dal corpo martoriato e, infine, un’altra mano l’ha depositata in questa scatola di metallo. Quando ho chiuso gli occhi sul mondo non mi sono accorto di morire. La morte viene infida, senza farsene accorgere, non ti da il tempo di pensare a lei, né di rimpiangere il passato. In un istante non ci sei più.
Durante quella tremenda marcia nel gelo la mente stava sempre lontana. Più che la moglie agognavo il caldo di un fuoco familiare. Non sapevo di essere diventato padre, certamente se lo avessi saputo avrei lottato di più per la vita. Forse sarei morto ugualmente magari rimpiangendo disperatamente un futuro ignoto. In fondo è stato meglio così. In tutti questi anni, per me inconsistenti, ho visto tutti gli avvicendamenti della casa. Ho visto Lucia, dapprima giovane e vivace, poi diventare vecchia e pesante. Ho assistito divertito ai suoi amplessi con Giovanni, poveretto, senza le gambe com’era goffo in quei momenti. Che ironie, lui le gambe le ha perse in Libia bestemmiando per il troppo caldo…!
Ho visto Giancarlo farsi grande e adesso anche lui sta invecchiando. Ho visto quella poco di buono di sua moglie e la vedo tuttora quando, sconcia, si guarda nuda allo specchio. Ho visto e vedo con tristezza Guido masturbarsi ogni giorno e poi andarsene scialbamente fuori di casa. Povera Lucia, che pena mi ha fatto in tutti questi anni, leggevo dentro di lei l’amarezza e la compativo. Già, che tristezza vegliare su questa casa tutto questo tempo e che rabbia mi fa ancora oggi pensare al mio disgraziato destino. Mi hanno mandato a crepare in una sterminata pianura di ghiaccio e … per cosa? Oggi mi guardo intorno e rifletto sull’ipocrisia che regna sovrana sulla terra e, alla fine, concludo che è tutto uno schifo. Mi hanno mandato a morire, dicevano loro, per un ideale. Poi sono venuti altri a dire che sono morto per un ideale sbagliato.
“Avete capito gente? Siamo morti per un ideale sbagliato, che iella!”
Già, nella vita si muore sempre per un ideale sbagliato, prima però è quello giusto, è dopo che diventa sbagliato, poi magari ridiventa di nuovo giusto e dopo ancora…. Magari erigono pure i monumenti con sopra la scritta ipocrita: “caduti per la patria” Eppure non hanno eretto mai monumenti a quelli che sono morti sul lavoro. Quelli sì che sono morti per un ideale, quello giusto, l’unico che sia eternamente giusto.
Dicono che lo Stato si fonda sul lavoro, allora quelli che muoiono schiacciati o che si sfracellano al suolo da una impalcatura non sono forse eroi? Non è scritto da nessuna parte che lo Stato si fonda sulla guerra, allora perché sono eroi solo quelli che crepano con un moschetto in mano?
Ora, anche come spirito sono stanco e nauseato ma, purtroppo, finché sarò avvolto a questo oggetto sarò, in un qualche modo, sempre vivo. Allora spero con tutta la mia disperazione che qualcuno apra questo cassetto, scoperchi questa dannata scatola, prenda questa fottuta piastrina e la butti nel cesso tirando dopo la catena. Forse solo così potrò finalmente riposare in pace.

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