Pubblicato il 17/02/2018 19:23:21
I
Ginnasio che fu crepa le altissime gole della veglia, dimorando ogni sorte di ogni lume. Lume,
bianco, fuoco e sfera custodiscono la soglia della sillaba remota, traccia della genesi, distanza dal martirio irreversibile.
Se prendessi tra le mani queste stelle palliducce e ne varcassi la soglia che annuncia la sfera, vedreste quanto l’angelo mi penda nel nome:
non c’è verbo che trattenga il dio che ho perduto quando ho perso la lira; non c’è bosco in cui non gridi di una fredda e disgraziata libertà.
E indovinando, indovinando quale sorte mi precipita, ritorno a ordinare tutti i fiori, finalmente.
II
La sfera che gettai bambino ancora non crolla, crolla invece il ventre di mia madre.
Il cappio stringe il dente mentre il dente ancora strazia: ginnasio, da quale stirpe d’alfabeti
uscisti a mescolare fronde e vecchie polveri? quale grido ti cucirà nel verbo che separa?
Rondinella dei sepolcri, cantami questa luce che accede dal grano e tutto coglie.
III
Vengo al canto quale bimbo d’alluccata: ho memoria dell’ustione che il mio grembo ebbe a prima acqua; ho memoria
del ginnasio che sventrò radice e sfera: non v’è cielo che dimori nell’angelo impiccato.
IV
Ginnasio che è sventura e fa distico del sangue.
V
Cantai, cantai, cantai e mai che venne la parola:
quando indicai, esiliando, l’angelo che giace nella foglia, accadde un ginnasio che fu crepa, e nella crepa quest’azzurro irreversibile.
Troncatemi nell’ultima sillaba che qui mi sventra e mi violenta.
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