Mi è amico il ramarro, fedele
nell’ozio di sole
sul greppo, che inquieto si torce
a bugna di calce
in cumulo a nervi d’oblio.
S’inerpica fermo
appeso al fioretto dell’orto
e cuoce trafitto
nell’occhio, da spina di seccia.
L’insidia si cela
nell’erba dell’ombra, in anfratti
attende la biscia
e al cielo pulito si fissa
ne mima il respiro
e il colore, ingolla sostanza
di ruggine e miele:
un bacio feroce s’incanta
di brivido, beve.
L’ardore è dipinto sul gozzo
e il morso disvela
l’errore, ridesta dal sonno
un labbro d’autunno.
Il muso del sauro protende
deciso alla serpe
che cova nel buio: si sfalda
in mano la rosa
con l’indaco e l’oro del drappo.
Come il sole - statua
che scalda lontano - lui pesca
nell’animo umano
sua esca una spugna su tutto
sul tempo che cessa
poi l’amo trapassa la gola
del mostro, conquista
la quiete perenne d’impulso
e vive in un guizzo.
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