Mi sembrava di volare. E, anzi: ero certo
di non poggiare i piedi a terra. Una egrette
walcottiana, un cognome senza tempo. E tanta aria
di colpo spezza la schiena come ad una fronda
il peso del maestrale. E più
la Terra faceva per avvicinarsi a me,
più mi allontanavo
puntando il naso nell’unica direzione possibile:
l’azzurro inesistente di rayleigh spiegato da sè.
E, pure, ero fermo al modo in cui un orologio solare
indica tra buio e luce il luogo in cui questi nascono
mentre più lontano è esatto il suo definitivo abbandono.
È un carassio dorato, l’abbandono,
con due sillabe caudali che rivelano
un sacco sgonfio. E fino alla fine
la mia meridiana ha un’ombra che funziona da freno.
E non sono per lei un pensiero.
E comunque volavo, finalmente volavo; sicuro: volavo!
e l’unico punto di vista per accorgermene
era guardare le palpebre che dall’oscuro si facevano grate.
E così ancora mi sveglio senza esserlo.
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