Perché scrivo di te, chiuso nel mio guscio
in similpelle? In un perimetro murato, detto
per casa, l’anima è stabile, seduta stante.
Una finestra fa risiedere il mondo qui dentro.
Sullo schermo una piroga àncora tra palafitte
curve: ma come cazzo si ergono dall’acqua?
È Makoko. MA-KO-KO, nemmeno so dove
va l’accento, se su pene o su malarie.
Incerta e ignorata, come il numero angelico
dei canali televisivi documentati a più riprese.
Ne so poco, anzi: meno di te. Soprattutto qui,
i pali in sesto sono retti, dai ritti marci,
e forniscono l’habitat ai molluschi
- questi che vivono a frotte, presi alla gola,
come morti alle volte. Come sgombri
richiesti all’acqua perchè la terra non basta.
Le conchiglie non risiedono per scherno
tra le suppellettili del deserto che fuggono,
impietrite sul tronco cavilloso delle dune.
Finanche la carne si scaglia ai pesci
e affonda nella lacuna la corrente e la spina.
Lacuna, o laguna. Umana, o naturale.
Affare, o sciagura. «Qui si trova di tutto.
Tranne una sepoltura.» L’acqua è una tomba
paradossale che tiene in vita i galleggianti.
Una pesca miracolosa della malora.
Ho letto di sardine spinate di fresco e andate
in fumo, dal loro punto di vista salubre.
All’ora dei coloni il gin tonic nasceva qui
ma qui non si porta l’aperitivo. Quindi
è necessario che scriva, perché si veda
nel lacero-contuso blu la miriade di rifiuti
buttati ai pesci.
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