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La musica contemporanea : Un passo oltre la musica

Argomento: Musica

Articolo di Giorgio Mancinelli (Biografia)

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Pubblicato il 22/10/2018 16:01:45

QUADERNI DI MUSICOLOGIA XIII - UN PASSO OLTRE LA MUSICA
La musica contemporanea (terza e ultima parte).

Riprende qui la pubblicazione interrotta qualche tempo fa della serie dei ‘Quaderni di musicologia’ per approfondire il dialogo da me aperto sulla musica contemporanea suddiviso in due parti iniziali.

Cliccando sui link qui sotto visualizzerai i testi pubblicati sul sito LaRecherche.it:
http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=478&Tabella=Saggio
http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=480&Tabella=Saggio

Ɣ= Quella stessa musica che in questi ultimi anni ha conosciuto dapprima un avanzamento strepitoso nell’ambito della ricerca vocale e strumentale, per poi fermarsi di colpo e quasi tornare indietro per ricalcare la strada fatta, per così dire rileggersi e riconoscersi, o meglio, identificarsi nel nuovo ambito investigativo che l’ha vista varcare la soglia del XXI secolo senza una vera meta da raggiungere, se mai ne fosse stato lo scopo. Di fatto da alcuni decenni ormai la musica cosiddetta ‘nuova’ o ‘moderna’ e comunque a noi contemporanea, si è evoluta accentrando su di sé gli interessi di numerosi ‘maestri’ davvero eccezionali, tra le cui fila, non da meno, sono fuoriusciti ricercatori attenti e scrupolosi che hanno scandagliato fin nelle viscere del passato e del presente le possibilità del suono: “Dall’esperienza uditiva ai suoi oggetti” (1), dalla riproduzione alla ricostruzione degli antichi strumenti (andati in parte perduti), alla creazione di nuovi dispositivi che hanno portato un incremento straordinario alla produzione musicale contemporanea.

Per quanto siano molti gli argomenti fin quiaffrontati, fra quelli da prendere in considerazione, dal momento in cui terminata la seconda parte del dialogo intrapreso, non va dimenticato tutto quanto è stato precedentemente detto, soprattutto riguardo a ciò che abbiamo individuato e fissato come ‘punti fermi’ nell’evoluzione musicale del secolo appena trascorso. Per quanto non si sia mai distaccato definitivamente dal suo ‘glorioso passato’, possiamo ben dire che il costante movimento evolutivo della musica, specialmente in questi ultimi anni, spesso riemerge dalle sue ceneri, rigenerandosi come l’araba fenice, per restituirci nuove e inusitate piacevolezze dell’enfasi creativa. Un’evoluzione che riguarda tutta la musica in generale, che le ultime sperimentate tecnologie hanno permesso di elevare alla massima potenza in fatto di strumentazione, di produzione e di registrazione sonora a livelli estremi di rappresentazione, toccando punte di sofisticata sensibilità acustica fin’ora mai giunta all’orecchio umano.

Ɣ= Tuttavia prima di arrivare all’attuale ed estrema piattaforma sonora ci sono alcuni passaggi che non vanno assolutamente ignorati, concentrati nelle scelte e nell’utilizzo tradizionale e/o virtuosistico; o meglio, formale e/o informale, degli strumenti a disposizione, a partire da quelli più classici come, ad esempio, quelli utilizzati in modo evolutivo dal quartetto d’archi dei Kronos Quartet (2), formato da due violini, quelli di David Harrington e John Sherba; una viola e un violoncello, rispettivamente nelle mani di Hank Dutt e Sunny Yang. I quali, fin dagli inizi in San Francisco nel 1973, si sono inseriti con competenza nell’ambito della musica contemporanea, affrontando scelte musicali per così dire improprie per un insieme d’archi, che vanno dal ‘classical’ al pop, al rock, al jazz, al folk, al world-music.

Una particolarità questa che lascia pensare a un ‘ibrido sonoro’ e che invece dà forma a un tutt’uno eterogeneo, di suoni, voci, rumori, melos ed ‘estensioni musicali’ di intensità variabile, in grado di approfondire aspetti interattivi ed assumere ‘forme e scale musicali’ che in moltissimi casi vanno oltre la concezione strumentale tradizionale. Ad esempio nell’affrontare sonorità percussive dell’Africa o estremamente lontane dal nostro abituale sentire, quali quelle dell’Estremo Oriente magari riprese dalla tradizione millenaria del Giappone, nella volontà espressa di costruire un ‘ponte’ tra i due emisferi del globo, Oriente-Occidente, nel riconoscimento della validità d’ogni singola esperienza musicale, sulla quale i Kronos instaurano la dominante degli ‘archi’ sapientemente dosata, da superare ogni dubbio sulla possibile non-autenticità del brano eseguito.

Contaminazione, rielaborazione, corruzione sonora, inadempienza minimalista, possibile infrazione della privacy d’autore, violazione della sensibilità dell’ascoltatore?

Orbene, ogni definizione finisce per enfatizzare il lavoro del gruppo, che pur non scostandosi dall’originalità dei brani, molti dei quali scritti appositamente per loro da autorevoli compositori di livello internazionale, come: Philip Glass, Terry Riley, Kenny Volans, Bob Ostertag, Henryk Gόrecki, Witold Lutoslawski, Astor Piazzolla ed altri. Anche per questo i Kronos Quartet rappresentano uslla scena mondiale l’unico esempio di professionisti che possono vantare di aver spaziato in ogni genere di cultura musicale, dal XX secolo fino ai giorni nostri, ricevendo numerosi riconoscimenti e Grammy Award specifici per la musica contemporanea. Non in ultimi, i premi Grammy Award alla miglior interpretazione di musica da camera e il Polar Music Prize for Classical Music. La loro discografia include ad oggi 43 atudio-albums, due compilation, cinque soundtracks, e 29 collaborazioni con altri artisti, e tutti di grande levatura.

A conferma della loro decennale professionalità prima di approdare alla musica contemporanea stanno i loro primi lavori contenenti musiche classiche e adattamenti di musica popolare, jazz e rock, rintracciabili in almeno due albums: “Kronos Released 1985-1995” e “Winter was hard” del 1988, che includono, inoltre, brani di Samuel Barber, Arvo Part, Michael Daugherty, Jimi Hendrikx, Philip Glass, George Crumb, Anton Webern, Alfred Schnittke, Scott Johnson, Tigran Tahmizyan, Dumisani Maraire. E l’altro: “Molti dei quali hanno avuto un adattamento e utilizzo in teatro e nella danza, da parte di numerose compagnie in giro per il mondo. Numerose sono le collaborazioni importanti, alcune delle quali incluse nei vari lavori di altri artisti pop come Joan Armatrading, Dave Matthews Band, Andy Summers, Nelly Furtado, e Nine Inch Nails.

Risale al 1993 l’album “Kronos Quartet-Short Stories” che raccoglie in un’unica sezione strumentale brani di Henry Cowell, Steve Mackey, Sofia Gubaidulina, Heliot Sharp, Willie Dixon, John Zorn, John Oswald. La sua originalità sta nel fatto di raccogliere verosimilmente autentiche ‘storie’ narrate per soli strumenti musicali ad archi la cui bellezza ‘onirica’ si traduce in peculiarità poetica dell’incontro, in cui la narrazione spazia all’infinito da una lato all’altro del conosciuto, lasciando all’ascoltatore/lettore la possibilità di improvvisarsi narratore e costituirsi nel ruolo di protagonista interamente alla musica. Ogni singola storia narrata, pur avendo vita a sé, sposa perfettamente il messaggio fissato nella indicibile immagine/effetto della copertina del booklet che accompagna il CD ELektra-Nonesuch, in cui una macchina da scrivere d’epoca, emana fiamme dal rullo dove è immaginabile un contesto di animosità sulla tastiera e fervore nella scrittura narrativa. Come puntualmente avviena all’ascolto dell’unico brano cantato per voce solista dal titolo “Aba kee tayk hamaree” (10:56) di Pandit Pra Nath, composta in puro stile tradizionale pakistano di Lahore: “È il mio turno, oh Dio, preserva la mia dignità come hai fatto con Drophadee dalla sua nudità, donandole un sari interminabile. La mia dignità è nelle Tue mani, nessun’altro può farlo. Per me che desidero il tuo asilo.” (Surdas).

Per più di 40 anni il Kronos Quartet ha unito un indomito spirito di esplorazione con l’impegno a ricreare e riprogettare continuamente l’esperienza del quartetto d’archi. Percorrendo questa strada, il Kronos Quartet è diventato uno dei più celebri e autorevoli ensemble, con migliaia di concerti, più di 60 incisioni discografiche e collaborazioni con un eclettico mix di compositori ed esecutori, oltre alla commissione di oltre 900 lavori e rielaborazioni per quartetto d’archi. La non profit Kronos Performing Arts Association gestisce tutti gli aspetti dell’attività del Kronos Quartet, compresa la commissione di nuovi lavori, tournée di concerti ed esibizioni in sede, programmi educativi e l’annuale Kronos Festival a San Francisco. Nel 2015, Kronos ha dato vita a una nuova iniziativa, Fifty for the Future: The Kronos Learning Repertoire, che commissiona e distribuisce gratuitamente online 50 nuovi lavori (cinque di uomini e cinque di donne, ciascuno per cinque anni) progettati per preparare studenti e professionisti emergenti.

Ɣ= Volendo essere, come si dice, ‘up to date’ trascrivo qui di seguito un’attenta quanto accurata recensione di Claudio Todesco sull’evento musicale della collaborazione dei Kronos con Laurie Anderson (3), vedova di Lou Reed, intitolato "Landfall" (2017) edito dalla prestigiosa etichetta Nonesuch, che è possibile ascoltare sul canale TIMMUSIC. Ciò che rappresenta una prima (ma non l’unica) collaborazione discografica fra la musica elettronica/sperimentale e il quartetto d’archi che i Kronos hanno già eseguito più volte dal vivo: “L’album inizia come un respiro flebile, un suono che si sdoppia e si fa via via più cupo e corposo; presagio di un evento che va preparandosi all’orizzonte, una minaccia che il quatetto d’archi evoca con grande esattezza. C’è qualcosa di mesto e assieme potente nei trenta frammenti musicali che compongono “Landfall”, una tristezza pacata che non sconfina mai nel dramma, ma anzi si trasforma in una forma inusuale di bellezza, un processo di trasfigurazione che sfocia in un sentimento che somiglia se non alla serenità, per lo meno all’accettazione.

“Landfall” è il suono della perdita: delle persone che amiamo, degli oggetti che abbiamo accumulato nel corso di una vita, delle specie animali estinte, delle costellazioni che non conosceremo mai, di questo e di tutto. Laurie Anderson e il Kronos Quartet riescono a rendere questo suono poetico e vibrante”.

Quanto segue è estratto da“Essays on Pictures, Language and Code” ripreso in parte dal boocklet programmatico del CD di Laurie Anderson:
“L'artista avant-garde Laurie Anderson e il quartetto d'archi più cool d'America Kronos non avevano mai collaborato l’una con l’altro. Una cosa li accomuna: non sono soliti distinguere fra ciò che è “colto” e ciò che è “popolare” ed è anche la loro capacità di giocare su più tavoli a rendere “Landfall” speciale. Il Kronos Quartet ha commissionato a Anderson la composizione. Non conoscendo i principi della scrittura per quartetto d’archi, l'artista ha lasciato passare molti anni prima di dare il via alla collaborazione e mettere assieme uno spettacolo multimediale, in cui un software trasforma le note suonate sul palco in testi, e ora un disco in cui i suoni di violini, viola e violoncello si fondono in modo impeccabile con tastiere e campionamenti – una fusione fra strumenti acustici, elettronici e software cui sovrintese anche Lou Reed, così racconta l’artista americana nelle note di copertina.

'Sandy', il terzo uragano più distruttivo che abbia colpito gli Stati Uniti, si è abbattuto nella East Coast nel 2012 quando Laurie Anderson stava già lavorando al progetto. Le ha fornito un nuovo contesto, oltre a un titolo per l’album – il termine “landfall” indica l’approdo di un uragano sulla terraferma – e per alcuni strumentali. Il tema delle conseguenze dell’uragano si è sovrapposto a quelli che si erano già delineati: la perdita e la capacità del linguaggio di descrivere ed evocare ciò che esiste e ciò è svanito, salvandolo dall’oblio. Ma al di là dei temi sottesi, (contemporaneamente al disco esce il libro retrospettivo di Laurie Anderson “All the Things I Lost in the Flood”), “Landfall” è musica che attira in modo inesorabile in una narrazione libera, cupa e seducente fatta di frammenti musicali e una mezza dozzina di spoken word, per un totale di trenta episodi di durata variabile per lo più fra uno e tre minuti in cui Laurie Anderson e il Kronos Quartet fondono le loro “voci” in modo perfetto, le usano per raccontare la mancanza come un sentimento che ha qualcosa di funereo e assieme contemplativo.

Le composizioni nate dal loop di Anderson all’Optigan sono poi state suonate ed espanse dal Kronos con la sua fenomenale capacità espressiva. Grazie al lavoro del fonico Scott Fraser, il suono dei loro strumenti ha una presenza magnifica. Negli spoken word Anderson, da consumata storyteller, racconta piccole storie, le strade che si trasformano in fiumi neri durante l’uragano e un karaoke mal funzionante in un bar olandese, un discorso di Lincoln e un libro sulle specie animali estinte, natura e sogni. E per 70 minuti è davvero come essere risucchiati in una dimensione onirica che lascia una sensazione di spossatezza e assieme di illuminazione. “Landfall” è un disco ipnotico e meditativo, dotato di una bellezza ora intimidente, ora luminosa. È struggente pur essendo misurato, è poetico anche quando Anderson racconta piccoli episodi apparentemente insignificanti. E la musica non è mai frutto di una scrittura retorica, nonostante i temi rappresentati. Termina con l’immagine dell’artista che, passato l’uragano, scende nel seminterrato della sua abitazione newyorchese e vede gli oggetti cumulati in anni di performance galleggiare sull’acqua: vecchie tastiere e proiettori, libri e pezzi di scenografie, il passato che si dissolve sotto i suoi occhi. “E ho pensato: che bellezza, che magia, che catastrofe”.Il Kronos Quartet, la formazione che ha ridisegnato il suono stesso del quartetto d’archi, propone un programma che alterna energia e delicatezza. Fra la trascrizione di un successo degli Who e quella di una canzone del cantante siriano Omar Souleyman, tra il capolavoro di Steve Reich e uno dei più dolci brani di Laurie Anderson, un intero universo sonoro aspetta il pubblico, per farne danzare il cuore e il cervello”.

Ɣ= Prima di andare troppo oltre, torniamo per qualche istante al tema prioritario del discorso intrapreso nel 1986, anno in cui accade un avvenimento culturale davvero importante: la Mostra della Biennale di Venezia dal titolo accattivante: “Nuova Atlantide. Il continente della musica elettronica 1900-1986” (4) a Palazzo Sagredo dal 25 Ottobre al 23 Novembre 1986 Settore Musica, e che segna il punto di partenza dell’indagine qui avanzata, con la presentazione del catalogo di Carlo Fontana., in cui egli scrive:

“Penso al mio lavoro come ad un percorso rivolto verso alcuni obiettivi primari che in questa sede devo limitarmi ad elencare, essendomi tuttavia su di essi, insieme e separatamente, più volte soffermato, con scritti, riflessioni e interventi pubblici durante l’intero arco del mio incarico. Cito innanzi tutto il tema della caduta delle barriere di separazione tra i generi, che considero uno dei caratteri dominanti della vita musicale del nostro decennio. Dimostrativo ed esplorativo di questa realtà appare certamente il ciclo ‘La Scelta Trasgressiva’(1983), ma di essa pur sempre espressione, sia pure sul versante accademico, appare il grande confronto generazionale promosso da ‘Europa 50/80’ (1985): forse il maggiore sforzo ideativo e organizzativo mai compiuto dal Settore Musica in direzione del testo musicale contemporaneo. L’esplorazione del legame tra modernità storica e contemporanea è stato un secondo grande sentiero idealmente percorso nel quadriennio.” […] “Da quella del ‘Prometeo’ di Luigi Nono (1984), con la presenza di Claudio Abbado sul podio oechestrale in cui trovano intreccio singolarissimo, a mio avviso, tutte le direttrici che si intersecano al di là dei confini temporali.

Alludo (con ciò) alla figura dell’autore, maestro della sua e della presente generazione, alludo alla dimensione della tecnologia elettronica, ampiamente utilizzata in quella partitura anche grazie ai risultati delle ricerche sviluppate dal ‘Laboratorio per l’Informatica Musicale della Biennale’ permanentemente attivo presso il Settore Musica. Alludo all’inedito recupero di un misconosciuto spazio veneziano grazie all’invenzione architettonica di Renzo Piano. Ed anche all’ultima iniziativa di cui mi sono occupato, di questa ‘Nuova Atlantide’ che, pur differenziandosi dalle altre per la sua natura apparentemente discosta dal vero e proprio ‘fare musica’ è invece l’ineliminabile anello di congiunzione finale dell’intero percorso, capace di riconnettere, attraverso la riscoperta viva dei loro strumenti di lavoro, l’attività di intere generazioni di musicisti a una comune concezione del tempo e dell’arte, nonostante discriminazioni storiche che non hanno cessato di far sentire il proprio peso. […] Affinché ne sia consentita la piena e ulteriore valorizzazione, offrendo all’attività del settore l’occasione di vincere le scommesse dell’ingegno,”

In prospettiva la musica elettronica, elettroacustica ecc. cosiddetta ed etichettata come ‘contemporanea’, relegata in principio nei laboratori e in seguito diffusasi presso il grande pubblico: nel campo della registrazione, della riproduzione, ma anche della sintesi e della produzione, vede oggi un certo ristagno, facilitato dagli stessi sistemi industriali che l’hanno prodotta, conformati alle sue norme riduttive: ‘la fioritura (lo sviluppo) della musica non è il suo primo obiettivo. Va qui fatta però una considerazione condivisa da molti: cioè che ‘la musica contemporanea’ altro non è che l’espressione sonora della follia (caos) trasformata in saggezza (condiscendenza) seppure mediata dalla accettazione/comprensione fisica del rumore e del suono già presente in natura. Un macrocosmo che non possiamo tralasciare un istante di esaminare, controllare, collaudare per una sorta di rischio effettivo di venire travolti per effetto d’inquinamento acustico col quale dobbiamo convivere e che, al tempo stesso, dobbiamo imparare a governare per la capacità in sé di stravolgere gli equilibri antropici che il ‘caos sonoro’ può determinare.

Ɣ= Jean-Claude Risset scrive: “Gli imperativi commerciali a corto termine favoriscono la produzione di gadgets numerici senza un vero interesse musicale: la tendenza è quella di fornire degli strumenti di facile impiego, poverissimi di risorse e il più delle volte di strumenti tradizionali. […] tra questi estremi, vari livelli richiedono meno virtuosismo di quello che è necessario a un solista; a somiglianza, per esempio, del ruolo del direttore d’orchestra. Il musicista professionista potrebbe intervenire per ‘configurare tali mezzi di creazione (sonora) e per proporre delle ‘opere-matrici’ dai percorsi più o meno numerosi, dalle specificazioni più o meno complete: l’ascoltatore sarà nello stesso tempo l’interprete, col grado di responsabilità della sua scelta, e potrebbe così anche partecipare alla realizzazione finale dell’opera.”

Si pensi che in realtà tutto questo già avviene, non senza considerare che Risset ne parlava era il 1986 e che la “Musica Elettroacustica Numerica”, per così dire, era ancora in fasce. Ciò per quanto vi fossero state enunciazioni eclatanti fin dal 1624-26, allorché Francis Bacon pronunciò nel suo “New Atlantis” quanto segue: “Noi dimostriamo tutti i suoni e la loro generazione. Abbiamo armonie che voi non possedete, fatte di quarti di suono e ancor più piccole sfumature sonore. Diversi strumenti musicali a voi sconosciuti, alcuni più dolci dei vostri, insieme a campane e campanelli che sono soavi e delicati. Noi rappresentiamo suoni piccoli, grandi e profondi; attenuiamo e rendiamo acuti i grandi suoni; abbiamo diversi fremiti e gorgheggi che in origine erano suoni completi. Rappresentiamo e imitiamo tutti i suoni e lettere articolati, le voci e le note di bestie e uccelli. Abbiamo la possibilità di consentire all’orecchio di ascoltare più lontano. Anbbiamo anche diversi echi artificialie straordinari che riflettono la voce molte volte e agiscono come se la lanciassero; e alcuni che la restituiscono più forte, alcuni più acuta e altri più profonda.”

Ɣ= Honoré de Balzac in ‘Gambara’ (6) del 1837, a sua volta scrive: “La musica è nello stesso tempo una scienza e un’arte. Le radici che ha nella fisica e nelle matematiche ne fanno una scienza; essa diventa un’arte nell’ispirazione che utilizza a sua insaputa i teoremi della scienza. Essa dipende dalla fisica nell’essenza stessa della sostanza che impiega: il suono è aria modificata.

Lady Ada Lovelace in ‘Scientific Memories vol.3’del 1840 scriveva: “Poniamo, per esempio, che i rapporti fondamentali dei suoni determinati dalla scienza dell’armonia e della composizione musicale potessero essere espressi e adattati in tal modo; la macchina analitica potrebbe comporre ed elaborare delle opere musicali scientigfiche senza alcun limite di ampiezza e di complessità.

Ma si dovrà attendere Edgard Varèse che in ‘Revue 391’ del 1917 scrive: “La musica che deve vivere e vibrare ha bisogno di nuovi mezzi di espressione, e solo la scienza può infonderle un vigore giovanile (…). Io sogno degli strumenti che obbediscono al pensiero e che con l’aporto di una fioritura di timbri insospettati si prestino alle combinazioni che più mi piacerà di imporre loro e si pieghino alle esigenze del mio ritmo interiore.” E ancora nel 1939 in una Conferenza all’University of Southern California: “Io vorrei, per sprimere le mie concezioni personali, un mezzo di espressione completamente nuovo, una macchina per suoni (e non una macchina per riprodurre i suoni)".

Tutto ciò assume valore nell’interpretazione della musica contemporanea che si vuole abbia riempito ogni spazio possibile in fatto di arte e scienza, e che oggigiorno si conduce in ambiti un tempo inpensabili quali: l’Intelligenza Artificiale (AI), Fisica e psicofisica, Live Electronics ecc. Curtis Roads in “Ricerche sulla musica e l’AI” ancora nel 1986 scrive: “Vari settori della scienza, tra i quali la grafica interattiva, l’elaborazione numerica dei segnali, la programmazione dei sistemi in tempo reale, l’architettura degli elaboratori e la microprogrammazione, sono entrati a far parte della musica informatica. Di recente un altro settore, cioè l’Intelligenza Artificiale (IA) ha iniziato ad avere una certa importanza in questo campo. IA comprende due grandi categorie: l’aspetto scientifico (noto anche come scienza della conoscenza) che formula delle teorie sull’intelligenza umana, e quello techico (noto come IA applicata) che crea programmi che rivelino un comportamento intelligente sia umano che non umano. Ambedue questi aspetti sono stati utilizzati dalla ricerca musicale.”

In riferimento alla ‘guida sonora’ pure contenuta nel Catalogo alla Mostra leggiamo: “(…) gli strumenti sono incatenati alla loro estensione, al loro timbro, alla loro possibilità di esecuzione, e le loro cento catene legano necessariamente anche chi vuol creare”. Ferruccio Busoni, “Saggio di una nuova estetica musicale”, Schmidl, Trieste, 1906. “(…) godiamo molto più nel combinare idealmente rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, L’Eroica o La Pastorale …Ci divertiremo a orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccio delle folle, i diversi frastuoni delle stazioni, delle ferrovie, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche, delle ferrovie sotterranee.” Luigi Russolo (futurista), lettera a Pratella, 1913.

Ɣ= John Cage a sua volta, nella conferenza ‘The future of music” del 1937 si è così espresso: “Credo che l’uso del rumore per fare musica continuerà e si diffonderà fino a giungere ad una musica prodotta con l’aiuto di strumenti elettrici quali renderanno utilizzabile per scopi musicali qualsiasi suono possa essere udito.” Interessantissimo risulta inoltre l’apparato bibliografico, la cronologia degli accadimenti tecnologici ed i riferimenti discografici che accompagnano le diverse tematiche. Insomma, un vero e proprio dizionario della musica contemporanea da consultare, per imparare a comprendere l’evoluzione comportamentale del suono e dei suoi derivati, conseguita da quanti: artisti, ricercatori, studiosi, creatori di sonorizzazioni e fruitori appassionati che hanno contribuito e continuano a farlo in nome dell’acquisizione totalizzante e della comprensione musicale mondiale.

Ɣ= Così (tanto per riassumere), Iannis Xenakis, nel 1963 conferma in ‘Musiques formelles’, il punto di partenza della sua utilizzazione delle calcolatrici eletrroniche nella composizione musicale:
a) il pensiero, creatore dell’uomo rivela dei meccanismi mentali che non sono, in ultima analisi, che degli insiemi di limitazioni di scelte, e ciò in ogni dominio ivi compreso quello artistico;
b) alcuni di questi meccanismi sono matematizzabili;
c) alcuni di questi meccanismi sono realizzabili fisicamente (ruota, motori, missili, calcolatori, ecc.);
d) alcuni meccanismi mentali possono trovare delle corrispondenze con certi meccanismi naturali;
e) alcuni aspettimeccanizzabili della creazione artistica possono essere simulati da certi meccanismi fisici (macchine) esistenti o da creare;
f) si da il caso che gli elaboratori possono rendere certi servizi.

Ɣ= Giunti al dunque, facciamo un ulteriore passo in avanti e giungiamo a quel “Filmare la musica” (9) afferente al documentario visivo, al linguaggio delle immagini in movimento, alla voce nel cinema, cui la musica offre (dona) il suo notevole contributo sonoro. “Nel 1980 il regista-produttore George Lucas e Ed Catmul fondano i laboratori Lucasfilm con l’obiettivo di utilizzare le moderne tecnologie informatiche per il trattamento e la sintesi sia di immagini che di suoni. A capo del progetto audio viene posto James A. Moorer che nel 1982, con la collaborazione di Curtis Abbott e John Snell, porta a termine il primo prototipo dell’Audio Signal Processor (ASP). Quest’ultimo è composto da 1 a 8 processori digitali di segnali (DSP) e da una’unità di controllo. La stazione di lavoro permette di compiere il tradizionale montaggio audio-video utilizzando un vasto archivio di suoni naturali e sintetiti (manipolati e non) e lavorando con grafica intereattiva per l’editing dei suoni e la loro sincronizzazione con le immagini: SOUNDDROID è la stazione di lavoro della Lucasfilm.”

Ɣ= Il sensazionalismo di questo avvenimento stava nel fatto che veniva offerto un elemento importante alla produzione filmica d’argomento scientifico. “Il linguaggio delle immagini in movimento” Virgilio Tosi (10) rileva che fin “Troppo spesso infatti, qualsiasi produzione cinematografica e programma televisivo di questo tipo risultava in sofferenza a causa dell’utilizzo in essi di ‘musica’ inadatta, stereotipa, basata sul largo consumo, generica e intercambiabile, talvolta assillante o comunque disturbante, perché faceva sentire fin troppo la sua presenza, abbassando solo un po’ il volume quando c’era il commento parlato”. Non sempre la musica fungeva da autentica ‘colonna sonora’, perché non veniva creata appositamente frame-to-frame sulle immagini in movimento: “Sembrava vi fosse una regola non scritta, ma che non si poteva eludere, la quale imponeva un commento musicale ininterrotto per qualsiasi presentazione d’argomento scientifico. In genere trattavasi di ritmi moderni, spesso ripetitivi e un po’ ossessivi, talvolta di cool-jazz, mentre per le operazioni più sofisticate si faceva ricorso alla musica concreta, elettronica.”

Ɣ= A questo approccio problematico rispose a suo tempo Vangelis Papatanassiou (11) con l’esclusione, salvo rare eccezioni, di ogni forma immotivata di commento musicale, come quelle create per i documentari di Frederic Rossif “L’Apocalypse des Animaux” (1973), e successivamente “Opera Sauvage” (1979), ed anche “Soil festivities” (1984), alle quali il musicista ha prestato il suo operato in qualità di compositore, arrangiatore, esecutore e produttore, quale solo un vero e proprio alchimista del suono riesce a fare; ora creando ed elaborando ‘effetti sonori’ studiati ad oc o presi dall’ambiente, utilizzando rumori reali e semplici suoni prodotti con strumenti musicali o nell’elaborazione di voci, come già in Henze nella riproposizione di un titolo: “Voices” (1995), anche queste elaborate da sintetizzatori ma con esito più suggestivo, in genere sufficienti a realizzare un ascolto decisamente più distensivo.

O, come in altri casi, rendendo più agevole seguire il flusso del commento vocale nel suo significante divenire: “Mythodea” (CD e Video - 2001) realizzato per la Missione Nasa ‘Mars Odyssey’(12); così come nel caso di cortometraggi e documentari dove ‘la voce’ è acusmatica, cioè che rimane ‘fuori del campo visivo’. “L’ácusma cinematografico spiega è davvero per un verso ‘fuori-campo’ (quindi, per lo spettatore, al di fuori dell’immagine), ma allo stesso tempo è dentro l’immagine dietro la quale proviene, in forma reale (realistica) o immaginaria; come se vagasse sulla superficie dell’immagine ora dentro ora fuori, con dei punti variabili all’interno dell’inquadratura, riconoscibili come tali solamente nella mente dello spettatore via-via che le immagini scorrono davanti ai suoi occhi.” (Virgilio Tosi op.cit.)

Si è precedentemente parlato dei vari aspetti della ‘musica per immagini’ e dei suoi fautori come di un ‘miracolo’ già avvenuto. Ora è il momento di andare ‘oltre’ l’aspetto culturale che l’ha visto nascere e recuperare (notare l’ossimoro), mi correggo, ripercorrere le numerose strade aperte dalla ricerca e non solo, che oggi distinguono gran parte della musica contemporanea in ogni sua referenzialità. A ciò molto è servito l’abbinamento con le diverse espressioni artistiche che la cultura odierna mette a disposizione, e che vanno dalla rappresentazione teatrale, il balletto, la mostra d’arte e la cinematografia di genere documentaristica e del reportage ambientale, in cui però, malgrado la credibilità culturale che oggi gli si voglia dare, in realtà l’aspetto commerciale ha preso il sopravvento e l’‘artefice’ (gli artefici) di tanto sconvolgimento è andato incontro al pubblico per colmare la grande differenza che li teneva separati.

Ɣ= Anche per questo “La ‘musica-visiva’” – scrive Augusto Romano (13) - ha dovuto farsi portatrice di una certa comunicabilità che non aveva. Ha dovuto cioè ricercare quei simboli dell’espressività sonora che non gli appartenevano, ma che pure davano fondamento all’idea di musica nel suo insieme, vuoi per effetto della globalizzazione (world-music) in atto, e che accompagna ogni manifestazione antropologica fin dalle sue origini tribali di tipo musicale-socio-comunitarie, fino agli ultimi esempi di acculturazione e addomesticazione delle immagini-sonore. Quella stessa che ha alimentato costantemente la produzione sonora di riflessioni filosofiche e psicologiche che hanno assunto, inevitabilmente, consistenza ormai ‘mitica’: si prenda ad esempio il Jazz o il Rock, che hanno tracciato un percorso nell’immaginazione umana. “Di fatto ogni discorso sulla musica si intreccia con quello sulla psiche e sulla pratica analitica sociologica, in un gioco di analogie situato sull’arduo confine che divide ciò che è dicibile da ciò che non è”.

Ɣ= Prendiamo a pretesto di queste scelte “Human” (2015)un documentario del 2015, diretto dal regista Yann Arthus-Bertrand (14), fotografo di grande levatura artistica, giornalista e ambientalista francese che ha diretto questo suo primo film d’ampio respiro finanziato contemporaneamente da due fondazioni no profit: la Bettencourt Schueller e la GoodPlanet. “Il film, presentato il 12 settembre 2015 tra i film fuori concorso alla 72ª edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. diffuso in contemporanea in streaming su Youtube e proiettato in 400 sale cinematografiche francesi e, successivamente distribuito anche nelle sale cinematografiche italiane, propone le interviste di 110 persone di tutto il pianeta su varie tematiche della vita. Ed oggi, grazie alla collaborazione con Google, il partner digitale del film, reso accessibile su YouTube sottotitolato in varie lingue. Le interviste si susseguono rapidamente senza lasciare allo spettatore particolari riferimenti visivi sulla provenienza geografica dell'interlocutore. Tutti parlano nella loro lingua madre su uno sfondo nero, che permette di nascondere eventuali dettagli sull'identità locale delle singole persone e di inserire i sottotitoli. Il film, contiene sequenze di indicibile bellezza cinematografica e coglie un susseguirsi di eventi ‘live’ intorno ai popoli più diversi, raccontando anche ‘visivamente’ particolari della vita di ciascuno.

L’autore del film, Yann Arthus-Bertrand, intervistato da LifeGate (15), ci parla di un altro progetto “La terra vista dal cielo – La terre vue du ciel”, un magnifico atlante dei paesaggi più suggestivi del mondo fotografati dall’alto. Da anni è testimone della bellezza e della fragilità della Terra attraverso fotografie scattate dal cielo. Con le stesse immagini, è riuscito anche a catturare l’attenzione su alcuni dei più gravi problemi che minacciano il nostro pianeta. Dalle conseguenze negative del riscaldamento globale all’urbanizzazione senza limiti. La mia storia comincia all’età di 30 anni, dopo aver letto il libro “L’ombra dell’uomo” della famosa primatologa Jane Goodall, che già all’epoca consideravo uno dei miei idoli. È in quel periodo che ho deciso di partire per il Kenya dove ho lavorato a una tesi sul comportamento dei leoni insieme a mia moglie, seguendo per tre anni la stessa famiglia di felini. Nel frattempo, per guadagnarmi da vivere, ho deciso di diventare pilota di mongolfiera e accompagnare i turisti a visitare la riserva dove portavo avanti la ricerca. Così ho scoperto l’importanza della fotografia aerea e di osservare il territorio dal cielo. È lì che ho deciso di diventare fotografo, perché con le immagini si riesce a far passare emozioni e informazioni uniche, che spesso le parole tralasciano. È stata una scoperta magica. Poi quando sono rientrato in Europa ho lavorato per diversi giornali, in Italia per Airone, e ho deciso di diventare fotografo naturalista di professione.

Guardare le cose da una prospettiva esterna, nel suo caso “superiore”, dovrebbe aiutare a capire meglio i problemi, ad avere un quadro completo. Quanto la sua esperienza da fotografo e osservatore della Terra ha inciso sulla scelta di agire concretamente in difesa dell’ambiente? Tutti conosciamo la data del 1992 in cui si è tenuta la prima grande conferenza internazionale sull’ambiente, quella di Rio de Janeiro. In quella occasione ho deciso di agire per la Terra. Allora c’era un concetto di ecologia diversa da quella che abbiamo oggi. Si parlava di deforestazione, specie in via di estinzione, ma non si parlava mai di cambiamento climatico. Proprio di ciò che io stavo osservando dalla mia prospettiva, aerea. Anche dopo la conferenza di Kyoto, erano pochi i giornalisti interessati all’argomento. L’impatto dell’uomo sulla Terra era poco considerato e per lo più dal punto di vista sociale. Per questo penso che le grandi conferenze non siano utili per cambiare le cose.

Ma nel suo documentario “Home” egli sembra convinto che l’uomo possa ancora cambiare, cominciare a sfruttare le risorse naturali in modo sostenibile, come?
Non voglio più far parte di coloro che credono di poter cambiare il mondo attraverso le cose. La nostra civiltà è basata sul commercio, sugli scambi. Più compri, più consumi. Tutto questo non va bene per l’ambiente. Bisogna imparare a vivere meglio, consumando meno. Bisogna cominciare a “decrescere”, anche se oggi questo termine viene considerato politicamente scorretto. La verità, però, è che non sarà la politica a cambiare le cose. C’è bisogno di una rivoluzione che non sarà scientifica, perché i computer possono migliorare il nostro stile di vita ma non lo possono modificare. Non sarà economica perché è impensabile riuscire a sostituire gli 85 milioni di barili di petrolio che consumiamo ogni giorno con pannelli solari e pale eoliche. E non sarà politica.
Una rivoluzione di che genere? La rivoluzione dovrà essere spirituale, etica e morale. Come vivo, cosa faccio, attraverso la quale mi sono impegnato a educare sull'ambiente e sulla lotta contro i cambiamenti climatici e le loro conseguenze.

L’autore: Yann Arthus-Bertrand.
Nominato Ambasciatore della Buona Volontà per il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente il 22 aprile 2009, ha realizzato in quello stesso anno il suo primo film, “Home”, con una forte attenzione al tema dell'ambiente, disponibile gratuitamente su youtube. Sempre nel 2009 inaugura “7 miliardi di Altri”, grande mostra al Grand Palais di Parigi che si presenta come un ritratto dell'umanità di oggi, nato dalla riflessione personale che si è sviluppata nello spazio di 30 anni e ha portato alla realizzazione del suo ultimo lungometraggio documentario: “Human” (2015).
Le sue immagini valgono più di molte parole. Ma se fosse obbligato a esprimersi con la voce, che messaggio vorrebbe arrivasse alle persone?
L’obiettivo della mia “Fondazione GoodPlanet” è cercare di far amare di più la vita. Amare la vita completamente. E di amare gli altri allo stesso modo. Abbiamo bisogno di fratellanza. Oggi viviamo un’ecologia senza amore. In questo abbiamo fallito perché non siamo riusciti a trovare il modo giusto per parlare ai giovani e trasmettere loro i valori necessari. E ora è difficile dire a un ragazzo che deve vivere meglio con meno perché noi per primi non abbiamo saputo dare il buon esempio. Per questo non ho messaggi, l’unica cosa che voglio dire è: vi amo.

Yann Arthus-Bertrand è inoltre fotografo e un celebre specialista di immagini aeree. Ha scritto diversi libri, tra cui La terra vista dal cielo, che è stato tradotto in 24 lingue e ha venduto più di tre milioni di copie. Dal 2005 ha avviato il progetto della Good Planet Foundation, Nel 2011, ha realizzato il film “Planet Ocean” con Michaël Pitiot, in cui le sue incredibili fotografie aeree, accompagnate dalle coinvolgenti riprese di pluripremiati fotografi marini, hanno trasportato il pubblico in un viaggio unico verso il cuore del nostro pianeta blu. Straordinariamente però è la musica del più noto compositore Armand Amar, che ha composto la colonna sonora di “Human” e delle altre per lo stesso regista, a dare alle sue immagini l’enfasi vitale, frame-to-frame, di cui hanno bisogno, legandole assieme pur conservandone la singola peculiarità. Quello che lo spettatore si trova davanti come immagini è un mosaico del vissuto di questa pur stupenda umanità che la musica rende estremamente poetica, a cui le parole (dette, narrate oppure cantate) rientrano nella dimensione di quell’‘indicibile’ onirico sentore più vicino all’anima.

Ɣ= L’autore delle musiche, Armand Amar (16)
È un compositore franco-israeliano cresciuto in Marocco che vive a Parigi dove attualmente lavora, vincitore nel 2010 del César Award for Best Music per “ Le Concert” di (Radu Mihăileanu), e nel 2014: Amanda Award for Best Score for A Thousand Times Good Night per Erik Poppe. La sua carriera come musicista inizia nel 1968 come suonatore di congas (percussioni ), e praticante negli anni seguenti in tabla e zarb, tipici strumenti mediorientali. Nel 1976 incontra in South Africa il coreografo Peter Gross che lo introduce al mondo della danza, con il quale realizza numerose coreografie sulla danza contemporanea presentati nei diversi festival in giro per il mondo. Inoltre ad alcuni balletti quali ‘The Trail’, ‘The First Cry’, e le ‘colonne-sonore (soundtracks) per il cinema: 'Days of Glory’, ‘Live and Become’, ‘Earth from Above’, ‘Bab'Aziz’, ed 'Amen’, ‘Eden Is West’, ‘Capital’ Di Costa Gravas; quindi il suo grande successo ‘Home’, e ‘Human’ che lo ha portato alla ribalta internazionale.

Dal suo incontro nel 1994 con Alain Weber e Peter Gabriel, è infine nata l’etichetta Long Distance che raccoglie gran parte delle sue musiche. Nel 1992: "The Other Side" approda al Conservatoire national supérieur de Paris. Dal1994 al 1996 presenta : "Nomades Dance" et "Paroles d'Anges" avec les musiciens du Rajasthan et les gitans de Perpignan pour Montpellier danse et la biennale de Lyon. Nel frattempo lavora alla creazione per Philippe Talard al Théâtre National di Mannheim. Nel 2005: Inana, un ballet de Carolyn Carlson cui fa seguito nel 2006: Souviens toi de Marie-Claude Pietragalla et Julien Derouault. Nel 2009 realizza Marco Polo de Marie-Claude Pietragalla et Julien Derouault. Sono del 2014 ‘Falen pour le Ballet Boy’, danse e ‘Steel par Russel Maliphant’ e ‘Pixel’ realizzato per Mourad Merzouki, entrambi dedicati alla danza contemporanea.

“Pixel” per la coreografia di Mourad Merzouki su musiche di Armand Amar rientra nella ‘contemporary dance performance’, così definita e accettata a livello internazionale. Il balletto eseguito sulla scena da 11 danzatori che agiscono in uno spazio virtuale, vede in sé la combinazione di fiction e tecnologia, minimal music e hip-hop, energia e poesia, allo stesso modo che la musica di Amar si conforma al movimento inarrestabile dei danzatori, aprendo un dialogo fra i loro corpi e il mondo digitale che li circonda. Un unico coinvolgente abbraccio con lo spettatore che, attonito, sembra non comprendere il pericolo che incombe nel vuoto spaziale, realizzato magistralmente dalla light-scenography ideata dall’ingegno del coregrafo Mourad Merzouki, nel quale, seppure involontariamente siamo costretti a vivere.

Il rapporto ‘minimalista’ consente a Merzouki di esibire la sua totale dipendenza dal messaggio estetico fluito con Pina Baush ‘nella ricerca dell’identità perduta’ ed entrato nel panorama della danza contemporanea. Della quale, il coreografo sembra aver compresso la gestualità del corpo, le tensioni e i rigori che come ogni protagonista noi stessi ci portiamo dentro. Acciò la musica di Amar risponde perfettamente al ‘minimalismo’ interiore che dai corpi sale in superficie e si mostra per quello che è: ‘assenza totale di senso’; un ‘Pixel’ appunto (o tanti), smarrito nel vuoto spaziale, in cui perdersi, forse definitivamente.

Ɣ= Alla ‘contemporary music’ è approdato anche Mario Brunello (17), violoncellista tra i più apprezzati al mondo e direttore dell’Orchestra d’Archi Italiana, in ricerca d’ispirazione e di una sorta di meditazione, come dimostrano le sue sperimentazioni di concerti in luoghi non normalmente nati per queste attività: come su una cima dolomitica o all’interno di un monastero, o in pieno Sahara. Infatti, al di là delle sale da concerto e dei festival internazionali, egli ama portare la musica fuori dai circuiti tradizionali, sperimentando luoghi e forme inusuali di comunicazione. Ma è proprio qui che nasce e si forma la sua unicità e che racconta in “Silenzio” (…..?) ciò che davvero significhi questa magica parola, che con la sua presenza si è fatta ‘luogo’ per così dire, dimensione di vita.

«Da musicista - scrive Mario Brunello - ho scoperto il ‘silenzio’ in un momento ben preciso della mia vita, quando (..) con la complicità del silenzio trovai spazi e modi diversi di attaccare e concludere il discorso musicale. E le pause, le pause che avevo inteso come semplici momenti per riprendere fiato, divennero in quel silenzio i punti cardine dai quali partire con le nuove idee. (..) Scoprii il potere del silenzio..» Riprendo dalle note che lo riguardano che: “anche per un musicista l’assenza di suoni può rappresentare ispirazione e vera e propria musica per le orecchie. (..) Al violoncellista ovviamente non interessa un silenzio qualunque, ma quello in cui la musica si forma, prende vita e diventa arte.

Così racconta come nascono le sue note: all’interno di una specie di luogo in cui non ci sono, in cui, per l’appunto domina il silenzio che permette però all’artista di entrare, di essere segnato. E così nasce la musica. Il suono si sistema in quel silenzio. Ecco allora la ricerca di luoghi dove il silenzio è d’oro, dove esso prospera e viene rispettato, come una montagna o un deserto. Persino però in un mercato caotico pieno di colori, di parole e di forme, il musicista trova il suo silenzio e lo trasforma in qualcosa di portentoso: “È un silenzio che sta anche intorno ai suoni, un silenzio che è ‘liquido amniotico’, dà vita e ne fa riconoscere e individuare il (suo) senso profondo”. Non va qui trascurato l’altro accostamento che l’intuitivo Brunello fa con i ‘luoghi’ della sua ricerca musicale: “Se il luogo è puro spazio, il silenzio si fa ascoltare, ci accompagna e non ci lascia soli”. E che dire dell’architettura che si inserisce in certi luoghi?

L’esempio colto di Brunello prende come riferimento i ‘luoghi’ ricreati di Mario Scarpa. Credo (modestamente parlando dell’argomento) che a tutt’oggi non c’è architetto che abbia compreso il suono e la poesia che attraversa (cioè s’innesta senza corrompere) certi ‘luoghi’ come in Scarpa. Non c’è creazione in architettura che possa stare al pari per ‘immersione nel silenzio’ alle solitudini poetiche di Mario Scarpa nel re-interpretare quell’ “infinito” leopardiano che solo ci riempie d’immenso: “La natura – scrive ancora l’autore – insegna a ‘sentire’ il suo e il nostro silenzio (interiore), ma insegna anche ad ascoltare la musica degli uomini e ad arricchirla con il suo silenzio”. Al dunque, dobbiamo solo re-imparare a porgere orecchio all'ascolto, ad ascoltare immersi nei rumori di fondo: “Un rumore, quando è isolato nel silenzio, è un evento che in genere crea interesse e sveglia la curiosità aggiungendo che ogni rumore ha la sua ragione di esistere e molte volte, attraverso il rumore, anche le cose si esprimono”. Potremmo non essere d’accordo ma è così che accade, e non possiamo esimerci dal considerare che allora anche la musica potrebbe essere rumore mentre, come il grande Shakespeare insegna: “tutto il resto è silenzio”.

Con il suo album: “Violoncello and” – EGEA 2009, registrato nella Chiesa Monastica del Monastero di Bose (Italia), Mario Brunello ‘incontra’, è il caso di evidenziarlo, tre importanti compositori contemporanei: Giacinto Scelsi “Funerali di Carlo Magno” (1976) per violoncello e percussioni; Peter Sculthorpe “Requiem” (1979) per violoncello solo e coro; Giovanni Sollima “Concerto rotondo” (2000) per violoncello ed electronics. L’importanza di queste esecuzioni caratterizzate non a caso da una scelta ‘mistico-sacrale’ per il luogo in cui sono svolte, non impedisce al violoncellista di misurarsi con l’attualità della musica che segue i suoi percorsi evolutivi, altresì proietta la musica sacra verso un ‘oltre’ finora inaccessibile, praticamente dalla staticità dove era rimasta per decenni (secoli), fino all’evolutivo Giorgio Federico Ghedini che in “Canti Sacri”(*) ha permesso di affrontare un ‘nuovo’ corso alla vocalità del canto corale. In “Violoncello and” Mario Brunello si esibisce con la Schola Gregoriana Monastero di Bose nella sequenza del ‘Requiem’, con la quale affronta il discorso sulla ‘melodia’ segnato dal compositore Peter Sculthorpe:

“L’idea di usare la Messa da Requiem Gregoriana come materiale per una composizione mi interessa da anni e applicarla alle qualità espressive del violoncello mi sembra particolarmente appropriata. Qualità espressive messe ancora più in evidenza dalla particolare accordatura, la quarta corda abbassata di un tono, richiesta per questa composizione. In gran parte la musica rispecchia le parole delle parti del testo latino scelto, cosicché dove il testo è in terza persona ho usato il canto gregoriano, dove è in prima persona ho usato il mio personale linghuaggio musicale. Il lavoro, perciò, alterna la calma e l’oggettività del gregoriano e il calore, anche passione a volte, della mia musica che è qui concepita come implorazione al bisogno di perdono e di virta eterna.”

In “Concerto Rotondo” (2000) troviamo un altro specialista del settore electronics, Michael Seberich, con il quale brunello affronta il discorso specifico della contaminazione classica-tecnologica, proiettata alla ricerca di una ‘armonia’ possibile. Scrive il compositore del brano Giovanni Sollima:“Concerto Rotondo, non è altro che il risultato naturale dell’usare il violoncello come una sorta di strumento sonda, per intercettare forme di vocalità e tecniche strumentali. Ho viaggiato, ho stabilito dei contatti, ho imparato. Suono il saranghi per esempio, mi interessa giusto per capire qual è lo spazio intermedio tra uno strumento e l’altro, la storia tra uno strumento e l’altro, perché si scrive certa musica perché se ne scrive altra … ero lì schiavo dell’armonia, della verticalità, del vivere un secondo di armonia, godendone. Nel comporre per e con il violoncello, la scrittura diventa un segno, un solco che viaggia nel tempo. È uno strumento polifonico virtuale”.

Così accade che nell’ultimo segmento/brano incluso nell’album eseguito per violoncello e percussioni, affidate a Maurizio Ben Omar, si affronti il discorso sul ‘ritmo’. Cosa altrettanto avveniristica è la scelta del brano “Funerali di Carlo Magno” (1976) di Giacinto Scelsi, prendendo le distanze dall’etichettare la sua musica: “La mia musica non è né questa né quella non è dodecafonica, non è puntilista, non è minimalista … cos’è allora? Non si sa. Le note, le note non sono che dei rivestimenti, degli abiti: ma ciò che c’è dentro è generalmente più interessante, no? Il suono è sferico, è rotondo. Invece lo si ascolta sempre come durata e altezza. Non va bene. Ogni cosa sferica ha un centro. Bisogna arrivare al cuore del suono … non avete idea di cosa sia un suono! Vi sono dei contrappunti, vi sono sfasamenti di timbri diversi, armonici che producono effetti, movimenti divergenti e concentrici. Esso allora diventa grandissimo, diventa una parte del cosmo, anche se minima: c’è tutto dentro, pieno di vibrazioni (buone e cattive), tutto produce vibrazioni…”.

Ciò che in realtà arriva all’ascoltatore della musica eseguita da Mario Brunello evidenzia le infinite possibilità di utilizzazione dello strumento di cui è indiscusso maestro; non in ultimo la capacità di far apprezzare all’ascoltatore, anche a quello meno preparato, la sua impermeabile presenza all’interno di un vero e proprio ‘corpo musicale’ che irrompe dall’esecutore verso l’indicibile ‘altrui’ e che va oltre le ‘inapparenze’: “Dove si vede l’invisibile, là si crea l’increato”. (Nicolaus Cusanus)

Libri: Mario Brunello “Fuori con la musica” – Rizzoli 2011. “Silenzio” - Rizzoli 2014.
Discografia: “Odusia” – EGEA 2008; Bach - “Concerti Brandenburghesi 1-6” direttore Claudio Abbado - 2008; Bach - “Sei suites per violoncello solo” – EGEA; “Violoncello and” – EGEA 2009; Ed altre incisioni dedicate a Vivaldi, Beethoven, Sollima, Villalobos, Jobim, Brahms, Chopin, Samti, Dvorak con Antonio Pappano.

Giunti al dunque possiamo ben dire che il suono è nell’aria, non come parola, non come canto, ma come musica. Allo steso modo possiamo ammettere che la voce è nell’aria come voce: parlata, urlata, canticchiata, o bisbigliata che sia. Per una qualche incomprensibile distrazione nell’ambito del teatro contemporaneo, che per definizione è la sua ‘casa’ o, se vogliamo, la sua ‘cassa di risonanza’, la voce finisce per essere subalterna alla parola e al canto, fino a scomparire del tutto sommersa dalla musica, sempre più incombente e talvolta sovrastante. A creare quasi una ‘colonna sonora’ che nella realtà non esiste. Ma non è così, lo sappiamo, per il fatto che siamo costantemente circondati dalla musica: rumori assordanti, chiecchiericcio di voci pettegolanti, elettrodomestici nel pieno delle loro funzioni, ecc. che altresì formano la colonna sonora del nostro quotidiano.

Ci accorgiamo così che proprio i suoni e le voci ‘né completamente dentro, né palesemente fuori’ sono le cose che destano maggiormente il nostro interesse di spettatori: infatti, per esemplificare, si può dire che tutti gli altri modelli d’intrattenimento risultano mutati dalla nostra presenza in un teatro, allorché assistiamo a una rappresentazione. Come dire che la presenza di un corpo umano spiega la necessità di uno spazio come il teatro, adatto alla sua possibile gestualità, allo stesso modo la voce umana ridefinisce lo spazio sonoro che la contiene. In teatro infatti la cosa più suggestiva è l’impressionante mancanza di vuoto che non riusciamo a colmare con la nostra sola presenza. Mentre è plausibile che l’udito invece riesca a cogliere suoni, voci, rumori, così come apparire e/o scomparire, piuttosto drammatico perché riempie lo spazio di imprevedibili presenze nascoste ‘né dentro, né fuori’, certamente lì presenti con noi.

Ɣ= Per capire il senso di questa differenza è interessante risalire al significato intrinseco della presenza sulla scena del corpo fisico dell’attore/i, al suo imporsi oggettivamente seguendo le regole di un ‘gioco’ che va avanti da millenni e che a tutt’oggi conserva le sue regole etiche e comportamentali che sono proprie del ‘fare teatro’. Quelle stesse che nell’impianto scenico/filmico e musicale Louis Andriessen (18) ha cercato di smontare/rivoluzionare in “La Commedia” ‘a film-opera in cinque parti, su testi di Dante, Vondel ed altri, e brani presi dal Vecchio Testamento.

Realizzata in parte in interni alla fine di Giugno 2008 al Koninklijk Theater Amsterdam, che l’ha prodotta per The Holland festival, è stata realizzsata soloin piccola parte in esterni, e registrata su 2CD + 1DVD per la Nonesuch Record, vede la partecipazione attiva dei maestri della Dutch National Opera diretta da Reimbert de Leeuw, per la parte electronic-music Asko / Schönberg. Vocals: Claron McFadden, soprano, (Beatrice); Cristina Zavalloni, voce narrante (Dante); Jeroen Willems, voce (Lucifero / Cacciaguida); Marcel Beekman, tenore (Casella). Trattasi di un’Opera particolarmente frammentata sia come immagini, (bellissimo il b/n e il taglio fotografico); sia come elaborazione dei testi che la compongono, (tendenti a una drammatizzazione grave), cui la musica dello stesso Louis Andriessen, pur rispondendo alle necessità d’insieme, non sempre riesce a comunicare con l’alchimia di voci e suoni che isolati dal contesto filmico/teatrale, in alcuni passaggi strumentali, aprono ad una possibile sinfonia minimalista.

La trama s’avvale di un contesto pseudo-letterario basato sulla manipolazione della Commedia dantesca:

1) “The City of Dis. Or The Ship of the Fools”, in cui Dis rappresenta l’Inferno, la quale narrazione è ripresa da un manoscritto ‘Guild of the Blue Barge’ del XVI secolo. Beatrice vi appare per un breve istante in cui chiede a Virgilio di assistere Dante nel suo viaggio attraverso l’eternità.
2) “Racconto dall’Inferno”, Dante narra una storiella comica al Signore dei diavoli, un certo Malacoda, che a sua volta gli indica la strada e gli affianca dieci diavoli a fargli da scorta. Insieme marciano lungo la via indicata.
3) Lucifer, preannunciato dall’introduzione musicale con effetti sonori che li conduciono attraverso il profondo orrore dell’Inferno, e mentre il Coro descrive gelosia di Lucifero per aver Dio creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, il diavolo lancia grida contro di Lui consumato dal desiderio di vendetta e ironicamente ne gioisce.
4) “The Garden of Earthly Delights”, Dante incontra un suo vecchio amico che si trova tra le anime dei penitenti, Casella, un compositore e cantore fiorentino o pistoiese, che canta per lui alcuni splendidi sonetti. È lo stesso Dante a cantare per lui narrandogli la storia di un terribile serpente ucciso da un enorme uccello, dopo di che viene aiutato ad attraversare il fiume Lete oltre il quale assiste al passaggio di una lunga processione di grande bellezza. Quindi, distratto viene investito da un’auto in corsa e muore. Un Coro di bambini canta sul testo ‘Song of Songs’ dedicato alla ‘Bride of lebanon’.(?)
5) “Luce Etterna”, una forte luce invade la scena da cui si sviluppa la musica che permette il ritorno di Beatrice, interrotto ancora dal Coro che intona il Requiem. Beatrice comprende così che quella luce è la luce stessa dell’amore. È in questo momento che la musica, levata sulle righe del pentagramma, permette alle due anime ‘soliste’ di connettersi con le sfere cosmiche che ruotano nell’intero firmamento illuminato di stelle. Incrinato però dall’interruzione di Cacciaguida, il quale si lagna della gente di Firenze. (nel ricordo dell’esilio di Dante dalla città). Nel finale Beatrice canta rivolta alla luce dell’eternità il suo cordoglio raccogliendo in sé tutti i dispiaceri.

Louis Andriessen (Utrecht, 6 giugno 1939) è un compositore olandese di musica contemporanea. Ha iniziato i suoi studi musicali con il padre, poi ha studiato a L'Aia con Kees van Baaren e successivamente a Milano con Luciano Berio e a Berlino. Tornato nei Paesi Bassi, nel 1972 ha fondato l’ensemble di strumenti a fiato De Volharding (Perseveranza) e nel 1976 il gruppo Hoketus (scioltosi nel 1987), che prendono il nome da composizioni omonime. Nel 1969, Andriessen ha partecipato al suo primo "happening" teatrale su grande scala, Reconstructie, all'Olanda Festival in collaborazione con Ton de Leeuw , Misha Mengelberg , Peter Schat e Jan van Vlijmen. Nel 1970, Andriessen ha continuato a scrivere musica per ensemble sinfonici standard per sempre, una decisione che avrebbe avuto un impatto profondo sul suo sviluppo. Per un certo periodo, ha lavorato nella musica elettronica; la sua prima avventura in teatro da solo con Il Principe. Andriessen ha sperimentato una svolta creativa nel 1976, con De Staat, una grande opera corale basata sulla Repubblica di Platone cantata nel greco originale, che combina scale dell'antica Grecia, ritmi di Stravinskyian, ripetizione e hocket. I più giovani compositori considerano il lavoro di Andriessen un'alternativa al serialismo accademico e al minimalismo americano, e aspiranti compositori di molte nazioni sono venuti in Olanda per studiare con lui al Royal Conservatory all'Aia.

Dopo De Staat, i principali lavori di Andriessen hanno incluso De Tijd, Facing Death per il Kronos Quartet e Trilogy of the Last Day. Ha collaborato con il regista Robert Wilson nel film in quattro parti De Materie nel 1989. Negli anni '90, una proficua collaborazione con il regista Peter Greenaway ha portato a numerose opere, tra cui i film M è per Man, Music, Mozart; Rosa: The Death of a Composer; e l'opera Writing to Vermeer, che ha debuttato nel 1999. A volte didattico nella sua difesa delle sue idee politiche progressiste, Andriessen è tuttavia tutt'altro che privo di senso dell'umorismo. La sua penetrante intuizione come saggista su argomenti come Stravinsky può essere letta nel suo libro The Apollonian Clockwork, pubblicato nel 1989. Andriessen ha detto: "Non mi sento a mio agio con compositori come Schoenberg che spingono sempre avanti in una direzione. jacks-of-all-trades: i Purcell e Stravinsky , che sono a casa da qualche parte, prendono in prestito qui e rubano lì. "

La sua popolarità con i giovani ascoltatori e la presenza sulla scena ha fornito una spinta senza precedenti alla prominenza della musica olandese contemporanea in tutto il mondo. Recentemente ha composto le musiche per ‘Theatre of the World’ (2017) registrato dal vivo durante le esibizioni in prima mondiale 2016 della Los Angeles Philharmonic con il direttore d'orchestra Reinbert de Leeuw e il regista Pierre Audi. L'opera multimediale a nove scene, che presenta un libretto di Helmut Krausser, è una vasta esplorazione dello studioso gesuita tedesco del 17 ° secolo Athanasius Kircher. Il Los Angeles Times dice: "Brillante e profonda, la musica di Andriessen spinge dall'inizio alla fine."

Nello sperare che quanto fin qui detto rappresenti per qualcuno di voi lettori un ulteriore ‘passo’ per la divulgazione della buona musica nel mondo, e utile a formare una coscienza di massa di cui penso, ci sia ancora bisogno.


Note:
1) Elvira di Bona – Vincenzo Santarcangelo -
“Dall’esperienza uditiva ai suoi oggetti” - Raffaello Cortina Edit. 2018
2) Kronos Quartet – discografia in Elektra - Nonesuch Records
3) Laurie Anderson – discografia in Nonesuch Records
4) Catalogo Mostra Biennale di Venezia – Ente Autonomo Biennale - Venezia 1986
5) Jean-Claude Risset – in Catalogo Mostra op.cit.
6) Honoré de Balzac / Lady Ada Loelace / Edgar Varese - in Catalogo Mostra op.cit.
7) Yannis Xenakis - in Catalogo Mostra op.cit.
8) John Cage - in Catalogo Mostra op.cit.
9) Leonardo D’Amico - “Filmare la Musica” Carocci Editore 2012
10) Virgilio Tosi – “Il linguaggio delle immagini in movimento” – Armando Edit. 1984
11) Vangelis Papatanassiou - 'Mythodea' discografia in Polydor – Warner Music
12) Michel Chion – “La voce nel Cinema” – Pratiche Editrice 1991
13) Augusto Romano - “Musica e Psiche” – Boringhieri 2002
14) Jean Arthur-Bertrand – vedi sito Wikipedia
15) J. Arthur-Bertand, intervista rilasciata a LifeGate - vedi sito Wikipedia
16) Arman Amar – discografia in Erato – Warner Classics
17) Mario Brunello – EGEA Edizioni Discografiche 2009
18) Louis Andriessen – discografia in Nonesuch Records

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