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Poesia

Gabriella Sica
Interno poesia

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 23/04/2021 12:00:00

 

Di Gabriella Sica, docente universitaria, promotrice culturale e poetessa di lungo corso poco abbiamo da ricordare, la sua attività, il suo amore soprattutto per il dettato poetico nelle sue più diverse accezioni di incontro, domanda, investigazione nel corpo dell’umano presentandosi da soli. Come nel caso anche di Valentino Zeichen, l’autore di Fiume, o faremmo meglio a dire l’autore romano per l’adozione reciproca, o l’autore insieme di tutte le terre e di nessuna terra per lo scardinamento di un’appartenenza al mondo che insieme lo enuclea, nell’insieme, e insieme lo nega, lo riassetta nei frammenti delle sue infinite epifanie. È un libro questo, di una quarantina di poesie e due brevi testi in prosa, apparentemente semplice nella sua struttura ma difficilmente catalogabile, ed è un bene perché nel suo essere ora memoriale di una vita, di un’amicizia, di una poesia raccontata nella libertà anche da se stessi, dal proprio passato, dal proprio presente di risonanti assenze, cui continuamente, gioiosamente e dolorosamente chiama, ci investiga dal profondo e ci commuove, l’autrice spogliandosi di ogni ruolo e rivelando la donna, l’anima smarrita alla perdita dell’amico, Zeichen scomparso nel 2016. Così il lungo racconto di un rapporto antico nella consonanza e nell’affinità di un dire più che poetico umano, teneramente e drammaticamente umano nelle pieghe di una storia e di una contemporaneità sovente votata al rigetto, è il racconto di un uomo sì esule dalla propria patria, espropriato da se stesso e dalla propria lingua, che ha saputo riguadagnarsi e mostrarci la strada nella riappropriazione di tutto questo tramite la sua spoliazione, il suo servizio nella distanza ora monacale ora pienamente, provocatoriamente addentro nel duello col mondo, ma anche quella di un’amicizia, sul cui valore, il valore cui tutti noi diamo e viviamo questi versi invitano a riflettere. Per questo è un testo riuscito questo della Sica, perché sfonda, scarta ogni discorso critico (pure in una scrittura densissima, aerea e corposamente viva nel vagare tra figure e ricordi) strattonandoci nello spazio di quella corona cui ogni morte (come ben rilevò la Cvtaeva) si inanella a tutte quelle morti che in noi l’hanno preceduta fino alla prima morte la cui vita nella sua rivelazione ancora ci interroga. Tramite Zeichen infatti la Sica parla di se stessa, di una prossimità addestrata, carezzata, inseguita nella seduzione ora del poeta ora dell’uomo risaltando in questi testi una dolcezza e una intimità di sguardo forse solo alle donne possibile nello sgomento, nell’impotenza di fronte una storia, una figura cui riesce a dare il taglio del bambino, lei bambina con lui, bambina sempre, fuor di retorica sorella sempre, sorella piegata adesso, sì, ma riconoscente. È un racconto di Roma anche, di quel cuore ora metafisico ora per levità d’arte e di vita concretamente acceso tra la leggendaria “baracca”- residenza di Zeichen in Via Flaminia e cene, incontri, riapparizioni di nuvole in versi, di numi della cultura e della poesia italiana nella confidenza di uomini e donne colti nella spigolatura del sorriso, nella teatrale rappresentazione di un’epoca che ancora ci appartiene ma che non riconosciamo, dalla Sica espansa per non disperderne l’abbraccio, per non disperdersi lei, adesso, soprattutto. Ed è in questo smarrimento cui non è difficile aderire, ognuno di noi per personali debiti e per personali timori, la forza testimoniale di una apertura ancora al destino di incontro che è nel richiamo di ogni giorno, ogni giorno il dire poetico, la sua rivelazione più alta nella discesa a ricucire uomini e distanze, la vita mai vinta, come nell’immagine di quel glicine in fiore nel giardino del suo Valentino nel testo finale. Reciso dal male degli uomini, dal tronco spuntano foglie “più tremolanti del solito” ad annunciare “qualche altro bel fiore”. Fiori ancora di uomini e donne in poesia ancora, nella lezione anche di uno degli ultimi, pochi maestri (ne nascono ogni cent’anni, in questo aveva ragione Moravia), Zeichen infine riportato nell’esattezza di una verità, la sua verità di cui forse solo adesso, come spesso succede, con più nitidezza ne comprendiamo l’ardore. Spessore poetico e di uomo dalla Sica, dall’amata Gabriella forse tratteggiato come nessuno nel suo saper sopravvivere “a dispetto del male/ con poco nel poco per poco/come si vive vivo tra i vivi/dopo una gran catastrofe sonora/con tutto nel tutto per tutto” ed ora che non può tornare immaginandoselo vivo, lontano in un bar a Finisterre, “come migrante a bordo dell’Europa”, a fissare come “impenitente vedetta” “le macerie della storia”. Questa “spiga di grano” è l’omaggio a Valentino e a se stessa che la Sica ci lascia, il girasole che bramando la vita la vita in poesia riaccende, nell’invito a rileggere Zeichen dunque, anche, rileggendovi però insieme ogni amicizia, ogni incontro che l’esistenza pur nella dolenza degli addii che verranno per grazia ci offre. E allora grazie Gabriella.

 


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