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L’ombra della salute

Poesia

Alberto Pellegatta (Biografia)
Mondadori

Recensione di Maurizio Soldini
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Pubblicato il 03/06/2011 12:00:00

Alberto Pellegatta è poeta affermato nonostante la sua giovane età e con L’ombra della salute, Mondadori, 2011, approda alla collana de Lo Specchio, dopo aver percorso una strada che già dalle origini, alla sua prima pubblicazione con LietoColle nel 2002, Mattinata larga, lo presentava come una promessa più che certa. Il primo dato da mettere in risalto è che finalmente una grande casa editrice apre ai giovani così da dar modo all’ingresso di un vento nuovo che si spera porti freschezza ed effervescenza alla poesia contemporanea. Poesia che spesso si arrampica sugli specchi di un canone difficile da cercare e da trovare. Perché spesso si oscilla da un minimalismo ad un massimalismo, da un oggettismo elenchico a uno psicologismo esasperato e decadente, il tutto ormai fuori luogo in una realtà esistenziale come quella odierna nella quale è invece necessario cogliere la complessità del mondo, a fronte di una liquidità culturale esistenziale formale concettuale e sentimentale. Il gioco, come mi piace dire da qualche tempo, è tutto fra una poesia ontica ed una ontologica. E quello che oggi ci si para davanti è per lo più un dettato poetico ontico piuttosto che ontologico, ergo l’approdo nel niente. Nel nihilismo imperversante e corrodente che spesso fa slittare su semplicismi e affettazioni fonetiche semantiche e pragmatiche oltre che pratiche ed estetiche, oggi la poesia ha la necessità di riappropriarsi proprio di quella complessità che fa parte dell’esistenza e che trasla nel logos che la sorregge, o viceversa,e che necessita pertanto di un lavoro sul linguaggio che soltanto uno studio adeguato e una cultura altrettanto adeguata possono dare. Se da un lato il dettato poetico deve essere necessariamente leggero, per non avere la pesantezza formale e concettuale, che introduca a mondi arcadici e di manierismi superati e inconcepibili nel nostro tempo, non può perdere la complessità legata anche alla frammentazione del linguaggio dovuta alle sedimentazioni di settore e non può cadere in ciò che si dà per scontato. Oggi le scienze sono frastagliate e frammentate e gli specialismi anche linguistici non consentono neppure una comunicazione adeguata. Necessario pertanto il tentativo di rimettere insieme le fila del linguaggio per far sì che tutti possano comprendere, se non capire, tutti e tutto, per cercare di approdare a quegli orizzonti di saggezza che oggi paiono perduti. Ebbene, uno dei compiti della poesia dovrebbe essere proprio quello di assumere questa complessità di linguaggio, ma anche di senso dell’esistenza e farne uno dei capisaldi del canone per la poesia contemporanea. Tra i meriti della poesia di Pellegatta mi sembra proprio che ci sia quello di aver assunto la complessità al suo modo di poetare. Il nostro poeta è anche filosofo e critico d’arte e la sua cultura fa sì che il linguaggio poetico da lui adottato si nutra di filosofia (autori di riferimento sembrerebbero essere Hume, l'empirismo in genere, ma anche Nietzsche, e quindi Merleau Ponty e altri, e pertanto la fenomenologia, in particolare per quanto attiene alla percezione, e poi lo strutturalismo, Foucault, Bataille, etc., e soprattutto i pensatori esistenzialisti, penso all’ultimo Pareyson), ma il linguaggio poetico di Pellegatta si nutre anche di scienza, di astrofisica, di medicina, in quella commistione di ritorno unificatrice della lingua a cui dobbiamo necessariamente tendere per spezzare il frammento e la dispersione in gerghi di settore e incentivare la possibilità di comprendere a scanso del capire, pur tuttavia capendo, perchè non ci siano steccati tra culture. La sinestesia del soggetto con gli oggetti circostanti, soprattutto con l'ambiente architettonico urbano e con il mondo dell'arte sono un'altra componente importante del suo dettato poetico. La poesia non può essere letta come un romanzo, ma deve essere letta e riletta per cercare i piani di intersezione legati ad un lavoro di cesello ermeneutico che ad ogni nuova lettura aprano a mondi di senso diversi e diversificati, lasciando intravedere ogni volta uno stupore sempre nuovo. La complessità e la non facilità di primo acchito, che richiede ulteriori ritorni di lettura, lo ritroviamo ne L’ombra della salute. Molto bello l’incipit della raccolta, che gioca con la Salute, la chiesa che contiene i dipinti del Turner, «che si squaglia./ Conosce i vantaggi della morte» e la salute «questo mistero sconcio, meraviglioso/ e, finalmente, senza futuro». Un vero e proprio introibo all’altare dell’esistenza. Ebbene sì, perché alla fine tutta la vita, l’esistenza umana, si gioca in una salute che, per quanto meravigliosa, si risolve e si dissolve nella morte, nella fine che appunto fa ombra alla stessa salute. Il tutto in una dimensione cosmica e cosmologica, nella quale abita l’infinito che risucchia il tempo e lo spazio. Le storie si conglobano annullandosi nelle geometrie dell’universo. Tutto si squaglia (è questo un termine che ricorre sovente, quasi a essere il filo rosso del libro), tutto si liquefa, la dissolvenza sembra essere il leit motiv della vita così come dell’arte, basti vedere gli oli del Turner. Basta osservare Antonio che «cammina piano per guardare le muffe. Ti abita/ ma ha più acqua che anima dentro» per cogliere la liquidità dell’uomo. E vedendo una macelleria siamo davanti alla metafora del disfacimento della nostra carne. Perfino il lampo, che pure è fuoco, è liquefatto. E comunque l’evangelico “Cenere sei e cenere tornerai” è lì a fare da memento: «Sbriciolano, corrompono, depongono./ Alla farina, ognuno alla sua sabbia,/ al mulinello più banale/ ritorna ogni animale. » E in questo heideggeriano “essere per la morte” dell’uomo, il poeta va a concludere il poemetto iniziale su La salute con versi molto toccanti ed efficaci, in un adagio che possiamo definire montaliano a tutti gli effetti, quando dice «… Quindi io/ come prodotto finito, alla ricerca della formula/ amorosa perfetta, del meccanismo terminale». La salute si conclude infine con versi sapienziali nei quali si può scorgere sia una Weltanschauung sia una poetica: «Chi separa e scarta secondo un progetto/ crea esuberi incessanti./ Scriviamo senza calore/non ciò che avreste voluto/ ma quello che non avete/ pensato. Non per riscatto/ ma per vendetta./ Non è mai/ciò che abbiamo scritto.» Nella poesia di Pellegatta sembra di cogliere pertanto un humus esistenzialistico, che coglie molto bene la realtà odierna nella quale l’uomo vive una desoggettivazione in una dimensione oggettistica, nella quale, come dice Guido Oldani, è fatto oggetto egli stesso. In questa temperie non vi è posto per il soggettivismo, lo spiritualismo, il mentalismo, lo psicologismo, ma non vi è più possibilità di essere per lo stesso individuo umano e a maggior ragione per la persona. Ma non c’è spazio allora neanche per la morale, non c’è più etica. E nel mondo odierno caratterizzato dal post-human, sembrerebbe non esserci più neanche l’estetica, ovvero sembrerebbe che il giudizio estetico non abbia alcun significato e utilità, come ritiene Wittgenstein. Non ci resta allora che il semplice e puro sentire, che, come sottolinea Mario Perniola, è “un particolare tipo di esperienza che fa saltare le nozioni tradizionali di identità e alterità: essa consiste nel vedere un’entità che resta immutata ora come una cosa, ora come un’altra /…/ In realtà sono molte le cose che ci danno questa impressione di ambiguità: innanzitutto le opere d’arte…”. Ecco allora quella dimensione impersonale dell’esperienza che destruttura l’ipostatizzazione della soggettività, che mi sembra di ritrovare nei versi di Pellegatta, nei quali mi sembra di cogliere la negazione di un sentire cartesiano, legato alla metafisica razionalista, ma che ha molto a che fare una metafisica dinamica, che accomuna Wittgenstein e Tommaso d’Aquino.

Anche negli altri due poemetti, che fanno parte della raccolta, Secondo appuntamento e Discordanze, vige lo stesso tenore poetico e tra fisicità e metafisicità, nel gioco tra ontico e ontologico, si dipanano le intonazioni di una poesia consapevole del fatto che nella vita tutto si «squaglia», termine che percorre ancora gli spazi del discorso, che rappresentano molto bene la baumaniana liquidità del mondo attuale. Ma se la poesia di Pellegatta ha consapevolezza culturale e scientifica del mondo, non è da meno per quella che è la sua contezza formale stilistica e anche letteraria. Il suo dettato è complesso, ma nello stesso tempo non perde in leggerezza, e si muove vivacemente con padronanza della lingua poetica, che è fredda quel tanto che basta, come pure è capace di accendersi e riscaldarsi, senza cadere nella facile retorica o in una lecita prescrittività.

Per quanto riguarda la collocazione letteraria di scuola, mi sentirei di collocare Alberto Pellegatta nella tradizione tra le più nobili della poesia del Novecento, ovvero sulla linea lombarda, dove si scorge l’influsso di un Sereni, di un Raboni, di un Cucchi, etc. Ma trovo che nella sua elaborazione del linguaggio poetico ci siano anche forti influssi montaliani e vista la sua frequentazione col mondo di lingua spagnola mi sembra di cogliere sfumature della letteratura spagnola e ispano-americana e in particolare l’influsso della poesia borgesiana.

 



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