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Gobba a levante

Poesia

Nicola Romano (Biografia)
Pungitopo Editrice

Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 11/05/2012 12:00:00

Il titolo di questa silloge di Nicola Romano, che riporta la prefazione di Paolo Ruffilli, allude alla gobba lunare rivolta ad oriente, quando il bianco astro sia avvia alla sua oscurità temporanea che la sottrarrà alla vista degli uomini. Ovviamente, ci troviamo davanti ad una metafora, il cui senso riporta alla fase declinante della vita. Oltre ad una sequenza di versi molto significativi, dalla loro lettura si evidenzia il timbro complessivo, ovvero la nota di testa, come si dice nell’arte difficile e raffinata della distillazione dei profumi; quella stessa nota che Romano fa uscire attraverso la propria voce e con l’atteggiamento stesso del corpo, altro linguaggio sul linguaggio. La Dickinson trascorse gli ultimi anni della sua vita relegata in una stanza, ma in fondo, quello che sentono i due poeti è lo stesso: è il mondo ad essere una prigione ad essere stretto tra “i ceppi alle inferriate” ed è proprio la stanza di Emily, così come per Nicola “l’angolo di stanza/ dove matura anima e pensiero“. Questa è, per restare nel gergo dei profumieri, la nota di cuore: l’esaltazione della libertà interiore assicurata dall’esercizio della poesia, che rappresenta anche, come ogni altra espressione artistica, un viaggio all’interno di sé, un audace cammino di conoscenza. Il tempo, quello del mondo esterno è “ingrato e vuoto”; e noi lettori siamo chiamati a domandarci perché il poeta lo recepisca in questo modo; la lettura dei testi confermano, in verità, una scontentezza di tipo comunicativo, un tedio infinito delle parole quotidiane perdute. È ancora una volta il senso di soffocamento a prevalere, rappresentato, sì, dalle cose, ma che sta fuori delle cose stesse, perché è uno stato d’animo ricorrente, alimentato, fra l’altro, dagli eventi mondiali, dalle catastrofi, dal degrado morale, dallo stesso ambiente urbano disgregato, caotico, senza consapevolezza storica.

Ecco, allora, farsi strada, l’ultima delle tre note; quella di fondo, la più persistente, che sale poco a poco fino a rivelare l’origine del travaglio; e questa è la nota di morte. Il libro ne trabocca (già dal titolo) e in alcuni testi essa preferisce manifestarsi attraverso una serie di correlativi oggettivi o attraverso un certo colore lessicale, ma c’è un testo in cui raggiunge un picco desolato e un’angoscia senza rimedio, ed è quello che s’intitola lapidariamente “Ai Rotoli”, che è uno dei cimiteri più noti ed affollati di Palermo. Viene immediatamente alla memoria la famosa antologia di “Spoon River” di Edgar Lee Masters, poiché anche in questo caso si passano in rassegna, attraverso le iscrizioni sulle lapidi, le biografie di molti deceduti. Ma si tratta di una somiglianza apparente e superficiale, perché, a parte la brevità degli accenni biografici, questi ultimi non son raccontati dal morto, come accade nel testo dell’autore americano, ma tratti fuori dalla retorica della commemorazione dei vivi che si affidano per lo più a frasi fatte, spesso bugiarde che danno una dimensione di spessore minore a queste vite già andate e in qualche modo banalmente comunicate ai visitatori. Per tutte queste cose Nicola Romano scrive, lui che vede le proprie iniziali dentro l’INRI della croce cui sta appeso il Cristo: per trovare il suo vero luogo, il suo vero tempo, la vera armonia del canto, poiché la sua poesia ha la grazia del canto. Egli cura con pazienza la musica dei versi, li rende armoniosi attraverso una fatica così amorevole che non ci si accorge nemmeno che abbiamo di fronte testi spesso confezionati secondo il ritmo degli endecasillabi, a testimonianza di una misura conquistata e di una volontà di rimanere dentro la più feconda novità che sa essere sempre la tradizione. 



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