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Cambiare di Stato morire di natura

Poesia

Narda Fattori (Biografia)
CFR Edizioni

Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 24/07/2015 12:00:00

 

Un’onda musicale ininterrotta si alza dal tessuto dei versi dell’ultima silloge di Narda Fattori, in cui fittamente si susseguono le figure retoriche del suono. Essa si versa nell’orecchio del lettore come quelle nenie di antica memoria che, consegnando i morti alla dimensione del nulla, testimoniavano che la cucitura fra i due mondi poteva farsi solo attraverso la magia dei ritmi. La stessa cucitura opera la Fattori quando abbraccia dentro i suoi versi traboccanti di euritmie tutti i suoi morti come tutti i vivi che sta per lasciare, polverizzando di fatto la distanza tra gli uni e gli altri.

L’originalità della silloge consiste, infatti, nella scelta di un punto di vista, che, in quanto posto sulla soglia fra la vita e la morte, permette all’autrice di distanziare lo sguardo e cogliere con maggiore ampiezza ed obiettività non solo il mondo degli altri esseri viventi, ma anche il senso della propria esistenza nella sua totalità; ed allo stesso tempo di sfiorare e quasi sentire il fiato di quelli che sono già andati e le sia affollano intorno e dentro, come immagini, memoria, e sentimento amoroso.

Si avverte, allora, come un alternarsi fra un movimento d’immersione nelle cose del mondo con il loro concreto pulsare e un altro di emersione in un’aria rarefatta e di svanimento lieve come quello che fanno le farfalle, i fiori e tutte le altre creature dal destino breve. Su quella soglia, la poeta vede la morte nell’adesso come presagio ed immaginazione, ma anche come intermittenza luttuosa nel ciclo delle stagioni; così come intuisce un'altra espressione di vita nell’altrove che preme sulla macchina del cuore che va “a dieci pasticche al giorno”.

L’indagine che, come si diceva, la Fattori compie all’interno del suo percorso biografico, collocato come in un territorio neutro, le consente sia quel contenuto struggimento che scongiura il sentimentalismo, sia la formulazione di un giudizio del proprio operato vibrante ma obiettivo: ne consegue, da una parte, una sorta di pentimento, specie dei peccati d’omissione (“gli esclamativi caduti”), a cui segue la richiesta di un perdono che non viene rivolto ad un’entità assoluta, ma ai suoi vivi ed ai suoi morti; e dall’altra parte l’analisi delle varie tappe esistenziali: l’infanzia e le buone domeniche d’un tempo, l’impegno ideologico abbracciato nella giovinezza, i molti dolori familiari, la vocazione alla maternità, la malattia, ma soprattutto l’incontro con la scrittura poetica, che è “la salvezza di lemmi ri-creati/ porte spalancate non più inferriate/ incontri di res totius/ su fragile argilla – mia voce/ mia vita – mia terra”.

Ma c’è un altro elemento e non di minore importanza in questa silloge poematica di Narda Fattori, ed è la presenza palpitante della natura: colori, fragranze, movimenti, forme, e voci (ricreate attraverso onomatopee e soprattutto abbondanti allitterazioni di straordinaria suggestione – “fra l’erbe che vibravano d’elitre”, una fra tutte ) si susseguono senza sosta, tessendo il canto della bellezza, seppure sempre insidiata dal “tic tac del tempo”, così che la bellezza rimanda alla finitudine e quest’ultima fa maggiormente risplendere la bellezza. Mi viene da pensare al luminosissimo incipit del poema lucreziano che esalta la primavera, hominum divumque voluptas, quando la terra ‘si copre dei fiori più soavi’ e ‘il cielo placato risplende tutto inondato di luce’, per richiamare gli uomini alla vita del qui e dell’adesso e per fugare le ombre della loro paura superstiziosa di fronte alla morte.

Nemmeno Narda ha paura: solo un cambiamento di stato, un morire di natura, sarà, infatti, il suo, un trascolorare, uno svanire, ma lievemente, “a ciglio asciutto”. I suoi versi sono colmi di figure di levità, come la polvere, la foglia, la neve, la piuma, la farfalla, ma niente come questi versi: “con un mazzo di papaveri che si disfa/ due istanti appena dalla presa però/ l’incanto…” raffigurano la fuggevolezza, l’inconsistenza, e il miracolo di quel niente che è la vita. Sono immagini che quasi precipitano l’essere in una dimensione onirica e fiabesca, come accade nelle metamorfosi ovidiane. Dopo sarà un cambiamento di stato: Narda si guarda, si immagina e in questo dopo si vede polvere, “terra per nespole e ciliegie/ terra per gramigna e per ginestre”, ma soprattutto suono di parole attraverso cui ha raccontato tutte le storie e, fra queste, la sua.

 


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