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Il giogo della rima e ’l’homme très-faible’

Argomento: Letteratura

di Paolo Ottaviani
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Pubblicato il 19/10/2012 17:12:20

Paolo Ottaviani

 

TRECCE SPARSE

 

ASSOCIAZIONE CULTURALE

LA LUNA

 

 

Il GIOGO DELLA RIMA E L’«HOMME TRÈS-FAIBLE»

 



«Malgré toutes ces réflexions et toutes ces plaintes, nous ne pourrons

jamais secouer le joug de la rime; elle est essentielle à la poësie française.

Notre language ne comporte que peu d’inversions: nos vers ne souffrent

point d’enjambement, du moins cette liberté est très rare: nos syllables

ne peuvent produire une harmonie sensible par leur mesures longues ou

brèves: nos césures et un certain nombre de pieds ne suffiraient pas pour

distinguer la prose d’avec la versification; la rime est donc nécessaire

aux vers français. De plus, tant de grands maîtres qui ont fait des vers

rimés, tels que les Corneilles, les Racines, les Despréaux, ont tellement

accoutumé nos oreilles à cette harmonie, que nous n’en pourrions pas

supporter d’autres; et je le répète encore, quiconque voudrait se délivrer

d’un fardeau qu’a porté le grande Corneille, serait regardé avec raison,

non pas comme un génie hardi qui s’ouvre une route nouvelle, mais

comme un homme très-faible qui ne peut marcher dans l’ancienne

carrière».

 

Questo passo di François-Marie Arouet (1694-1778), tratto dal suo

Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke è risuonato con insistenza e

a lungo nella mia mente. Qualche capoverso prima Voltaire aveva parlato

dell’esclavage de la rime nella poesia francese rispetto all’heureuse liberté

del verso inglese quasi rammaricandosi che un poeta d’oltremanica

potesse dire tout ce qu’il veut mentre un francese ne dit que ce qu’il peut.

Eppure, nonostante questa libertà limita, chi dovesse abbandonare

la strada maestra dei versi rimati non verrebbe considerato come un

audace genio precursore che apre inimmaginati orizzonti ma piuttosto,

avec raison, come un pavido omuncolo talmente sciocco e debole che,

dopo aver perso lungo il cammino il carico più prezioso della propria

eredità, non riuscirebbe più nemmeno a camminare.

 

Le stesse limpidissime ragioni stilistiche e metriche che Voltaire

adduce per la rima nella poesia francese credo che, perfino con qualche

argomento in più, possano valere per la poesia italiana e, più in

generale, per la poesia delle lingue romanze. Ma la mia mente rimaneva

inchiodata su quel avec raison e qualcosa mi diceva che le ragioni più

vere e profonde del connubio rima-poesia non erano state ancora né

esplorate né esplicitate interamente. Doveva esserci un’ulteriore raison,

più intima al discorso poetico, decisiva, essenziale e che tuttavia mi

rimaneva ostinatamente nascosta.

 

Non potevo certo sospettare che l’aiuto più significativo a risolvere

il mio problema giungesse da un genio famosissimo per ogni virtù

poetica tranne che per la rima, pur avendo egli scritto delle satiriche,

tragicomiche sestine - I Paralipomeni della Batracomiomachia - che a

torto, molto a torto, sono state, rispetto al resto della sua opera, poco

studiate e amate: Giacomo Leopardi. Sfogliando lo Zibaldone infatti

mi sono imbattuto in alcune assai proficue riflessioni «circa l’infinita

varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia

delle parole… Osserverò solo - dice Leopardi - alcune cose relative

all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo

versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non

si accorge di verun’armonia, né li distingue dalla prosa; se pure non

si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella

conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima». E più oltre:

«Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal

parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che

il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di

quello, e due di questa, talvolta tutto solo della rima. Ma ben pochi son

quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non

paiano stentati, anzi nati dalla cosa».

 

Ecco finalmente risolto in modo assai evidente, persino matematico,

il mio ostinato quesito! La necessità della rima è una necessità della

poesia molto più che del poeta. Incatenarsi a questa schiavitù non

solo può produrre un sia pur «menomo diletto» a chi legge o ascolta,

ma soprattutto offre la possibilità al verso di sprigionare insospettate

energie, inimmaginati rimbalzi di significato, ignoti allo stesso poeta,

talvolta totalmente, qualche altra per metà, talaltra per due terzi, più

raramente per un terzo. Ma quasi mai il concetto - come dice Leopardi

- appartiene totalmente al poeta. È una stima assai credibile perché

costruita non su una congettura ma sull’«esperienza di chi compone».

 

E questo significa che in quella raison di cui parlava Voltaire erano

racchiusi tesori forse neppure intuiti dal pensatore francese. Scrivere

piegati sotto il giogo della rima da una parte obbliga il poeta a liberare il

massimo della propria creatività, dall’altra lo rende impotente, in balia

del verso, dei suoni e dei significati che la poesia esige e il verso stesso,

più che il poeta, detta. Avere l’umiltà di abbandonarsi consapevolmente

a questo potere permetterà poi di godere di frutti di cui si ignorava

totalmente il fiore e il seme. È il verso cadenzato, regolamentato e

rimato quindi il maggior responsabile della creazione poetica. Voltaire,

paradossalmente e un po’ inconsapevolmente, aveva colto nel segno:

il poeta dice soltanto quel poco che può. Il miracolo della poesia non

gli appartiene. Se davvero le cose stanno così - e dopo aver ascoltato

Voltaire e Leopardi diventa più difficile dubitarne -, allora non resta

che scegliersi o, tutt’al più, inventarsi una regola nuova e poi, costruito

il giogo, chinare il capo sotto il suo peso e camminare lungo i solchi

che faticosamente ci si apriranno davanti. Con questa consapevolezza

mi sono apprestato ad allestire il fitto reticolato metrico e rimico delle

«trecce»: in questo quaderno ne vengono presentate 15 inedite.

 

Ogni «treccia» si snoda in sei strofe di cui quattro di versi martelliani

(o doppi settenari) e due di versi senari. In sequenza si dispongono,

ripetendo lo schema, due quartine di martelliani e una di senari. I versi

vengono ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una

immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della

pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia.

Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema abab,

fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi

nelle ampie quartine dei doppi settenari. In questa libera accezione

entrambi gli emistichi dei versi martelliani possono essere piani, tronchi

o sdruccioli. E le relative strofe presentano, secondo un disegno costante,

rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti

costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1

rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del

verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta

infine la “rimalmezzo”.

Le joug de la rime, così rifinito e lucidato, può ora operare con tutto il

peso della sua musicale, poetica potenza e il poeta, se c’è un poeta, potrà

soltanto sostenerlo camminando chino lungo i solchi, un po’ come

l’homme très-faible di Voltaire.

 

Febbraio 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Treccia della parola nella Poesia

 

 

 

Più bella incatenata da libertà eloquente

sta incisa la parola nel ritmo della mente:

non può vagare alata né far la capriola

ma sarà lei a guidarti con sempre nuove arti

 

per tortuose vie tra dubbi, salti, errori

finché giunge un mattino dischiuso sui bagliori

di sogni e fantasie notturne: cristallino

tra ardue rime ora il verso splende come un disperso

 

bucaneve viola

nel vergine bianco

di umile parola

che era già al tuo fianco.

 

Quanti assennati Orlandi vanno in cerca d’Angelica

tra boschi e praterie! Dalla bolla babelica

 che i padri venerandi, tra nausee e allegrie,

ignora, il verso brado s’alza sul più alto grado!

 

Ma io amo quella voce che ingenua uno spartito

tenacemente insegue col brivido infinito

di mai veder la foce. Qui non ci sono tregue:

la parola t’assilla. Poi, incastonata, brilla

 

di un più impetuoso

fuoco e, con sorpresa,

rende il generoso

dono dell’impresa!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Treccia per Glenn Gould adolescente

 

 

 

L’odore dell’abete rosso, quel muso buono

di Nickolson, le zampe del setter già dentro il suono

come corna d’ariete che il gregge sulle rampe

spinge nei carri e i pesci rossi quando al lago esci:

 

Bach, Beethoven, Haydn guizzano nell’acqua trasparente,

a casa il pappagallo Mozart guarda paziente:

sulla tastiera schizzano le dita e il tuo cavallo

sogni nella riserva con Oliver, una cerva

 

puritana amica,

i cani randagi

presi tra l’ortica,

curati negli agi

 

caldi di Manitouli. Revive us again canti,

ultimo sognatore d’austeri disincanti!

Diatonici cuculi suonano il tempo e le ore

si perdono tra un nero tasto e un bianco levriero.

 

Il tempo degli accordi lavora nel profondo:

ogni nota una stella nel tuo cuore errabondo

e raccolto, ricordi? “Cesellata è più bella!”.

Profumi di tastiera. Toronto in primavera

 

s’apre alla foresta,

si specchia nel lago:

la tua anima è in festa

e insegue il suo drago!

 

 



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