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Il senso del cibo nella poesia di Serena Maffia

Argomento: Letteratura

di Grazia Furferi
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Pubblicato il 27/01/2014 16:34:40

 

IL SENSO DEL CIBO DI SERENA MAFFIA IN

“ SRADICHEREI L’ALBERO INTERO”

 

Bernard Shaw diceva che l’amore più sincero è quello per il cibo, forse perché si ama il cibo già conosciuto, sperimentato e selezionato che non lascia spazio ad inganni e tradimenti in quanto già organicamente definito.

Quando il cibo si fa poesia il rapporto cambia, non è più oggetto di affezione alimentare ma metafora per sentimenti: è cibo sublimato che nutre evocando memorie.

Le citazioni attinenti agli alimenti sono presenti nella poetica di tutti i tempi.

Con la loro natura, odore e sapore, essi assumono, in ogni autore, valenze culturali e personali diverse che vanno dai ricordi di rituali familiari a metafore di situazioni emozionali tratte dal tempo e dallo spazio del loro vissuto, come ben ci comunica Moretti nella poesia Angolo d’hortulus tratta da Poesie scritte col lapis:[

E’ dolce ricordare! Ogni fil d’erba

dell’orto mio potrebbe ricordare,

ché  molto sa […]

O ancora Saba in la Cucina o Gozzano che nella Signorina Felicita riporta gli odori che danno vita  alla cucina o ancora a tutta l’ambientazione scoppiettante di oggetti e visi familiari in La Canzone del girarrosto di Pascoli; per finire agli ortaggi e ai frutti di Neruda in Ode al vino, e altri odi elementari dove l’osservazione estasiata di alimenti semplici, comuni al nutrimento quotidiano, diventa verso poetico che racconta l’avvenuta pacificazione, “l’accordo”, come lo stesso Neruda definisce la naturale interdipendenza tra uomo e natura.

Gli esempi in merito al rapporto poeta- cibo, sono tanti e autorevoli.

Quello che vogliamo fare qui è osservarecome, attraverso questo suo ultimo lavoro Sradicherei l’albero intero, una poetessa giovane, anzi giovanissima per età ma già matura per mestiere poetico, come Serena, usi gli alimenti  per farne  metafora nella sua poesia.

Considerare il senso del cibo nella poesia vuol dire entrare in un labirinto, del quale si sa che esiste una via d’uscita ma che, inevitabilmente, i percorsi ti deviano, ti portano a cercare, frugare e menzionare in un infinito incastro di nomi e parole, o meglio versi, da farti perdere, come si dice popolarmente, la via del ritorno.

Si corre il rischio di rovesciare, su chi ascolta o legge, menzioni enciclopediche di poeti e del loro senso del cibo. Argomento usato ed abusato già, perfino dai poeti classici per descrivere, educare o deridere un comportamento alimentare; individuando, nel rapporto degli uomini con il cibo, l’interrelazione tra nutrimento e stile di vita: sia esso parsimonioso o generoso, popolare o elegante, gaudente o saggio. Così Orazio nelle Satire  si sente in dovere di suggerire le pietanze sane e gustose, che egli riteneva più idonee, da servire a tavola come: “porri et ciceri… laganique catinum…” ma anche di deridere alcune abitudini alimentari dettate dalla moda, come quella di mangiare rombi e cicogne che vivevano, secondo Orazio, sicuri e tranquilli fino a quando un ex pretore non lanciò la moda di cucinarli.

Leggendo le poesie che Serena ha composto e raccolto in Sradicherei l’albero intero, ho potuto notare, dal mio punto di vista, che Serena usa gli alimenti come un gomitolo il cui filo svolge il percorso evolutivo della sua crescita emotiva, sentimentale e psicologica.

Serena comincia il percorso del suo poemetto  partendo dall’albero primigenio della conoscenza, posto nel luogo biblico della felicità eterna: il giardino dell’Eden dove risiedono l’uomo Adamo e la donna Eva prima coppia progenitrice.

Da quest’albero viene raccolto il frutto - identificato in età medioevale nella mela - che la donna trasgressiva porge e consuma con il compagno, e che Serena sradicherebbe e inghiottirebbe tutto intero, albero e mela, per saziare la sua fame di ribellione e comprensione.

Come tutti i ribelli posti al di fuori dell’ordine precostituito, la cacciata della coppia adamitica dal Paradiso - simbolo dell’ordine cosmico – è metafora riferita all’iniziazione dell’uomo alla vita, da vivere al di fuori del contesto mitologico; trasferita in una realtà terrena dove egli dovrà imparare a procurarsi, contrastando una natura ostile, il cibo per nutrire il corpo ma anche l’anima.

Serena è consapevole delle difficoltà da affrontare per nutrire la sua anima.

Così esplora il percorso per riuscire almeno a provarci in questo intento, e lo fa partendo dal caos iniziale dove l’uomo è parte delle radici “dell’albero che sa” e del frutto che non sazia; per poi “spalmare di minestra di fave” le spalle dell’amato in Sulla strada perpetua, in una intuizione poetica che esprime una prima timida introspezione dei propri sentimenti, in un percorso binario con il cibo.

In Radunati in seconda, l’uovo primordiale è aperto e conosciuto: è tuorlo - sole che si può usare e manipolare friggendolo in un tegamino e soprattutto consumare con il pane; alimento risultato dalla prima sperimentazione umana sul prodotto cibo e segno di nuova civiltà alimentare che associato all’uovo - alimento primigenio e generante per sua natura -  parafrasa in Serena una prima sistemazione di quei tumulti interiori che agitano e disorientano i suoi primi affetti.

Il pane, alimento arcaico e sempre nuovo,  nella poesia di Serena è spezzettato, mai intero, e non può esserlo in quanto non ha alimentato ancora in modo totale e soddisfacente la sua  maturazione di donna in crescita.

È “molliche di Vita” in “Che male c’è se dopotutto mi viene da ridere” e “briciole di  Pollicino” in  La mia forza, che ancora la tengono ancorata al nutrimento materno impastato di favole e raccomandazioni: dalle quali sa di dover scappare ma non sa ancora come.

È pane bagnato di latte nella colazione del mattino che torna con ripetizione, nella sua poesia, come momento d’inizio e di riavvio di quel quotidiano che ancora  necessita del profumo di casa e delle fondamenta familiari.

È una fetta di pane tostata e impaziente, bagnata di latte particolarmente buono, quella che partecipa alla magia dell’attesa per la nascita di Alice, la nipotina, in  “Ho il cuore popolato di balene”. 

Il latte, alimento spontaneo di origine animale, nella poesia di Serena esplica riferimenti nutrizionali primarie: è il latte materno, nutrimento rassicurante che associato ad un altrettanto spontaneo alimento di origine animale, il miele, è da sempre metafora delle dolcezze della vita, donate e non elaborate, alle quali ricorrere e pensare.

La poesia di Serena è inondata di latte, vi cade dentro in quello più bianco in Una città che dorme, diventa una goccia che “…cola dal mento…” ed “…ha paura d’infrangersi in volo…” in  Fischiano i nespoli, veste di miele e latte i sogni delle ninfe dei boschi in L’uomo invisibile, e  “Miele e latte sul mio volto” è il titolo che dà alla poesia nella quale esprime l’emozione che scioglie in “…lacrime di latte e miele…” un momento d’amore.

Liquido pesante, il latte, non trasparente, quando si versa copre; alimento primario all’alba della vita umana ha condizione precaria, facilmente deperibile ma portatore, nella sua natura, di enzimi lievitanti, capaci di trasformarlo in altri alimenti: i formaggi, più durevoli ed altrettanto nutrienti e necessari.

In questo suo comportamento è possibile associarlo alla precarietà dell’infanzia che copre brevi anni durante i quali, però, si predispongono i “fermenti” necessari alla crescita e  trasformazione dell’uomo da bambino in adulto.

Serena è cosciente di questa natura del latte e nella poesia “Il  latte” lo rappresenta sì come la colazione sicura da ritrovare ad ogni risveglio mattutino ma, quando si spande “tiepido e grasso” sul foglio, diventa sostanza capace di irrobustirlo e prepararlo ad assorbire i versi della sua poesia, che dettano sentimenti nutriti dalle  sue emozioni in divenire di giovane donna.

Sentimenti da addolcire con quel miele, tanto cantato da tutti i poeti, quando, a  volte, si presentano aspri e doloranti.

Garcia Lorca definisce la poesia il miele dell’uomo in Canto del miele: “…Così il miele dell’uomo è la poesia che emana dal suo petto addolorato, da un favo con la cera del ricordo creato dall'ape nell'intimità.”

Il miele ed il latte si mescolano nell’iconografia alimentare poetica e mitologica e diventano il “lattemiele” alimento eletto, il più dolce per definizione, l’unico in grado di rivestire l’amore di dolcezza e l’unico che può metaforicamente nutrire l’anima del poeta; pertanto non potevano non essere presenti nella poesia di Serena, a sostenere,  nella sua introspezione, la speranza di assaporare sogni di latte e miele.

Pur non disdegnando di godere, in L’uomo invisibile, …carezze di zucchero caldo…”, appartenenti ad un mondo di bambina nel quale, ancora oggi, non riesce ad individuare un suo luogo d’appartenenza.

Lo zucchero, polvere dolcificante risultata da un laborioso processo di lavorazione di elementi primari quali la barbabietola o la canna da zucchero, viene introdotto nella poesia di Serena quasi sempre in uno stato elaborato, mai nella sua condizione primaria comunemente usata: è “caldo” e “ bruciato” quando riflette sentimenti,

risolti, a volte, in “fantasma di zucchero” quando lo riferisce a momenti dolci perduti. Nella poesia Zucchero bruciato, infatti,  c’è nell’aria “… odore di zucchero bruciato / e la raffineria è ormai ferma…” a circondare l’attesa di una donna dell’amato per il quale “… il fantasma di zucchero disegna una mappa del cuore, / ma non lo condurrà da lei.”.

Lo zucchero poi, nella sua fattispecie di confetti, caramelle, canditi e pupazzetti, appartiene ai dolci per bambini.

E nella poesia di Serena, lo zucchero, ha anche questa valenza quella di evocare dolcezze e magie di bambina alle quali tornare con il cuore e con le quali rivestire, oggi, i sogni di adulta; tanto da poter “…spiare dalla zuccheriera..” la persona amata - solo se riuscisse a volare -  o costruire per la sua nipotina “…nel suo paese delle meraviglie /una statua di frutta candita…” dalla quale, da grande, Alice possa prenderne una mano e mangiarla, prendendo così conoscenza dei sentimenti e della dolcezza d’affetti che Serena ha serbato per lei.

I frutti nella poesia di Serena sono nocciolati, si sgranano, come per il pane non si presentano interi ma osservati nella loro unità di parte: sono nocciole “…come lancette di ghisa…” quelle che in Una città che dorme “…scandiscono il tempo nel vuoto...”, spazio mentale dove il caos esistenziale di Serena è “un pendolo” che dondola in cerca della via da indicare. Ed intanto si fa frutta lei stessa in “Non lasciatemi sola”, così: “ Il mio seno è un cesto di frutta/ e il mio sorriso il sole che la matura..” e non vuole essere ingannata da chi, con parole, cerca di farle intendere che “…le ciliegie non sono il sangue dell’albero che sa…”. Serena sa dell’albero-vita: è l’ulivo - terra originante di quella Calabria “… fiumara di melograni…” della quale si sente propaggine ed alla quale spesso torna con il “…treno dei sogni / che affolla di stanchi eremiti, di ulissi cantanti…” sicura di trovarvi sempre ad accoglierla “…una minestra d’alloro…”.

Il melograno, torna in Abbracciami mamma, con i suoi “grani”, ai quali è attenta la madre nel porgere il frutto, primizia, alla “ prima nipotina”, ignorando la muta richiesta di un abbraccio, poi reso, a confortare ed assicurare Serena che sempre il suo rientro in famiglia sarà un’affettuosa attesa.

Non può non passare inosservato, in questa composizione, il riferimento al ruolo mitologico della melagrana, nella sua accezione di frutto connesso con la fertilità.

Quella fertilità dalla quale Serena ha paura di essere esclusa ponendosi il dubbio di non poter mai diventare melagrana “ se pesca, resto sempre un fiore / e chi dice che farò noccioli?” E che trova invece compiuta nella sorella Lara con la nascita di Alice, la nipotina, nella quale insieme alla madre e alle sorelle, si riflette in una prospettiva generazionale tutta al femminile.

L’essere donna, è in Serena una condizione risultante e cumulativa dell’essenza femminile di tutte le donne della sua famiglia che ovvia le gerarchie di generazione, e si risolve in  La nonna e la gelsomina  con la compresenza della  nonna, della madre e di Serena “...la mattina nella cucina di mia madre…”.

Luogo – fucina, la cucina, fondamentalmente femminile e deputato alla produzione del cibo per il sostentamento familiare, che Serena riveste di alone magico nel risveglio mattutino di figlia che assapora: “Seduta al tavolo biscottato.../ che odore del pane imburrato./ Il basilico balla di fuori al balcone, ...” e “La gelsomina”  che

 “ non smette mai di parlare… / Racconta cos’ha visto questa notte dal balcone /e ne sa più di mia nonna..”. Una nonna “stranita” dall’età, ma che  insieme alla “gelsomina” “ A volte, la sera, se non fa freddo /  s’affacciano entrambe… /…spiano le strade, le stanze delle case adiacenti:<<studiano>> mi corregge la nonna <<la vita>>…”: quella vita, alla finestra della quale – come recita la sapienza popolare - Serena si sta appena affacciando, consapevole di dover, prima o poi, uscire in strada e camminare.

E decide: “È tardi, l’ora di profumare di latte è passata / bisogna che mi vesta / la giornata è cominciata.”. , una “giornata”, da affrontare con coraggio “Da brava leonessa mi affilerò le unghie sulla Poesia / e attenderò che il Caso conduca all’arciere…”, ma anche con la consapevolezza che possa avere “… il profumo del miele…” e dove ancora “… le api sorridono / nel piatto d’insalata di limoni….”.



 

 

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