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Etnomusica – alle radici del sole: Giappone

Argomento: Letteratura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 16/11/2018 12:09:53

ETNOMUSICA XII – Alle Radici del Sole: Giappone
‘Sarugaku-no-Nō’ / ‘La Cerimonia del Tè’ / ‘La Via del Samurai’.

“Sulla spiaggia del mare
sta una capanna solitaria
nella luce evanescente
d’una sera autunnale”.
(Sen no Rikyū)

Il Sole preso a simbolo della terra detta del ‘Sol Levante’ che svetta sulla bandiera del Giappone (1), non è, come si è portati a pensare, una licenza poetica; bensì occupa a ragione un posto di primo piano nella mitologia e nella relione giapponese, che hanno contribuito entrambe a formare il carattere del suo popolo. Secondo la leggendaria cosmologia nipponica, a dare origine al Giappone furono il dio Izanagi e la déa Izanami, entrambi posti all’inizio del tempo nel culto Shintō, basato sull’adorazione della natura e degli antenati, che attribuisce grande importanza alla purezza e alla purificazione.
Leggenda questa che si vuole legata alla rappresentazione scenica carica di pathos di un antichissimo rito, in cui è fatta menzione della déa Amateratsu, anch’essa nume della primigenia religione, alla quale si fa risalire l’origine dell’aristocratico Nō, di cui si è già parlato a lungo nella prima parte di questa ricerca. Qui riproposta in quanto espressione ‘catartica e sacra’ di un ‘fare teatro’ rievocativo di un primario culto religioso che, seppure con ben altri canoni espressivi, si ritrova nelle più popolari configurazioni del teatro Kabuki e del Bunraku. Nei quali, come si è visto, sono confluite modalità caratteristiche dell’intrattenimento popolare. In primis, l’apparizione degli dèi presente nelle forme arcaiche del folklore, e che evidenziano il rapporto dialettico stretto del corpo con la gestualità espressiva nella danza rituale.

“Secondo una teoria avanzata dagli storici, tutto ciò rientra nelle consuetudini tradizionali del Giappone, di riti agrari più arcaici legati alla coltivazione del riso confluiti nella festa danzata ‘dengaku’ che celebrava, sacralizzandolo, il lavoro nei campi coltivati con questo alimento primario, fondamentale nell’avvio allo sviluppo della futura cultura nazionale. In particolare, è testimoniato il fare ricorso ad alcune forme di credenze primitive in cui alcuni individui venivano ritenuti dalla comunità capaci di entrare in comunicazione con le forze misteriose ‘attive’ che risiedevano nell’universo e che permeavano le anime dei defunti e gli spiriti della natura”. (2)

È in questo contesto quindi che si originarono, attraverso il canto e la danza rituali le successive visioni esoteriche ‘taoiste’, da cui la spiritualità legata alle divinità ‘shintoiste’ e ad alcune pratiche ‘buddiste’ iniziatiche alle forme esperienziali della possessione estatica del Nō, in quanto proiezione scenica in grado di allontanare il male a beneficio del bene, riconducibile alla primitiva esorcizzazione degli spiriti ed a stabilizzare l’ordine cosmico della creazione.

Sappiamo inoltre che alla fine del XIII secolo, i sacerdoti della setta Jishu, come gli antichi sciamani con le loro danze e con i loro canti, assolvevano una funzione medianica evocando, in particolare, gli spiriti dei guerrieri caduti in battaglia, afferenti alle figure mitiche dei Samurai, ed alla più rigida disciplina dell’ ‘arte marziale della spada’, in cui essi, facendo rivivere gli spiriti del passato, evocati per esplorare le profondità dell’animo umano, vedevano la rappresentazione dei loro valori incarnata in una forma aristocratica altamente simbolica. Così come abbiamo appreso precedentemente dai drammi Nō riportati nei capitoli I e II, e giunti a noi soprattutto attraverso i veicoli letterari del romanzo e della poesia:

“Aki hiyori / “Cielo chiaro d’autunno
Senb a suzume no / tutti questi passeri
haoto kana” / frullare d’ali”
(Ryōkan)

È così che ritroviamo inglobate nella codificata forma teatrale del “Sarugaku-no-Nō” (3) alcune tradizioni teatrali anteriori, già all’origine delle prime rappresentazioni che si fanno risalire a origini mitico-religiose che, tramandate di padre in figlio fino a Zeami Motokiyo (1363- 1443), che le ha trasmesse nel cerimoniale rituale del Nō. Secondo la tradizione, il “Surugaku-no” nacque dalla danza mitica di Uzume, figura esemplare delle danzatrici sacre ‘miko’, nella quale le donne agitavano un ramo di ciliegio e che veniva eseguita in stato di trance allo scopo di far uscire la ‘déa del sole’ Amateratsu, dalla cavità della caverna dove si era rifugiata, propiziando in tal modo, la fertilità della vegetazione e il riequilibrio dell’ordine cosmico.

“Curt Sacks (4), il noto antropologo studioso di tradizioni popolari dei diversi popoli del mondo, ci ricorda ancora una volta che la visione antropologica aiuta nell’individuare gli intrecci tra la realtà mitica e quella storica, che stanno alle sorgenti delle forme teatrali; a comprendere come le valenze rituali trovino le loro radici, in epoca arcaica, nei fenomeni sciamanici di possessione estatica e, successivamente, nella sfera esoterica e metafisica del sacro e del religioso. […] Inoltre, a decodificare le convenzioni del linguaggio del corpo all’interno delle diverse forme teatrali e quindi, anche quelle specifiche del teatro-danza.”

Come nel ‘Nō’, anche nel ‘Kabuchi’, la modalità di apparizione degli dèi è evidenziata nel rapporto dialettico tra due ruoli dicotomici: il dio ‘kami’ e l’intermediario ‘modoki’. In questa opposizione è rappresentata la dicotomia tra principi opposti quali il ‘sacro’ e il ‘profano’, l’aristocrazia e il popolo, la vecchiaia e la giovinezza. Ma, al contrario, si celebra in esso la vitalità delle nuove classi sociali, fautrici di un’arte popolare rivolta al presente. I modelli di recitativo e dell’azione teatrale, rispettivamente chiamati ‘kata’, si diversificano negli stili detti ‘aragosto’ e ‘wagoto’. Mentre, all’interno della codificazione gestuale troviamo le posizioni ‘mie’ e ‘tate’, all’interno delle quali s’ergono le ‘tecniche di combattimento’ (più di mille), utilizzate nelle cosiddette ‘arti marziali’.

Va qui ricordata la figura dello ‘shite’ del teatro Nō che si muove sul palcoscenico strisciando senza staccare mai i piedi dal suolo ‘fonte di energia’, mentre danza con gesti ieratici e ipnotici nei quali si condensa l’essenza dell’azione, rivelando al tempo stesso il mistero che avvolge la sua anima, al suono del canto del ‘coro’ che, come una voce interiore, commenta le sue azioni. I suoi movimenti sono lenti, tragici e rarefatti e ogni gesto evoca potentemente la dimensione della trance in cui il suo stesso ventaglio, poi entrato nel costume giapponese, è il fulcro della sua danza, in quanto riserva infinita di simboli che arriva a rappresentare persino il pensiero dello ‘shite’ medesimo.

Ad ogni luogo, quindi, così come ad ogni personaggio e situazione, corrispondono specifici brani musicali prodotti per lo più dall’uso dello ‘shamisen’, da flauti di canna, da tamburi di diverse dimensioni e, talvolta, da bastoni di bambu percossi l’uno contro l’altro. Si conoscono almeno cinquecento brani circa, spesso eseguiti in scena da musicisti professionisti con strumenti antichi tradizionali. Cosa questa che ha permesso al noto regista cinematografico Serghej Eizenstein (5) di sintetizzare questa peculiarità: “udiamo il movimento e vediamo il suono”. Da cui si può ben comprendere l’enorme portata di questo patrimonio musicale estemporaneo del quale il popolo giapponese va altamente fiero.

“Ikutsure ka sagi / “Piccoli stormi d’aironi
no tobi yuku / solcano il cielo
aki no kure” / crepuscolo d’autunno”
(Ryōkan)

Anche il costume e il trucco risultano rigorosamente codificati: si conoscono circa duecento tipologie relative al costume, e altrettante per gli arredi di scena, in cui si realizzano l’unione delle arti della danza, della musica e dello stile recitativo. Tutte componenti spettacolari queste, in cui è molto evidente e si presuppone anche un lungo addestramento da parte dell’attore che si cimenta nelle diverse discipline, che gli consentono di interagire con il pubblico, coinvolgendolo con una interpretazione che, pur rispettando le componenti codificate della struttura teatrale, si fonde in una partitura personale che sa cogliere stimoli visivi e sonori.

È così che nel ‘Kabuki’ spesso l’erotismo e la crudeltà sono l’espressione simbolica di un cerimoniale ritualizzato che, pur essendo nato dalle danze della leggendaria Okuni, venne interdetto alle donne e i ruoli femminili interpretati da attori di sesso maschile, gli ‘onnagata’ che, acconciati e truccati alla maniera femminile, vennero presi a simbolo dell’essenza e della ‘bellezza’ sublimata. Codici questi divenuti poi simboli di una fase evolutiva della cultura giapponese che ritroviamo anche nella ‘cerimonia del Tè’ detta ‘cha no yu’, nel solo modo in cui una Gheisha (芸者 gheiscia) colta e raffinata riesce a colmare lo spazio attorno di pura bellezza estetica, al pari di un’opera d’arte originale.

La semplicità e la purezza de “La Cerimonia del Tè” (6), codificata in maniera definitiva nella forma ‘wabi-cha’ dal maestro del tè Sen no Rikyū (1522-1591), il monaco buddhista che a sua volta ne aveva emulato l’uso secondo i fondamenti posti dal cerimoniale rituale Zen, in quanto interpretazione giapponese del buddismo, in cui il tè veniva servito sul ‘takonoma’, il posto d’onore nella stanza giapponese dove, per il piacere degli ospiti che giungevano in visita, venivano disposti creazioni di fiori ‘ikebana’ e piccoli dipinti e xilografie ‘kuchi-e’, rientra tra le forme d’arte più esclusive dell’odierno Giappone.

Tutti i grandi maestri giapponesi del tè furono discepoli Zen e si sfozarono d’introdurne lo spirito nella vita quotidiana. Così la ‘stanza’, come gli altri elementi che la adornano e che sono funzionali nella ‘cerimonia del tè’ a ricreare un ambiente altamente estetico, per quanto minimalista, riflette i molti aspetti dottrinali afferenti al primo stadio della ‘meditazione’. Il pubblico conosce profondamente il valore e il significato di quest’arte sublime e segue affascinato ogni gesto, anche il più impercettibile, rapito dalla precisione e dalla bellezza dei codici gestuali, fin dal momento in cui la Gheisha avvia i propri passi attraverso il ‘rōji’: il ‘sentiero’ che nel giardino Zen conduce dal ‘machiai’ (corpo centrale della casa) alla stanza del tè, e che allude alla sua ‘mistica ispirazione’, concepita nell’infrangere ogni legame col mondo esterno, e muovere lo spirito interiore verso l’auto-illuminazione.

“Chi abbia percorso quello stesso ‘sentiero’, scrive Okakura, autore del “Il Libro del Tè” (7), non può cancellare il ricordo del suo spirito levato sopra le cure quotidiane, mentre, accanto a lanterne di granito che il muschio ricopre, comminava nel giardino, tra la luce crepuscolare dei sempreverdi, sulle regolari irregolarità delle pietre che tracciano il passaggio, tra le quali riposano, ormai secchi, aghi di pino. Si può essere al centro di una città e sentirsi a un tempo in una foresta, lontani dalla polvere e dal frastuono della civiltà. Grande era l’abilità che i maestri del tè hanno mostrato nel ricreare un’atmosfera di serenità e purezza.

La natura delle sensazioni da stimolare percorrendo il ‘rōji’ differiva da maestro a maestro. Alcuni, come Rilyü, miravano a una solitudine assoluta; il segreto di un ‘roji’, sostenevano altri, era contenuto nella canzone antica e cercavano effetti diversi, come diceva un altro ‘maestro del tè’ e straordinario architetto di giardini Kobori Enshū (1579-1647), che l’idea del ‘sentiero’ nel giardino, andava rintracciata nei versi che seguono”:

“Un gruppo d’alberi estivi
un poco di mare
una pallida luna serale”.
(Kobori Enshū)

Un tema questo della ‘solitudine’ interpreato in splendida serenità estatica, quasi che un ‘sentiero di luce’ illumini il cammino di colui che abbracciato lo Zen, (anche fosse solo in una stanza al buio), vede davanti a sé spalancarsi la cosmica natura della creazione. “È questo il tema di “L’allievo e le stelle” (8) in cui un giovane monaco si lamentava con un anziano maestro di non riuscire a giungere alla comprensione. Il maestro allora lo portò una notte nel giardino del monastero e gli chiese: “Le vedi le stelle?”. La storia pone l’attenzione sulla facilità con cui lo Zen pensa si possa giungere alla comprensione, se solo ci si affida al credere piuttosto che al sapere. Molte intuizioni giungono infatti alla mente che si libera dalle sovrastrutture della conoscenza comune, quando essa è intenta solo alla contemplazione delle bellezze del creato”.

“Nessun pensiero, nessuna riflessione
vuoto perfetto.
Eppure in esso qualcosa si muove
seguendo il proprio corso.
L’occhio la scorge
ma la mano non può cogliere
la luna nel rio …”
(Miyamoto Musashi)

Non è difficile leggere il significato intuitivo e complementare di questa immagine poetica, in quanto partecipe di una ‘strategia’ letteraria, in cui è ricreato l’atteggiamento di un’anima appena risvegliata che ancora indugia fra oscuri sogni del passato, mentre (ormai cosciente) s’immerge, nell’incoscienza dolce di una calda luce spirituale, e si meraviglia per la libertà intravista nello spazio più oltre, affatto ‘vuoto’, contenuto in alcuni ‘waka’ (epigrammi in versi) che esprimono lo stesso ‘concetto’ dal punto di vista Zen. La tecnica utilizzata è quella dell’Hejō (strategia), indicata nel “Libro di Ku” (il vuoto), afferente all’arte della spada, e che troviamo nel “Libro dei Cinque Anelli” (9) di Miyamoto Musashi.

Un ‘vuoto perfetto’ qui utilizzato per introdurre il concetto ‘neutro’ dello spazio cosmico in cui si rivela lo spirito Zen, secondo il quale il ‘vuoto’ è l’opposto di ‘nulla’: un grande ‘O’ per significare che tutto esiste già nell’uomo, ma che, per raggiungere la perfetta conoscenza, deve prima eliminare il superfluo, creare cioè il ‘vuoto necessario per ricrearsi’. Un vuoto onirico quindi, che le discipline Tao/Zen (buddista, shintoista), fanno derivare dal comune concetto di ‘sentiero’ da percorrere, onde per cui è detto: «Il ‘ku’ sarà la vostra via e la vostra via è il ‘ku’. Il bene è nel ‘ku’, esso non conosce il male; dov’è la saggezza, la ragione, la Via: lì è il ‘ku’.» (10)

Il ‘sentiero’ designato è quello all’interno del giardino giapponese (日本 庭园 nihon teien), qui preso come metafora di ‘via’ per introdurci nell’ambito intimistico della natura di questo popolo. Natura in cui la specifica ricerca qui avviata intende iniziare il lettore attraverso l’immagine del ‘vuoto onirico’, così come esso si rispecchia nella moltitudine delle sue rappresentazioni: nella scrittura e nell’arte ad esempio, così come nel teatro, nella danza e nella musica. Ma vediamo insieme quali sono le ‘Immagini del vuoto” (11) cui fare riferimento: il primo dei simboli che incontriamo è sicuramente il ‘sacro specchio’ menzionato nel culto della regina Hime(i)ko dell’antica gente Wa, abitante del regno di Yamatai, nel Kyushu (Nara), una regione a nord-ovest del paese.

I giapponesi ritenevano che lo ‘specchio’, a suo tempo importato dalla Cina, fosse un oggetto di grande pregio poiché in esso si ‘rifletteva’ non solo la natura virtuale della figura umana, bensì la trasposizione filosofico-escatologica del ‘vuoto assoluto’, in cui far rientrare la natura nel suo insieme. Quindi non solo uno strumento di grande utilità, bensì oggetto estetizzante del pensiero ‘interiore’ giapponese, che si avvolge della ‘bellezza’ di tutto ciò che lo circonda: dalla cura dedicata alla persona, all’arredo sostanziale della casa, dalla conformazione dei giardini; all’utilizzo dell’ombrello da passeggio per proteggersi dal sole, al ventaglio divenuto a un tempo oggetto di sofisticata gestualità.

Ed oltre, dal trucco facciale in grado di soddisfare l’esigenza estetico-artistica di una bellezza appariscente, fino alla disposizione artistica dei capelli, raccolti in più piani adornati con fiori e pagode come dei piccoli ‘giardini’ in miniatura, talvolta combinati con riempitivi interni e parrucche, tali da concorrere in un autentico capolavoro d’acconciatura. Come ci fa notare il noto cosmetologo Paolo Rovesti in “Alla ricerca dei cosmetici perduti” (12), “A iniziare dal VII secolo, si diede in Giappone la priorità di un culto notevole riguardo alla bellezza non solo nella donna, ma anche della natura, attraverso l’uso di fiori nelle acconciature,nell’abbigliamento e nei profumi, fondendo gli orientamenti estetici dell’arte con le applicazioni cosmetiche del corpo”.

E ancora, in “Alla ricerca dei profumi perduti” (13): “Nell’epoca Heian (I millennio circa) e nei secoli successivi, l’impiego dei cosmetici fu molto intenso, soprattutto più complicato e sofisticato nella donna. […] Pochissimo tenuti in conto dagli uomini, i prodotti di bellezza erano invece usati dalle ‘musmè’, a incominciare dalla grazia fragile dei paesaggi evanescenti ricamati sui loro tradizionali ‘kimono’ di splendida seta, con i loro fantasiosi ricami di fiori esotici, di fantastici pesci d’argento e oro, e degli straordinari uccelli dai più vividi colori, nonché di grandi draghi dalle fauci spalancate, personaggi mitologici di demoni e altre divinità mostruose che facevano e fanno tutt’ora contrasto con la grazia gentile delle indossatrici”.

Sono state scritte pagine su pagine interamente dedicate alla toeletta delle dame nell’antico libro: “Specchio dell’educazione delle vere signore” (14), utilizzato dalle dame della buona società inoltre che dalle Gheishe nella ‘Casa del Tè’, e dalle ‘musmè’, le ragazze delle case di piacere, in cui si parla dell’acconciare la folta capigliatura di cui le donne giapponesi vanno a buon ragione fiere: “La capigliatura raccoglieva gran parte delle cure ed era talvolta così complicata di spille di madreperla e di lacca, pettini di varie grandezze, di fiori e di ornamenti vari, da significare un linguaggio e un valore di convenzione sociale, così come il modo di disporre i fiori e di servire il tè”.

Ecco come un cortigiano del X secolo descrive al suo sovrano una bella dama che vorrebbe introdurre alla sua corte: “Sotto un’onda scintillante di capelli neri in cui brillano come stelle fiori e fermagli, il suo viso lisciato di ‘noi-ambra’, ha la grazia della luna a primavera. Uno sguardo dei suoi occhi languidi allungati di nero e Voi perderete la vostra città; un altro e Voi perderete il vostro regno.” (15)

“Yo no naka / “Tutto attorno a noi
wa sakura no / il mondo non è altro
hana ni nari ni keri” / che fiori di ciliegio”
(Ryōkan)

È fatto qui riferimento al ‘giardino giapponese’e alla sua mimetica reperibilità in natura, in quanto contenitore del senso universale ed esoterico dell’estetica narrativo-filosofica di questa cultura avvolta nel mistero delle sue origini. Senza alcun dubbio l’archetipo del ‘giardino giapponese’ venne progettato per la ricreazione e il piacere estetico degli imperatori e dei nobili di corte, mentre il giardino legato al tempio serviva alla contemplazione e alla discussione filosofica, in particolare con riferimento al ‘mappō’ (dal sanscrito e riferito alla fine del Dharma). Tuttavia, stando alla credenza popolare, il giardino tradizionale è spesso un modo altamente astratto e stilizzato con cui si creano, ispirati dalla meravigliosa natura circostante, paesaggi ideali in miniatura, che ritroviamo sia in pittura che nella grafica e nelle incisioni, arti queste in cui gli artisti giapponesi sanno essere eccelsi.

Per secoli i ‘giardini giapponesi’ (16) si sono sviluppati sotto l'influenza dei giardini cinesi, ma a partire dal periodo Heian (VIII, XII sec.) i progettisti giapponesi cominciarono a sviluppare i loro stili, basati su materiali della cultura giapponese. Ma è durante il periodo Edo (XVII al XIX sec.), che il giardino giapponese raggiunse il suo massimo livello e cristallizzò le sue forme in aspetti distinti. Successivamente, a partire dalla fine del XIX secolo, i giardini giapponesi hanno iniziato a modellarsi fondendosi con le influenze occidentali dando l’avvio ai diversi stili, derivati dalle diverse discipline, e distinti in ‘shodō’ e ‘bonsai’: il cosiddetto ‘karesansui’ giardino secco formato solamente da sabbia e rocce; il ‘roji’, giardino rustico che circonda le case da tè; e il ‘kaiyu-shiki-teien’, dove il visitatore può seguire un percorso per vedere paesaggi ricostruiti; così come il ‘tsubo-niwa’, piccolo giardino situato nel cortile ricavato fra le ali dello stesso edificio, il primo giardino Zen costruito in Giappone da un sacerdote cinese nel 1251 a Kamakura.

Molti giardini-tempio di Kyoto costruiti successivamente, almeno fino agli inizi di questo periodo, comprendono il ‘Kinkaku-ji’, ovvero il ‘Padiglione d'oro’ (17) del 1398, (di rifermento nel romanzo omonimo di Yukio Mishima); e il ‘Ginkaku-ji’, il ‘Padiglione d'Argento’ del 1482, entrambi edificati seguendo i principi Zen di spontaneità, estrema semplicità e moderazione, anche se, per altri aspetti, seguendo la tradizione cinese. In questi due edifici siamo dunque di fronte a una vera e propria rinascita giapponese dell’architettura e delle arti più in generale, in particolar modo alla concezione del vero giardino giappponese improntato sui canoni della religiosità massima. Si pensi che i piani superiori del Padiglione d'Oro erano davvero ricoperti di foglie d'oro, ed erano circondati da giardini acquatici tradizionali, dove vivono numerose specie di ninfee.

Lo stile più notevole inventato in questo periodo è appunto il giardino Zen detto Ryōan-ji a Kyoto, indubbiamente uno degli esempi più belli in assoluto: 9 metri di larghezza per 24 metri di lunghezza, composto da sabbia bianca rastrellata con cura per sembrare acqua e quindici rocce accuratamente disposte come piccole isole. È pensato per essere visto da una posizione seduta sotto il portico della residenza dell'abate del monastero: “Ci sono stati molti dibattiti su ciò che le rocce dovrebbero rappresentare, ma, come lo storico Gunter Nitschke ha scritto, "Il giardino di Ryoan-ji non simboleggia nulla. Non ha il valore di rappresentare una bellezza naturale che può essere trovata in natura, reale o mitica. Lo considero come una composizione astratta ‘naturale’ degli oggetti nello spazio, una composizione la cui funzione è quella di incitare la mediazione.” (18)

“Wasuseretemo / “Sia pur per dimenticanza
kumu ya shitsuran / non attingono
tabibito no / i viaggiatori
Koya no oku no / l’acqua nel giardino
Tamagawa no mitsu”. / all’interno di Koya”.
(Kukai)

È questa una composizione poetica altamente estetica che ritroviamo anche nell’ordinata scrittura giapponese ‘shodō-shodō’. In quanto ‘memoria antica’ del popolo che verosimilmente l’ha concepita e che, interpretata nelle forme più diverse, è servita a trasmettere il grande patrimonio artistico della civiltà giapponese, costituitasi attorno al XIX secolo. Allorché, abbandonate le strutture feudali cinesi, il Giappone si avviò verso un decisivo rinnovamento, risorgendo alla prosperità e portando una nuova ventata di eleganza e raffinatezza che in seguito avrebbe influenzato il resto del mondo.

“Di fatto la nobile ‘arte della scrittura’ giapponese, che il termine occidentale traduce con ‘calligrafia’, non riesce ad esprimere correttamente il significato legato alla sua pratica, e che altresì si può riassumere in ‘la via della scrittura’, richiedente un impegno incessante. E che, seppure in modi diversi, prende le caratteristiche di un ‘percorso’, tramite un certo perfezionamento tecnico che conduce a un affinamento interiore dell’individuo”. (19)

Si noti come nelle descrizioni e nelle definizioni riferite al Giappone, appare costante la parola ‘arte’, ma non è un vezzo di chi scrive, più semplicemente che ogni cosa è parte integrante di una autentica disciplina, assai vicina alla forma dell’arte. In quanto, rappresentativa delle diverse ‘vie’ da perseguire, o meglio di ‘percorsi possibili’ per il raggiungimento dell’autodeterminazione, composta di nozioni stilistiche, formali, utili (se non necessarie), come conoscere e interpretare “l’espressione degli stati d’animo e dei sentimenti”; “l’affinamento della sensibilità e il perfezionamento di sé” e, “la collaborazione e l’instaurarsi di corrette relazioni sociali e di lavoro”. (20)

Una disciplina questa, nata dal processo di mutamento e del ‘divenire di tutte le cose’ su cui si basa la filosofia taoista del ‘Dō’, applicata in Giappone intorno al XIX secolo a numerose arti tradizionali conseguenziali agli influssi di culti autoctoni e alla loro pratica. In particolare desunte dagli insegnamenti delle differenti religioni shintoista e buddhista, da cui derivano le discipline del ‘bushidō’, il codice di condotta e al tempo stesso lo stile di vita adottato dalla casta guerriera dei Samurai; il ‘kendō’, l’arte marziale della scherma, evolutasi dalle tecniche di combattimento con la ‘katana’, anticamente utilizzate dai Samurai nel ‘kenjutsu’; inoltre al ‘Judō’ come forma di lotta difensiva; il ‘kyūdō’ ovvero il tiro con l’arco, e il ‘chadō’ appunto ‘la cerimonia del tè’.

Quanto anche riguarda la ‘scrittura’, dove infatti l’azione del pennello traccia un ‘percorso’ che converte in segni i gesti del calligrafo. Segni che possono essere decisi o incerti, veloci o lenti, sottili o spessi, ma che contengono sempre una forza che tradizionalmente è definita ‘qi/ki’ (traducibile approssimativamente in ‘energia vitale’), la cui forza è circolatoria, che dai singoli segni passa nei rapporti che s’instaurano tra di loro. Nel pronunciamento del singolo ‘carattere’, infatti, si fornisce la rappresentazione di un’idea, ma tracciandolo si tende a trasmettere soprattutto la relazione che s’instaura tra l’interiorità del calligrafo e la circolazione ‘sanguigna’ che il carattere stesso possiede: “ Volendo esprimere in altri termini questo concetto si può dire che l’istantaneità calligrafica permette di registrare un ritratto ‘interiore’ del calligrafo, nel momento stesso in cui questi scrive.” (21)

Ne rendono luminosa testimonianza gli innumerevoli disegni paesaggistici e i pannelli dipinti ‘così pregni di forza vitale’ di Hokusai e Hiroshige, solo per citare i nomi più noti, le cui opere possiamo ammirare nelle ormai innumerevoli mostre che fanno il giro del mondo. Ma anche nell’odierna attività artistica, dalla pittura alla scultura; dalla cartellonistica pubblicitaria ai video-clip; dalla grafica creativa dei cartoons, all’odierna produzione cinematografica (di cui si parlerà nel prossimo articolo), e le cui competenze sono costantemente in evoluzione, grazie anche alla tecnologia avanzata messa in campo nella loro produzione.

Tuttavia si vuole che l’origine della ‘scrittura’ giapponose sia derivata dall’uso della lingua cinese a sua volta appreso dal più famoso testo “Da Xue” (22) o ‘grande apprendimento’, di Kong Zi (Confucio): “Il maestro Kong era convinto che tutta la saggezza risiedesse nell’imparare a chiamare le cose con il loro giusto nome e che solo attraverso la ‘rettificazione dei nomi’ fosse possibile progredire verso un’esistenza illuminata”. Il “Da Xue” è uno dei ‘classici in pietra’ scolpiti intorno al 175 d.C., verso la fine della dinastia Han, nella città capitale di Luoyang, nato come parte integrante del “Li Ji” o ‘memoria dei riti’, divenuto ‘libro’ a sé stante solo settecento anni dopo, quando Lu Ji nei suoi studi sul confucianesimo, nel tardo III secolo avanzato.
Il ‘pittogramma’ (23) alla base della scrittura, fortemente stilizzata, presenta somiglianze sorprendenti con quella cinese sebbene quella odierna giapponese si possa considerare nei caratteri diversa. Ciò per quanto vi sussistano tracce ben visibili di pittogrammi più antichi riconducibili alla sua origine orientale, forse ancora più antica di Cina e Corea, le cui regole compositive obbediscono a una serie di norme ancora più sofisticate e che sono elemento di maggiore unità linguistica. Infatti, nella pittura cinese e giapponese la calligrafia dei caratteri è anche elemento semantico: grafismo, colore e intensità del tratto si uniscono per dare all’elemento visivo tutta la sua intelligibilità, costituendo allo stesso tempo il testo e l’elemento decorativo.

Di particolare interesse nei manoscritti del passato, presi ad esempio, è l’evidenza di combinazioni di alcuni caratteri che, a seconda della grafia, danno a uno stesso suono significati completamente diversi e, tuttavia, una dimensione assolutamente poetica e musicale. Acciò Lu Ji (III sec. d.C.), funzionario di corte e valoroso condottiero di eserciti, nonché scrittore e poeta cinese, è oggi ricordato come autore di un libello dedicato a “L’arte della scrittura” (24) quasi un’ideale prosecuzione del cammino indicato dal maestro Confucio sulla strada della conoscenza. Uno dei primissimi manuali di poetica appartenenti alla tradizione cinese, ormai considerato un classico della cultura orientale, che affronta la scrittura come una rigorosa disciplina spirituale quasi ascetica, in cui la parola diviene forma privilegiata del viaggio interiore, della ricerca e di una più alta comprensione di sé e del mondo. “Il poeta sta al centro / di un universo / contempla l’enigma / e trae nutrimento / dai capolavori del passato.

Suoi sono gli ‘haiku’ seguenti:

“Lo scrittore offre
la fragranza dei fiori freschi
un’abbondanza di germogli che sboccia”.

“Vènti vivaci sollevano le metafore
nuvole si alzano
da una foresta di pennelli”.

Come tutto questo, e molto altro, stiano a monte della ‘cerimonia del tè’ è qui ancora da dimostrare, così come lo è anche il fatto che prima ancora bisogna conoscere come queste arti: la disposizione dei giardini, la disciplina della scrittura, l’estetica nella grafica e nella pittura, nel teatro e nella musica, siano divenute in Giappone, del tutto o quasi, una prerogativa maschile. Ciò perché, a un certo momento, la donna venne esclusa dall’esibirsi davanti al pubblico in teatro e in spettacoli ritenuti offensivi della decenza femminile. Ciò che in altro modo poteva avvenire esclusivamente in luoghi adibiti a forme di intrattenimento comunitario, quali ad esempio, nella festa danzata ‘Denkaku’ che celebrava, sacralizzandolo, il lavoro agrario dei campi di riso, le festività socialmente riconosciute dove la donna poteva esibirsi nelle sfilate dei costumi tradizionali; e in privato, nelle cosiddette ‘case del tè’, a loro discrezione e in completa riservatezza.

Una più recente rivisitazione dei questo aspetto sociale vede molta parte dei cultori di quest’arte, non solo giapponesi, attribuire alla creativà femminile, l’aver dato un grosso contributo alla cultura del paese e, alla sua entrata nel circuito internazionale della moda, della cosmesi, del disporre i fiori, ‘ikebana’, e di quant’altro concernente la grazia e la bellezza del corpo nella danza. Forma quest’ultima che si vuole derivata dalla leggendaria déa Uzume, alla quale si fa risalire l’origine del teatro, nel momento della sua più alta drammaticità emozionale, sottolineato, in scena, dal ‘vuoto’ creato dal silenzio delle lunghe pause, dalla staticità del gesto, scandito dal parossistico ritmo musicale lasciato improvvisamente cadere.

È questo il ‘vuoto’, ricreato ad effetto, che stabilisce a un tempo lo stacco e l’unione di tutti gli elementi fin qui elencati, attuato non necessariamente dalla parola, bensì dal ‘concetto’ espresso dalla sola presenza degli oggetti adibiti alla composizione della scena; che dal ‘gesto’, rappresentativo della sublimazione dello spirito esoterico taoista, atto a favorire l’incontro degli elementi ‘umani’ e non, o forse ‘disumanizzati’, che fanno della ‘cerimonia del tè’ un quadro di assoluta e raffinata ‘bellezza’.

“You sareba / “Quando viene la sera
shiokaze koshite / attraverso il vento del mare
Michinoku no / sul Tamagawa di Noda
Noda no Tamagawa / nel paese di Michinoku
Chidori nakunari” / piangoni i pivieri”.
(Noin)

Apprendiamo ancora da Okakura, redattore de “Il libro del Tè” (25), quanto segue:
“Per la religione, il futuro è dietro di noi. nell’arte, il presente è l’eterno. I maestri del tè ritenevano che l’arte potesse essere compresa appieno soltanto da coloro che ne fanno sostanza viva, capace di alimentare l’esistenza. Essi cercavano quindi di modellare la vita sui vertici della raffinatezza raggiunti nella stanza del tè. In ogni cicostanza, bisogna mantenere la mente serena e si deve conversare senza che sia turbata l’armonia dell’ambiente che più si accosta alla sua ‘bellezza’. Così il maestro del tè cercava di essere qualcosa più dell’artista – l’arte stessa. La perfezione è dovunque, se solo scegliamo di riconoscerla”. È questo uno degli insegnamenti più efficaci dell’estetismo Zen.

“Dal non essere nasce l’essere
dal silenzio
lo scrittore genera una canzone”.
(Lu Ji)

Mi si passi la divagazione musicale basata sul ‘mettere e levare’ per cui in un ‘vuoto ipotetico’ venga ‘levato’ qualcosa per ‘mettere’ qualcos’altro, o viceversa, in fine l’origine non cambia, resta il ‘vuoto assoluto’. Così come, ‘decostruire’ una partitura musicale per poi ‘costruire’, o ricostruirne una più adeguata alla sensibilità del musicista, nulla cambia se quest’ultima corrisponde in modo adeguato all’originale contestualizzato. Nulla dunque, comunque più di quanto si apprende da questo lungo excursus sulla riscoperta del Giappone moderno cui si affida questa ricerca. In sintesi faccio mia la volontà di riempire quel ‘vuoto onirico’ creato attorno a questo popolo che, all’apparenza, sembra confinato all’estremo margine del mondo reale, ma che tuttavia esiste da millenni.

Un popolo che sembra sfuggire alla possibile elencazione imperativa di un Oriente immaginario, e tuttavia giunto ad autodeterminarsi dentro la progressiva unicità dei suoi modelli caratterizzanti. In cui la singola funzione individuale e/o comunitaria nella formazione dello spirito, ha dato risultati altrettanto importanti, seppure in assenza di una qualche valenza superiore dell’uno sull’altro dei modelli di riferimento. Un esempio è dato dalle molte discipline zen/taoiste che da millenni ottemperano sul territorio alla funzione catartica della formazione.

“L’utilizzo, nel rito ‘shintō’ di corde di paglia sacre ‘shime o shimenawa’, al fine di circondare, per esempio, alberi molto vecchi, o legare due rocce l’una all’altra indicando così la presenza di un dio ‘kami’, è una forma di appropeiazione spirituale della natura. Questo tipo di costruzione si incontra dappertutto nel paesaggio giapponese. Giova sottolineare che questa grande sensibilità alla natura è una delle costanti dello spsito giapponese: lo ‘shintō’, “il cammino degli dèi”, è infatti la religione più antica e più diffusa, e prevede tra i riti, la sacralizzazione e talvolta la deificazione dei simboli della natura”. (26)

Stando al mito shintoista che vuole le isole che formano il Giappone generate da Izanagino-mikoto e dalla sua divina sposa Inazami-no-mikoto, dalla cui unione nacque Amaterasu-no-mikoto la grande ‘déa del sole’, che regnò nelle regioni dell’empireo celeste. Isole che, rappresentate nello strano ‘gioiello’ dalle pietre uncinate disposte in forma di collana anche detta ‘magatama‘, e che ritroviamo quale ‘simbolo’ mitico, nella leggenda euroasiatica degli antichi sciamani che verosimilmente l’hanno tramandata. Si narra che Amaterasu, avesse inviato suo nipote, Ninigi-no-mikoto, sulla terra per fondarvi un impero e gli avesse consegnato quelli che sarebbero stati i simboli della sua sovranità: lo specchio detto ‘chokkomon’; il gioiello in forma di collana, fatto di perle, tante quante erano le isole che formavano l’arcipelago; e infine la sciabola di tipo rituale, detta ‘koshigatana‘, facente parte del costume e della formazione del Samurai, a complemento dei tre emblemi della corona imperiale.

Lo ‘specchio’ dunque, in quanto ‘vuoto’ in cui si riflette l’anima ed è giudice inattaccabile di essa, rivelatore della verità assoluta; il gioiello, in cui si concentrano la bellezza e la purezza, a simbolo della morale e della virtù imperitura; la sciabola, nell’accezione di lama tagliente,simbolo di una giustizia efficiente.

Oggetti rituali questi che troviamo riprodotti in molti esempi artistici e che formano il corredo nazionale recuperato nella campagna giapponese di più antiche sepolture dell’era Yayoi (300 a.C. al 250 d.C.), considerate luoghi sacri, in quanto misteriose porte che s’aprono sull’al di là. Un mondo ‘altro’ cui i giapponesi fanno un distaccato riferimento nei miti come un qualcosa di molto lontano, all’estremo di una galassia dorata che hanno saputo riempire di bellezza, ampiamente riportato nelle rappresentazioni teatrali che formano il patrimonio del teatro classico. Soprattutto in letteratura nei numerosi trattati sulla formazione cosmica del ‘chi’ (la terra), allorché, separato dal ‘mizu’ (l’acqua), nel cui scontro molto hanno significato sia ‘hi’ (fuoco), sia ‘kaze’ (vento), che di fatto è all’apice dell’evoluzione artistica e tecnologica tutt’ora in atto, da porsi in riferimento con l’etica e la morale dell’Hejō, riconosciuta quale ‘strategia di vita’ che porta all’illuminazione.

Nel suo “Gorin No Sho”, ovvero “Il libro dei cinque anelli” (27) di Miyamoto Musashi, si apprende come la via dell’Hejo fosse in Giappone un manuale privilegiato di tattica militare che i guerrieri dovevano conoscere perfettamente. In passato l’Hejō era compreso fra le dieci deità e le sette arti come attività utile non solamente alla scherma, tantomeno la sua importanza era confinata soltanto alla tecnica. E per quanto vada qui evidenziato che l’uso della sciabola ‘shira-tachi’ o più semplicemente ‘tachi’, con il fodero a intarsi di madreperla decorato con disegni sul fondo di lacca e oro, corrisponda a un’arma micidiale puntata contro il nemico, l’olimpo shintoista conosce anche una Déa della Misericordia alla quale è dedicato un famoso inno religioso ‘sutra’:

“E se si scontra con dèmoni divoratori di uomini / draghi velenosi e altri mostri / egli pensa al potere di Kannon / e nessuno oserà sfiorarlo. / E quando è circondato da belve spietate / con scaglie aguzze e artigli orrendi / egli pensa al potere di Kannon / e nessuno oserà ucciderlo.” (28)

Dacché, la disciplina medievale dei ‘guerrieri’, dai più umili fanti autorizzati a portare i ‘daisho’, fino a combattenti più agguerriti e di rango più elevato, autorizzati a servirsi di cavalli, tutti appartenenvano alla stessa classe guerriera cosiddetta ‘buke’, ed erano conosciuti come ‘shi, bushi’ o, più comunemente, come ‘shizoku’. Un nome divenuto famoso in molte lingue, in quanto sta a significare ‘uomini di guerra’, i famosi ‘Samurai’, dediti al ‘Dō’, l’imperativo etico che trasforma una tecnica in disciplina d’illuminazione e di perfezionamento sociale che ritroviamo nella ‘startegia’ giapponese improntata sull’ ‘Hejō’.

“Tu sia la benvenuta,
o spada dell’eternità!
Attraverso Buddha,
come attraverso Bodhidharma
ti sei aperta la strada”
(Okakura Kazuzō)


Titolo quello di ‘Samurai’ che nella forma antica era assegnato ai capi dei clan armati del Nord e, in forma lievemente modificata ‘goshozamurai’, a quei guerrieri dei clan aristocratici legati alla corte imperiale dello Shōgun, il generalissimo, (governatore di fatto del Giappone feudale), autorizzati a portare la spada lunga ‘daito’ o ‘tachi-katana’, e la spada corta ‘wakizashi’ o ‘koshigatana’, che mettevano al servizio di un qualche signore feudale ‘daimyō’. Ma per meglio comprendere ciò necessita qui di conoscere (almeno in parte) la struttura medievale della società giapponese in cui il Samurai si trovava ad operare.

“La società emergente durante il periodo Tokugawa operata dal governo Edo era strutturata in classi in cui l’uomo poteva vivere soltanto seguendo una delle quattro ‘vie’, qui di seguito trascritte in ordine d’importanza: la classe militare al vertice ‘buke’, con i suoi guerrieri professionisti e le loro famiglie ‘shi, bushi’; seguita dai contadini e agricoltori ‘hyakushu’; dalla classe industriale ‘ko’ che consisteva soprattutto di artigiani ‘shokunin’, e la classe commerciale ‘sho’, rappresentata dai mercanti ‘akindo, chionin’. In quanto agli individui comuni ‘heimin’, che costituivano la pate di gran lunga più numerosa e produttiva della nazione, per quanto fossero ricchi, saggi e intelligenti, lo volessero o no, essi non avevano quasi diritti politici”. (29)

In Giappone i poeti e gli scrittori ancora oggi paragonano i Samurai ai fiori di ciliegio, la cui bellezza, di breve durata, si disperde al primo vento. La vita del Samurai è simile all’albero di ciliegio, coltivato non per i suoi frutti, ma per il suo fiore, simbolo di purezza e lealtà che, nell’Impero del Sol Levante, designava un principio essenziale del ‘bushi’, soprattutto nell’addestramento dei Samurai: “Ricordate che la vita è un fenomeno breve e passeggero, un evento caduco, e che la morte sul campo di battaglia al servizio dell’imperatore fosse il fatto più glorioso nella vita di un uomo”. (30)

Per quanto nel “La via del Samurai” (31) l’autore, Yukio Mishima, fa dire all’adepto guerriero che si inpegnava a seguire la propria ‘via’ secondo il proprio talento: “Ho scoperto che la Via del Samurai è la morte”; la cui meditazione ripone nel guerriero il gloriarsi delle tradizioni del proprio paese, l’assolvere pienamente i propri doveri, essere leali verso il proprio signore, filiali nei confronti dei genitori, onde prolungare la propria esistenza e accrescere la propria dignità:

“Affrontate ogni giorno della vostra esistenza come se fosse l’ultimo e preoccupatevi di concludere tutti i vostri compiti affidatevi. Non accarezzate mai la fallace illusione di una lunga vita, finireste con l’abbandonarvi ad ogni sorta di dissipazione e concludereste i vostri giorni nella più nera disgrazia. […] Il guerriero dovrebbe seguire con onore almeno due vie: quella della spada (abilità nell’uso della ‘katana’, e quella del pennello (maestria nella scrittura); un’importanza che esorbita dai limiti della concezione comune, conferiva al Samurai una fama e un onore ineluttabili. […] Era noto a tutti che il guerriero doveva accettare stoicamente l’idea della morte; solo ai monaci, alle donne e ai contadini e alla gente appartenente alle classi inferiori, era dato morire per adempiere un dovere oppure per vergogna, ma l’accettazione della morte da parte di un guerriero era una realtà molto più seria e aveva radici profonde”: (32)

Conoscendo la via dell’Hejō, si può comprendere tutto il resto, anche che:

“Takuhodo wa kaze ga motekuru ochiba kana” / “Per fare il fuoco / il vento mi porta in dono / foglie secche d’autunno”.

“Taorure ba taoruru mama no niwa no kusa” / “E là si sdraia, e là resta sdraiata, l’erba del giardino”. (Ryōkan).

Non ci si poteva rattristare davanti all’uscita di scena senza esitare di un Samurai, così come, ancora oggi, non ci si rammarica davanti alla caduta dei fiori di ciliegio:

“La prossima primavera porterà con sé una nuova fioritura”…

E il grande ‘vuoto’ lasciato dai fiori s’aprirà accogliendo i suoi frutti, schiudendosi a una nuova generazione d’uomini, onde l’etica ‘dai severi ideali’ del Samurai, trova la sua ragione d’essere, sospesa sul crinale tra regola ed eccesso, amore per la vita e fascino, il mistero e l’indicibile che separa e congiunge la vita all’arte di vivere, splendidamente rivelata: “solo chi è vissuto nella bellezza, può morire nella sua tragica bellezza”.

“Con tenerezza e un leggero sorriso sulle labbra, Rikyū guarda intensamente lo scintillio della lama fatale, ed entra nell’ignoto” (33)

“Un po’ come separare il seme dal fiore e attribuire maggior valore al fiore”; è detto nell’Hejō, attribuibile a tutte le attitudini cui anche oggi prestiamo il nostro interesse, alle arti come ai mestieri, nella cura di noi stessi come alle cose dello spirito; così come nell’accettazione della vita accettiamo l’essere guerrieri di fronte alla stoica idea della morte. Così come ho affidato in questa ricerca ‘di oscura chiarezza’ la mia interminabile scrittura.


Note / riferimenti bibliografici:

1) Michael Hardwick, “La scoperta del Giappone”, Mondadori 1971
2) Giusy Barbagiovanni, “Le identità del corpo”, Ananke 2006
3) Zeami Motokiyo, “Sarugaku-no-Nō”, dramma
4) Curt Sacks, “Storia della Danza”, Il Saggiatore 1996
5) Serghej Eizenstein, in “Le identità del corpo” op.cit.
6) Sen no Rikyū, “La Cerimonia del Tè”,
7) Okakura Kazuzō , “Il Libro del Tè”, Editoriale Nuova 1983
8) AA.VV., “L’Allievo e le Stelle”, in “Storie Zen”, Edizioni del Baldo, 2009
9) 10) Miyamoto Musashi, “Libro dei Cinque Anelli”, Edizioni Mediterranee 1984
11) Giancarlo Calza, “Immagini del vuoto”, in “Alle Radici del Sole”, CRT/ERI 1983
12) Paolo Rovesti, “Alla ricerca dei cosmetici perduti”, Blow-up / Marsiglio Edit. 1975
13) 14) 15) Paolo Rovesti, “Alla ricerca dei profumi perduti”, 1980
16) Wikipedia, rif. a ‘giardini giapponesi’
17)Yukio Mishima, “Il Padiglione d’Oro”, Feltrinelli 1962
18) Wikipedia, rif. a ‘giardini giapponesi’
19) Miyamoto Musashi, “Libro dei Cinque Anelli”, op.cit.
20) 21) Lu Ji, “L’arte della scrittura”, Guanda 1991
22) Kong Zi (Confucio), “Da Xue”), …………..
23) AA.VV. “La scrittura”, Electa/Gallimard 1992
24) Lu Ji, “L’arte della scrittura”, op.cit.
25) Okakura Kazuzō, “Il Libro del Tè”, op.cit.
26) Ryokan, “Novantanove Hayku”, La Vita Felice Edit. 2012
27) 28) Miyamoto Musashi, “Gorin No Sho”, “Il libro dei cinque anelli”, op.cit.
29) 30) Oboroya Hisashi, ‘Presentazione’ al libro di Miyamoto Musashi, op.cit.
31) Yukio Mishima, “La via del Samurai”, Bompiani 1983
32) Miyamoto Musashi, “Il libro dei cinque anelli”, op.cit.
33) Okakura Kazuzō, “L’ultimo tè di Rikyū”, in “Il Libro del Tè”, op.cit.

Discografia di riferimento:

“Japan” , Semi-classical and Folk Music, Musical Atlas - Unesco Collection, direttore Prof. Alain Daniélou. EMI 1984
“O-Suwa-Daiko” – Japanese Drums, Musical Sources - Unesco Collection, direttore Prof. Alain Daniélou. PHILIPS 1978
“Tradizioni Musicali del Giappone”, Universo Folklore Collection direttore Ariane Sègal, ARION 1975
“Nagauta” Japanese Kabuki Music, The Kyoto Kabuki Orchestra, Albatros 1979
“Koto Kumiuta”, Song Cycles of 17th & 18th siècle, Namino Torii, ALbatros 1979



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