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Daìta Martinez … la voce lirica del discanto.

Argomento: Poesia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 04/09/2021 08:38:03

Daìta Martinez … la voce lirica del discanto.

S’increspa al respiro del vento, prima d’incedere dagli interstizi dei suoi silenzi marini, la liricità grave di Daìta Martinez, che riporta in superficie scompagini di un linguaggio primario, agli albori di una fonesi onomatopeica il cui alitare nudo, scaturisce, per effetto di discontinuità, dalla “precisa irrealtà di una distanza”.
È questo il tempo residuale di un passato che è solo della memoria, onde il verso poetico consegue dilagante al ‘discanto’ gergale e sacro rigenerato sul filo di una “liturgia dell’acqua”, da un ‘qui ed ora’ veritiero e inquietante, che “ruba parola alle parole … sospingendo destini”.
Eppure non traspare afflizione, dispiacere o tormento del verso, se non l’accettazione di una ‘assenza nella presenza’, ascendente alla volontà determinante dell’essere, di quel ‘sé’ che l’accompagna nel discanto, così nei ‘pianissimo’ come nei ‘fortissimo’ della sua voce, agra nella fusione gergale, tuttavia così mediterranea.
Non è certo necessario a Daìta Martinez stabilire l’ineguagliabile e profondo legame con la sua terra, “una riserva di limoni … la fioritura del ciliegio / l’incantesimo di una cantilena, / nella danza di una trottola”, nonostante la materia della lingua parlata, è negli elementi annotati, nel ‘riportarli alla luce’, che la rivelazione del suo ‘spirito lirico’ s’avvale, e che conosciamo dalle sue labbra “ammucciate sutta sta finestra di sciroccu”.
L’insensatezza della solitudine, la propaggine dei silenzi nei giorni senza vento, il pronunciare discontinuo delle parole avite, l’antitesi dell’ossimoro nell’ingranaggio dell’esistenza che porta a nuovi costrutti della mente, la soglia, il limite estremo dei desideri che non si realizzano, il “nodo nudo … mentri talìa como sciddica ciatu”.
Leggiamo qui, in questo modo di dire siciliano, com’è detto di persona indifferente ad ogni avversità, l’anima bella dell’autrice “chiarissima d’insistenza”, il suo respiro, aperta alla resilienza, al distacco dalla ‘realtà nella realtà’: “margine di un margine di vento … vuoto il grembo nel grembo agli / occhi sorge e discende l’obliquo / suo farsi dal mio fondo crociato”.
Intrecci di parole che spetta al poetare disciogliere nel “chiarissimo buio” che le circonda, con indulgenza nel “l’immobile acqua che sospende l’impronta calma … di seta sorta vuota tonda sul finire”, quasi a indurle a ritrarsi in se stesse, per un riscatto salvifico dalla condanna ciclica di un paradiso mancato: “Per disobbedienza cerco un riquadro inverso / al senso di una grazia unita e segreta all’ode del perdono”.
L’effetto ultimo può risultare infimo oppure grandioso, dipende dallo spirito con cui si affronta l’intero costrutto della “liturgia” annunciata, dal pronunciarsi ‘vivo’ delle parole: “il prato di latta ha margherite colorate nei sogni dei bambini … / dopo la questua la preghiera e quel finire / a mano il ricordo più lento odoroso vento / con occhi della piccola grazia ribelle alle / stelle pi n’anticchia di beni attummuliatu rina rina dintra ‘a vucca ca scunta e nenti cunta di lu scantu”.
Non c’è bisogno di conoscere il dialetto per comprendere ciò che la lingua evocata aggiunge al suono dell’afflato d’amore: “per imperfezione o / per credenza rubata agli angeli nudi / come impercettibile ora del passero / questa sua ritrosia sulla biancheria / bianca di bianchissimo cuore tutto / l’ardore dell’odore accolto per cura / sola primizia di una lacrima matura”.
Siamo allo stremo del poetare, in cui l’esistenza stanca di lottare perennemente di fronte al destino, s’avvoltola in se stessa, nel silenzio di un sentimento d’amore o, forse, di melanconia affettiva, di quella osservanza che il poetare sovverte in “isolata perla, la luna, il cielo altro non promette solitario”.
Dacché scrive (dal profondo dell’abisso):

“… anche le lacrime hanno lo loro melodia
e veglia l’aurora retrostante il ticchettio
nudo del mezzadro di fianco stanco per
inconoscibile protesta la sua lattescente
finitezza che là tra bocca impensata per
maldestra sua attesa la misura del bene
seppur senza mai tracciarlo un riservato
ti voglio bene nascosto dentro al profilo
della stanza venuta all’acqua profumata
la guancia rosata del sole un breve oltre
allo sguardo del mare …”

“Il mondo che ne emerge è favoloso – scrive Maria Grazia Calandrone nella sua intensa ‘prefazione’ – Daìta Martinez racconta un’infanzia e un presente cresciuto fino all’amore adulto, dove tutto è mescolato a tutto e ogni elemento contribuisce a formare il suono di fondo che riconosciamo come il ronzio del ‘reale’, oltre la così detta realtà. […] Perché Martinez sta parlando a qualcuno, sta raccontando il colmo, il mediterraneo traboccare in colori e sapori della vita, per qualcuno che ascolta. O ascolterà, leggendo questo nascondersi in bella vista della parola, questo smettere anche la punteggiatura e lasciare che ognuno sia quel che è, veda quel che vede. Canti il suo canto”.

Daìta Martinez è poetessa palermitana autrice di numerose sillogi poetiche è finalista nel 2020 della 34° edizione del Premio Lorenzo Montano. La presente silloge è edita da Nuova Limina per i tipi di Anterem Edizioni 2021.

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