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’La dimora del ritorno’ una silloge poetica di S. D. Rosati

Argomento: Poesia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 23/10/2021 01:28:18



La dimora del ritorno - una silloge poetica di Sofia Demetrula Rosati – Nuova Limina / Anterem Edizioni 2021

“Tremila anni … ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l’hanno fissata. Questa fortezza (Micene), una volta inespugnabile - cumulo di pietre ora - fu l’ultima cosa che vide … Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.” (*)

Sola, come la Dea Misterica di cui l’autrice porta il nome, Demetra dea della natura, colei che dà amore incondizionato, portatrice delle stagioni e patrona della giovinezza, “il cui non esserci (oggi) era (è) solo un voltare di spalle, un cambio di maschera, una posa drammaturgica.” Ma ciò che può sembrare un gioco effimero che sfocia nel tragico teatrale, non è che luce riflessa, un ripensamento sul ‘mito’ di cui, col passare del tempo (millenni), si è perso il filo, smarrito nell’attraversare il labirinto del vissuto, definitivamente …

“Tremila anni … così il verdetto del dio si mostrò duraturo: nessuno le avrebbe creduto” (*) – mai, per l’eternità.

Nessuno, sebbene un fantasma si aggiri ancora, come nel passato, sui guasti d’ogni guerra: Troia come Micene, Varsavia come Beirut, Hanoi come Rangoon, Beirut come … quante altre? – contro un nemico da tempo dimenticato e i secoli inesorabili che l’hanno spianate. Il sole, la pioggia, il vento, tutto è cambiato invano. Immutato è rimasto il cielo, un blocco d’azzurro intenso, alto, distante …

“Ogni cosa cosmica / aveva possibilità di sguardo / su ciò che era stabilito.”

Così, come nelle macchinazioni teatrali non tutto però è dato per scontato, in ciò l’autrice restituisce alla scrittura poetica ciò che va oltre il testo sponsorizzato dal ‘mito’, condividendo il suo ruolo precipuo con quello del lettore/spettatore, formalizzando una possibile trama che riversa in-presenza, quella che era l’attualità misterica, assente ai nostri giorni; da cui il titolo “La dimora del ritorno”, per un appagante ‘incontro’ con il presente …

“…certi passi silenti e lo sguardo distratto di chi sta per partire e non ha più a cuore ciò che resta, qualche appunto qua e là sparso in casa, su fogli strappati male, perché male fa, dover lasciare parole prive di storia, sconnesse all’attenzione e tenute insieme da un collante … nei radi giorni di senso … con la dolorante consapevolezza (d’essere null’altro che) un grafema, scaldano solo se brucio le pagine su cui scrivo, nutrono solo se diventano mercanzia.”

Per quanto ciò possa sembrare vuoto di senso, è nella presenza del ‘mito’ che si consuma il nostro e l’altrui destino, di “assenza nella presenza” che si rinnova: dimensione e misura di un incesto edenico mai venuto meno …

“…e non somigliavamo a nulla, ci coglieva lo stupore quando potevamo sfiorarci, emettevamo leggeri suoni bluastri, dall’indistinto sapore di felci, il verde non era ancora stato codificato, vagavamo tra il giallo denso e il blu liquido.”

Ancorché non bruciate le pagine scritte, leggiamo:
“…esistevamo, nell’evanescenza del divino femminile, ne eravamo certi, perché i nostri colli lunghi, si sollevavano verso il cielo, le retine cominciavano a guizzare, emanando segnali striduli e imprecisi, spazi di mnemonizzazione … quando i suoni divennero parole, conoscemmo la memoria e la dimenticanza.”

Non c’è dimenticanza conscia nell’immutabile ‘segreto delle cose’ se non la labile, inconscia “…adesione alla sapienza sacrificale dominata dall’incertezza, che pesa sulle coscienze oscuramente, come esigenza inespressa” (**), presente nei segni del ciclo annuale di morte e rinascita inerenti al ‘mito’, archetipo che possiamo contemplare solo unendo gli estremi di una qualche entità/identità astratta, profetica, veggente. Ebbene, è questa la cifra incatenata che Sofia Demetrula Rosati pone davanti allo specchio del tempo, come riflesso rifratto in sequenza fino a raggiungere l’evaporazione.

È forse questa “l’evanescenza del divino femminile” cui sottintende l’autrice nel suo excursus poetico attorno al ‘mito’?

Per quanto è dato sapere, è rivelato nelle pagine di questa silloge, che nulla esclude alla verità sulla condizione della donna di ieri come di quella d’oggi, entrambe “rinchiuse in una singolare normalità – benché avverte – si definiscono abusate” e, per antonomasia, senza riscatto dal ‘peccato originale’ che, in ragione di una presunta colpevolezza, si autoesclude dall’essere stato commesso, che pure è ancor oggi presente, sopravvissuto finanche all’espiazione di un Dio misericordioso …

“…le figlie della narrazione … non conoscono la storia delle proprie antenate, madri nonne perse nei tempi, ormai ossa consunte, alcune diventate tossicodipendenti, altre malate a volte psicotiche … sebbene l’imperfezione creata, prende la forma dal ventre ripetutamente abusato, di sagoma dalla memoria abortiva, figlia che osserva il mondo con lo sguardo di una Gorgone costernata e afflitta, da uno stupore cupo.”

Per giungere poi alla bellissima supplica ‘madre’:
“…non mi lasciare sola
in questo vuoto che non è assenza
ma compressione di colpa
domani la possibilità di poter credere che
se torno a muovermi
la materia nella quale sono immersa
mi riconoscerà e saprà farsi involucro
affinché anche per me
questo universo in moto esprima
il suo senso relativo e l’essere l’esserci
abbandoni la posizione di quesito
per spostarsi in un luogo temporaneamente
attratto dalla ripetizione.”

Come anche dice nella sua filiale invocazione:

“…madre, sfiora il mio corpo
districa i capelli e usali
per la tessitura
ungimi con unguenti
da te preparati
fammi sorridere cullami.”

Così di seguito, sul farsi della preghiera, la figura materna della Dea Partenogenica è umanizzata nel ‘mito’ che l’accoglie: “…rinasci dal mio ventre di figlia, onde ella nacque divorando il suo destino.” E benché separata da un’umanizzazione che la distoglie dall’eternità cui pure è relegata, si fa oracolo; la cui “parola (di veggente) non conosce simbolo o metafora … (e dalla quale), si è sempre attesa la narrazione … ma la cui gola non narra e non conduce a nutrimento.”

Fino alla conclusiva ammissione di colpa (un’altra) imperitura:

“…madre
Non fu con le parole
Che distruggemmo
I tuoi altari?”

“Nessuno la credette allora, nessuno le avrebbe creduto …” (*) – è quanto intessuto nella tela dei millenni. È qui che l’autrice si richiama al ‘prologo’, posto in apertura d’ogni canto in indice, per condurre il lettore/lettrice alla fonte della sua creazione poetica, si direbbe in extremis, all’ ‘epilogo’ mitologico del suo narrare le assennatezze della dea …

“…i suoni di flauti e danze la riportarono con lo sguardo verso il mare e la sua Salerno dove trascorse una vita lunga e feconda, dispensò cure e bellezza fino all’ultimo dei suoi giorni, mai più volse le spalle a levante … con la consapevolezza che non esiste sapienza tanto grande da non poter essere offuscata da un solo unico errore. E allora chi può realmente possederla?”

Allo stesso modo s’interroga il poeta-lettore/lettrice-protagonista, l’essere per il quale il dubbio è l’unica certezza …

“…se la parola scritta fosse l’unica sapienza … e la poesia restasse l’ordine ultimo al quale poter accedere? L’unico senso, la conoscenza di ciò che … fra punto di partenza e divenire … non può avere significato”.

È allora che il ‘mito’ qui contemplato, s’accende di poetico afflato, impercettibile ai sensi, ineludibile la verità dell'essere che siamo: mitici eroi di una galassia ormai spenta, coscienti che un giorno non lontano gli antichi dèi torneranno.


L’autrice Sofia Demetrula Rosati, scrittrice e traduttrice di testi poetici dal greco moderno apparsi in diverse raccolte antologiche per le più importanti riviste e collane editoriali, vincitrice inoltre di alcuni premi importanti del settore tra cui “Premio Donna e Poesia” 2012. Appassionata di tecniche calligrafiche orientali e occidentali, produce lavori di visual poetry, asemic writing e asemic calligraphy. Sue sono le significative illustrazioni grafiche interne al libro.

Note:
(*) Christa Wolf, “Cassandra”, E/O 1983
(**) Italo Calvino, “Palomar”, Mondadori 1983



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