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Impero

Poesia

Bruno Di Pietro
Oèdipus

Recensione di Enzo Rega
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Pubblicato il 04/08/2017 12:00:00



   Nella postfazione del primo libro di poesia di Bruno Di Pietro, Colpa del mare  del 2002, Alfonso Amendola parla di una “feroce limpidezza”. Nell’introduzione a minuscole del 2016 (la precedente raccolta), Mimmo Grasso parla di “eleganza”.Cifre stilistico-contenutistiche, la limpidezza e l’eleganza, che caratterizzano tutta la scrittura di questo autore, scrittura nella quale, all’interno di una misura e di un orizzonte classici, passa tutta il travaglio della modernità o tarda modernità. Se, come scrive sempre Amendola, “È l’andare greco il primo procedere della poesia di Bruno Di Pietro (a partire dalla scelta eleatica dell’unicità)”, è ora l’andare romano, latino, a segnare questo più recente Impero. Ma è il cinquecento fiorentino a far da sfondo alla plaquette Della stessa sostanza del figlio del 2008: qui il travestimento assunto da Bruno è quello di un eretico del tempo, Francesco Pucci, uno dei nomi che fa seguito a quelli di Ippàso o di Liside della prima raccolta, o ancora di Massimiano di acque/dotti del 2007 (tanto per fare solo alcuni esempi): ora è la volta degli imperatori romani da Augusto a Marco Aurelio. Nomi-simbolo come Di Pietro li definisce in una sua precedente nota d’autore, o travestimenti, ma forse non eteronimi, o almeno non sempre, soprattutto per Impero, nel senso di un Pessoa (vedi Ricardo Reis ecc.), o, più recentemente, di un Cucchi (da Glenn a Jeanne d’Arc). Più che altro, come dice Marcello Carlino nella prefazione di Impero, Di Pietro sembra ora fare da ventriloquo, prestandosi a dar la voce a una serie di personaggi che si esprimono in prima persona. Per citare il Walter Beniamin evocato dallo stesso Carlino per questo libro, possiamo aggiungere che la raccolta di Di Pietro appare come un benjaminiano libro di citazioni, o presunte tali. Per cui sembra di trovarsi di fronte a un citazionistico romanzo storico polifonico.

   La storia. Qui, come altrove per Di Pietro – e come è nella tradizione dei grandi romanzi storici –  la storia è il mezzo attraverso il quale parlare del presente. Diciamo “romanzo”, perché si dispiega in Impero una narrazione in versi che copre un lunghissimo arco di tempo. Solo che di poesia si tratta. Ora, la poesia, quella contemporanea, ha spesso avuto commercio con la filosofia – che c’è anche qui – o con la scienza (vedi un Edoardo Cacciatore in cui c’è l’una e l’altra insieme a un lavoro innovativo sulla “forma chiusa” della tradizione). Meno consueta oggi è probabilmente la poesia “storica”, il chiamare in causa appunto la storia, i suoi eventi, le sue trame e sotto-trame.

   Di Pietro ci parla senza dubbio dell’Impero romano e fa parlare i suoi protagonisti. Ma l’Impero diventa chiave di lettura dell’oggi, come anche Carlino mette in rilievo. E come fa Carlino possiamo chiamare in causa non il simbolo, ma l’allegoria in senso benjaminiano. Con il simbolo io dico una cosa attraverso un’altra che la richiama:  un symballein, un “mettere insieme”, come sottolineava Heidegger, ma con un ‘retrogusto’ di astrattezza, e, se vogliamo, di arbitrarietà: il gabbiano che simboleggia la libertà. Nell’allegoria invece significato e significante s’identificano in un grado maggiore di concretezza. Il teschio è la morte, e, in quanto tale, è allegoria della morte. L’Impero romano è, in questo libro, l’Impero romano, declinato nelle varie voci che ne parlano, ma, allo stesso tempo, è allegoria di ciò che possiamo chiamare Impero nell’età della globalizzazione. Ma l’uso dell’allegoria, l’armamentario metaforico al posto della escussione diretta dei documenti dell’epoca odierna, ci danno una sorta di “distanziamento melanconico”, di “pronuncia straniata”, che producono un effetto di diplopia, per dirla ancora con Carlino che scrive: “Sulla politica dell’Impero di allora, che si fa forte di un illusorio universalismo utopico, e sulle sue mappe si sovrappongono – scorrono in corrispondenza, ma senza enfasi declamatoria alcuna – le mappe dell’impero di oggi: eccoli i segni della globalizzazione: di una difficoltà insuperata di governo delle dinamiche economiche transazionali eterodirette, […] della dispersione centrifuga fino alla polverizzazione di assetti coesi, di condivisioni reali” (pp. 7-8).  Ieri come oggi, dunque, una tensione verso una dimensione sovranazionale che finisce per polverizzarsi nel particolarismo: i regni romano-barbarici una volta, e oggi il regionalismo (nella versione catalana e primoleghista) o il sovranismo di tipo trumpista-lepenista (e della Lega attuale). Ma l’analisi del critico letterario Carlino assume qui una virata economico-sociologica che può ricordare le critiche alla globalizzazione dei sociologi Zygmunt Bauman e Ulrich Beck. Ma viene in mente un libro di filosofia politica di diversi anni fa, che ha lo stesso titolo: Impero del 2001 di Michael Hardt e Antonio Negri. E il sottotitolo, almeno nell’edizione italiana, è proprio “il nuovo ordine della globalizzazione”. Scrivono gli autori nella prefazione: “L’impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. […] Di fatto, l’Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo” (p. 13). Che si accetti o meno l’impostazione marxista degli autori, quello che è sottoscrivibile è la determinazione in termini di “impero” della globalizzazione odierna (ma, più in generale spesso si usa parlare di imperialismo come forma di controllo indiretto subentrato ai governi diretti del colonialismo), un impero che, viene specificato, non nasce né spontaneamente né per direzione unica e centralizzata. Una complessità dunque che, per altre strade, e con la concisione della poesia – una poesia a levare, e non solo nelle minuscole il cui titolo era già programmatico – qual è quella di Di Pietro.

   Ma quali sono, in tal senso, gli indizi nell’Impero di Di Pietro?

   Innanzitutto, il titolo della prima sezione, “Un solo continente un solo Impero”, laddove l’eurocentrismo dell’enunciato si spiega con l’orizzonte storico della romanità: ma “continente” appare sineddoche di “mondo”, e già la globalizzazione romana era transcontinentale. Nell’Impero romano si esprime l’utopia di ridurre a unità universalistica un intero continente, e che mutatis mutandis può corrispondere oggi a una Unione europea nella quale a Roma si sostituisce la Germania come cuore di un novello sacro romano impero germanico.

   In Di Pietro il sogno dell’Impero si presenta non solo come incubo distopico ma anche come utopia positiva: “luogo buono” se intendiamo l’etimologia della parola non solo come ou-topos – “luogo che non c’è” – ma anche come eu-topos.

  Nel proemio infatti leggiamo:

 

Inonda luna piena il tempo della luce.

Racconta luna nera i chiaroscuri

di chi ha governato

i luoghi più belli e civili della terra.

                Regalaci la parola

di quelli che vi hanno preso parte

in prima persona

                            o in disparte (p. 13)

 

   Abbiamo qui già indicazione del contenuto (il governo dell’Impero) e la forma (la parola di quelli che vi hanno dato vita). E nel testo immediatamente successivo, Il sogno di Augusto (p. 14) si delinea la pax augustea: un vasto territorio popolato da “città magnifiche” con fontane, templi e ginnasi, tra loro collegate da strade lungo le quali viaggiano merci, così come per mare sulle navi vengono trasportate mercanzie verso il vicino oriente: “Tutto il mondo sembrerà un solo principio e fine / così tutto sarà ordinatamente al suo posto. / Conquisteremo tutto o saremo perduti. / […] Lo chiameremo Impero / questo ordine austero.” “Il ponte sul Danubio” (titolo della terza sezione, o libro terzo) proietta l’impero sempre oltre, oltre il confine naturale rappresentato da un fiume. Ma anche i ponti servono all’economia, si dichiara al riguardo (e pontos era in greco un altro termine che stava a indicare il mare come mezzo di congiunzione tra terre diverse)

   Ma già nel testo che segue, Roma, la più grande delle città magnifiche, la capitale, è aggredita dal male (altrove, più di una volta Urbe rima con Turbe, lemma polisemantico che può stare per accozzaglia, moltitudine confusa di persone, ma anche per disturbi psichici, e quindi per disagio in generale): “La zanzara anofele e la malaria infestano la città / la gotta si diffonde quanto più cresce il lusso. / In Senato non si è più discusso delle cloache / ora che, principe fra i pari, gli ho restituito il potere”. La malattia morale vi appare come malanno fisico, e ciò che è stato il bene dell’Impero, le ricchezze accumulate, ne appare anche come tarlo del male. Infine, le gloriose istituzioni politiche come il Senato, non svolgono più il loro ruolo. L’Impero si dà una moneta unica, ma non basta formalmente coniarla, servono miniere, serve nuovo argento. E se l’Impero cresce, Roma e il popolo s’indebitano. “Fortunati i mercanti” si legge alla conclusione di un testo così intitolato (p. 16). Se vogliamo, possiamo vedervi in controluce, o in pieno sole, i riferimenti all’oggi: per restare in casa nostra, il senato conservato ma sempre imbelle in un parlamento incapace, o, a livello transnazionale, una moneta unica che aggrava problemi e indebita popoli. Prosperano in questo i mercanti, siano anche quelli degli odierni mercati finanziari, a scapito della gente. Vespasiano, per grassare il popolo, arriva a tassare anche i bagni, oltre a istituire tante altre tasse per città e province, tra cui quella riservata ai Giudei. Ma le tasse servono anche per le scuole di retorica volute da Quintiliano. E come il suo passano, in queste pagine, tanti altri nomi “in disparte”, accanto agli imperatori: Seneca, Plinio (e quelli di Mosè e Gesù).

   Tra le ombre, anche le luci della cultura. Il testo che dà il titolo al libro secondo, La via della sapienza del diritto (che sa anche di filosofia orientale con il richiamo al tao, appunto la “via”) recita:

 

La via della sapienza del diritto

guadagna le massime astrazioni:

ci liberi la dottrina dalla tirannia

dai pratici e dai venditori di orazioni

dai compilatori di suppliche

dirette al potente di turno

ci liberi dall’arbitrio e dal cavillo

dalla consueta processione di avvocati

dalle magistrature speciali

sempre compiacenti e colluse.

Ci liberi la dottrina dalle norme confuse

E incomprensibili. Così la sapienza rivivrà nei secoli,

fin quando il sapere prevarrà sul saper fare” (p. 45)

 

   Roma è anche la culla del diritto, così come l’Italia ne sembra la tomba, mentre la Grecia ha visto nascere la filosofia. E “Rialzati Grecia” è il titolo del Libro quarto, e penultimo. Il richiamo, che può sapere di attualità rispetto alle odierne vicende (la Grecia, anche per colpe proprie, ha più risentito della scure europea) ci riporta ovviamente al tempo della nascente latinità: la Grecia vinta dai Romani ma vincitrice per cultura. L’Impero, quello di allora e quello di oggi, hanno necessità del patrimonio – non economico ma culturale – della Grecia. Il richiamo alla Grecia indica anche il ritorno alla vocazione mediterranea rispetto a quella atlantica, quel mediterraneo che già per Hegel era l’ombelico del mondo sul quale si affacciano i tre continenti che hanno fatto la storia del pianeta, prima che la via dell’Atlantico conducesse altrove: Europa, Africa e Asia.

   Ecco dunque l’esortazione all’Ellade cuore dell’Occidente mediterraneo:

 

“Rialzati, Grecia!

Padrona della sintassi originaria

sintesi di tutti i possibili paradossi

vinta e vincitrice al tempo stesso

portasti le arti nel rozzo e agreste Lazio.

 

Rialzati, Grecia!

Tuo sarà il pensiero comune dell’Impero:

[…]

 

Grecia vinta, sottomessa, genuflessa

Rialzati!

Il tuo destino non potrà mai essere oscuro

Poi che l’origine sempre è il futuro” (p. 61)

 

   È quanto l’imperatore Adriano avrebbe detto alla risorta assemblea del Panellenio, invocando il pensiero meridiano, che noi oggi diremmo nicciano, additandolo ai poeti, pochi dei quali frequentano il mezzogiorno, preferendo l’oscurità.

   E proprio ai poeti è dedicato il quinto e ultimo libro di questo Impero: “Alle navi, poeti!” che riecheggia di nuovo il nicciano “alle navi, filosofi”. Il filosofo Marco Aurelio lamenta che la filosofia non gli ha dato nemmeno una zattera. Forse solo la poesia, e i viaggiatori (Ulisse, Enea navigatori del Mediterraneo), possono porre rimedio all’assenza di senso, alla senescenza e alla decadenza. Ecco quindi un nuovo invito al viaggio, e contemporaneamente una spezzatura del cerchio che interrompa il cammino verso il declino dell’Occidente europeo e un’inversione di marcia. E così Marco Aurelio conclude: “Quanto povera è la filosofia! / Vorrei essere poeta per estinguermi nel canto. / Ho visto il quasi niente e il non ancora / ora e nell’ora della mia fine” (p. 83). E questo adagio che sa quasi di formula cristiana ci riporta alla fine di Augusto, laddove inizio e fine sembrano già coincidere.

  Infatti, nell’alba dell’Impero se ne intuisce anche la fine, che fa tutt’uno con la morte del primo imperatore, nei componimenti numerati VI e VII (pp-19-20). Dice Augusto attraverso il ventriloquo Di Pietro: “Il mio viaggio verso l’origine si ferma a Somma / non si può vedere l’inizio prima della fine” (un’ipotesi vuole che Augusto sia morto tra Somma Vesuviana e Nola). Da un lato, sembra di intendere che tutto riceve un significato, e svela il proprio senso, anche nel senso di direzione, solo alla fine, dall’altro si registra lo spaesamento di chi naviga nella storia, nel mondo, nelle cose degli esseri umani, con un ineludibile sensazione di cupio dissolvi, al quale, però, ricordiamolo fa da antidoto l’esortazione precedentemente ricordata rivolta alla Grecia, alla poesia, alla cultura, e al diritto. Continua il testo VI:

 

Svanisce l’erba in questi afosi giorni estivi

svaniscono le rose prima del crepuscolo.

 

È questa la notte dell’antico niente

e persino le ali della luce sono lente

e quando non sai più se l’ora passata

è un’ora persa o un’ora guadagnata.

 

Ascolta.

Il cigolío degli scalmi

Lo sciabordío dei remi

Annunciano l’avvento del battelliere

(e tu ne tremi)”.

 

   E qui la storia si fa senz’altro poesia, attenta e misurata. Ma se adesso la dimensione si fa intima e raccolta, possiamo chiudere con un ulteriore e ultimo riferimento alla dimensione globale di ieri e di oggi cui questo Impero allude. Non è Napoli a essere “porosa”, come la definiva Benjamin in quanto coincidenza di opposti, di esterno e interno. Ma è Roma, e cioè l’Impero:

 

“Roma porosa assorbiva la civiltà intera.

[…]

E non basteranno confini, eserciti, ponti

Nei confronti di popoli nomadi per elezione” (p. 77).

 

 

Nota: nelle citazioni fuori testo, alcuni versi sono riportati in corsivo, altri in tondo perché così nell’originale.

 


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