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Dolore dei sassi

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Dolore dei sassi come dolore della terra e della pietra, degli interni in cui affondiamo e di una natura della quale pur in sofferte aperture di condivisione avvertiamo, scontiamo una qualche- crescente- separazione. Questo ci sembra il cardine attorno a cui ruota l'intenso testo della Salvia, insegnante di storia e filosofia nel licei ed autrice ormai d'esperto cabotaggio. La coscienza arcaica della mortalità, di una condizione che non può sopravvivere alle sue stesse costruzioni, spirituali e morali, di abitazioni e chiese, ha l'eco nelle origini di una terra, quella lucana (anche se ormai la Salvia da tanti anni romana d'adozione) disseminante nelle sue tracce un apprendimento e uno sguardo tra le opacità e le zone d'ombra di un mistero entro cui è possibile procedere solo per interrogante affidamento. Questa dignità dell'umano è la lezione e il dono allora di una scrittura quotidianamente sottesa al filo di un incedere materno diremmo, nell'orfanità di una mancanza avvertita ora nel richiamo pungente di una voce e di una etica di una nascita (o ri-nascita) comune ora negli spegnimenti di riferimenti che ci rigettano. Sofferenze e ferite che di qui competono narrate secondo una diaristica di cammino che ha il suo incipit nel testo che dà titolo al libro, "Dolore dei sassi" appunto, che ha proprio nella morte di una bambina il grido alto di uno scalciare e di un mondo inascoltato nel suo bussare. Ed allora tutta la sequenza nell'incedere e nella posa della sepoltura, in cui le "stesse bianche costruzioni di pietra" delle strade appaiono come "strani oggetti/che non hanno causa" perché prive di noi, sembrano levarsi a metafora di un'impossibilità magistralmente così descritta in uno dei passaggi seguenti:" "zolla secca/che l'aratro rivoltò quando il raccolto/ fu seminato". Ed ancora, "meteore cadute" che nel contatto, nella sua rimemorazione di vuoto d'aria (di spirito e soffio allora) in apertura di tutto ciò che scorre, sanno però il punto e la bellezza da cui ripartire come in un "moto perpetuo di acque, di stelle, di radici" comunque a dirsi sotto un cielo "dove ogni cosa è più forte dell'uomo". Esemplare in tale senso è il brano "Eguale segno sempre" (vera dichiarazione di poetica) in cui nella direzione di un "Abitare tra il sale e la parola" è in questo trasalire la possibilità d'orientamento (nella tenerezza quasi d'animale- di gatto- però diremmo secondo la risonanza da un altro testo nella capacità di "coscienza delle soglie e degli spazi", di respirarne il silenzio sentendo tutto vivo). Intanto però è tutto uno scontare, un peregrinare di strade e di spazi, di uomini e donne nel tentativo di dirsi che hanno nella carnalità di una poesia intrisa di terra e calore, di tentazione, il luogo sospeso tra "un tempo paziente e muto/e un sapore di noce viva/fuori dal guscio" e quello di un buio, di una fine imminente nell'annuncio di un mondo che resterà solo. Ecco allora i riferimenti alla Plath e alla Stampa, all'amatissimo cugino-poeta Beppe Salvia e al Basento dell'infanzia, ad una Roma di rivelazioni e negazioni, ad un Italia soprattutto come "ape inglobata/in una pietra" e in promesse che ignare finiscono nell'incuria "di un luogo non luogo" nella "assidua contiguità della morte". Così ad un'età in cui "la notte non crede più nell'alba", che non riconosce, non vede nell'altro la medesima ombra, la Salvia finisce col contrapporre una sacralità dello sguardo proprio "là dove è il cammino dell'acqua/ e il tempo di pietra", nella domanda stessa all'uomo della croce sul come dare apertura di speranza e di sorriso prima dei lupi e del sangue. La risposta forse è allora nel farsi toccare nel rischio della perdita, nel trapassare come stella "di forma in forma" nel dono di "una parola frutto di scoglio" che possiede, ferisce, illumina. Di una parola in conclusione che sa però anche sospendersi- e scommettersi- nell'ambiguità dei silenzi.

 

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