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Il poeta frenetico

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Non si insiste sufficientemente sul carattere selvaggio della mentalità greco-romana – è tra l’altro la tesi fondamentale de I Greci e l’irrazionale di Eric E. Dodds (introduzione di Maurizio Bettini, nuova edizione a cura di Riccardo Di Donato, presentazione di Arnaldo Momigliano, Milano, BUR, 2009) – in quanto un pregiudizio neoclassicista tuttora dilagante si rifiuta di affrontare la questione in termini antropologici. Winckelmann, ricollegandosi al Rinascimento e a Michelangelo – ossia, sublimando le disarmonie del vero disegno dei greci in perfezione assoluta – operava una specie di sublimazione della sublimazione. Ma gli interventi psichici interiori rappresentati demoniacamente e/o divinamente furono alla base degli stessi meccanismi mitologici che, per ragioni estetiche, peraltro non disprezzabili, Winckelmann preferì descrivere stabilendo una specularità tra esteriorità e interiorità: «Se il senso esterno è giusto, ci possiamo augurare che quello interno sia altrettanto perfetto: poiché esso è un secondo specchio nel quale, attraverso il profilo, riconosciamo i tratti essenziali di noi stessi» (Il bello nell’arte. Scritti sull’arte antica, a cura di Federico Pfister con uno scritto di David Irwin, Milano, SE, 2008, p. 82).

Per i romani delle età successive il discorso si differenziò solamente di poco, tant’è vero che le molteplici facies di civilizzazione anche nel passaggio dalla repubblica all’impero continuarono a insinuare l’immagine del “poeta frenetico”, includendovi Virgilio e Orazio, secondo una concezione già presente in Democrito che prevedeva un fare poetico μετ' ἐνθουσιασμοῦ καὶ ἱεροῦ πνεύματος (fr. 17 e 18), portando a esempio direttamente Omero (fr. 21). Analogamente , sul piano politico le Idi di marzo furono inutili in quanto l’anarchia era strutturalmente insita nel popolo romano e saperla arginare – dare l’impressione di una ricomposizione di qualcosa di unitario e pacifico che non era mai esistito, nemmeno adesso – fu intervento meritorio di Augusto, erede del cesarismo ma che di fatto salvò la civiltà romana permettendole di identificarsi in un unicum tanto definitivo quanto mutevole.

 

 

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