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Manuel de Freitas - Federica Gullotta

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È una bella operazione questa della Edb Edizioni che nella collana “Poesia di ricerca” presenta e fa incontrare autori diversi ma in qualche modo uniti da un riferimento di interrogazioni che qui in questo smilzo ma densissimo libricino ha nella presa di distanza da un’epoca che sembra procedere per cancellazioni il suo intreccio doloroso e sapiente. I nomi infatti appartengono a generazioni diverse, a lingue e paesi diversi. De Freitas, portoghese, è del 1972, la faentina Gullotta del 1991. Stesso l’affondo della parola, qui accompagnato da alcune opere inedite di Davide Mansueto Raggio (l’artista rappresentante dell’Outsider Art scomparso nel 2002) e dalle appassionate traduzioni per quanto riguarda de Freitas di Roberto Maggiani. La poesia di de Freitas, tagliente, rivelatoria, oscura nel suo sguardo ferito e di rimostranza sul mondo, va a dilatarsi tra le pieghe di spazi cui la parola può solo gli accaniti e desolati rimontaggi di una realtà illusoria a dire la mortalità di una condizione sempre più fagocitata dalle cancellazioni della sua economia. Così questo sguardo continuo sulla morte e sulla doppiezza evanescente della figura umana, tra presenza e ombra, tra desolazione e annichilimenti da accensione, ci restituiscono un autore nella piena di un’avanguardia soprattutto pienamente e nobilmente lusitana per il tono ora romanticamente disperso ora consapevolmente al termine ma sempre fermo nella disputa delle sue coscienze. La poesia, nel suo viaggio nel moderno non può nulla, come il moderno può condurre a una fine prematura- almeno del pensiero- così il dire poetico nel raffreddamento delle sue metafore può solo accompagnare questa infinita rinascita di continue morti, nell’epitaffio di una conoscenza vicina però- almeno!- a chi non ha contorni di bellezza (“servire da rosa triste a coloro/ che cantano affatto, per delicatezza”). Così in questo abile rimando di una realtà nel tono medio e asettico del suo progressivo e inarrestabile- e ormai familiare- sfacelo (in cui il mondo stesso accade nonostante il dolore- ed in cui la cosa strana è sopravvivere a tanto) il dialogo coi morti su cui la riflessione va a insistere ha il sapore di un’acre rivelazione intorno a noi stessi, ad una presenza, la nostra, per gli altri per certi versi infernale e che nulla- e nessuno- nonostante le illusioni, può salvare. Resta l’incisione, la cruna di una stizza meravigliosamente e inutilmente umana che de Freitas (a cui non saremo mai grati abbastanza per aver unito in un sol verso Smiths e Joy Division) sa restituire nella sanguigna intelligenza di “uno stile espresso nella poderosa dinamica delle sue strofe larghe e cadenzate e in una eleganza del dettato estenuante”, come ha ben rivelato Di Spigno nella introduzione. La poesia della Gullotta, a sua volta, muove anch’essa dal registro di una realtà asfittica cui sa rispondere però con le aperture e chiusure di un’età- e di una ragione- ancora libera di pensarsi e di negarsi all’interno della violenza di un mondo predeterminato e privo di logica. Eppure- ed è qui la splendido arrotolamento di una poesia già terribilmente matura- è nella coscienza del non potersi muovere il bordo su cui il suo dire si accende tra dogmatismi e strutture di divisioni di spazi e stagioni, di ruoli ed una natura stessa-così tanto amata- che pure va a smentirci nella mortalità dei suoi isolamenti, come una illusione a fronte di una terra in cui non c’è più nulla di invisibile ma solo un male che si distingue e  “grida forte”.  La lotta è allora è con le immagini, per le immagini, nella loro salvaguardia di reminiscenza e di origine, di contenuto allora nel loro frutto d’amore e di pietà adesso nel vuoto a perdere di un tempo che come i suoi angeli sembra lasciarsi decomporre (scadere al chiuso dei suoi frigoriferi verrebbe da aggiungere come dalle immagini più forti che Federica ci regala). Così il morto che in sogno va a salvare “dai festeggiamenti”, che teme, ama, asseconda è anche figura di un mondo che nel pensiero dei suoi uomini e delle sue donne si vorrebbe immortale e forse per questo terminale nella neutralità e nell’indifferenza del suo possedersi. In conclusione, dunque, un volumetto che volentieri andiamo a consigliare, seppure domandandoci se possiamo cantare ancora solo dolore e tramonto, se la poesia d’occidente può solo condividere l’imbrunire da cui nasce e non aprire piuttosto squarci, luci nella gioia di esserci perché vivi così come ci viene suggerito da altri orizzonti, più poveri forse, ma nell’insieme. In sostanza, giocando proprio da de Freitas: possiamo solo continuare a morire, dire la morte?

 

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