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Esemplare oltre che di una poetica, di un costume dell'abitare che investe il senso stesso della reciproca appartenenza, familiare, umana, in questi giorni così duramente messa alla prova e chiamata radicalmente a ripensarsi, questa sorta di lunario, di calendario dell'anima e dei giorni che la cara Alaimo ci consegna in un quaderno di testi che racchiude una produzione di circa vent'anni. Curioso a nostro dire, dopo una ripetuta lettura, come in realtà sia la prima parte soprattutto a farsi centro e cuore del libro, la restante pur dolorosa, viscerale, incalzante a dettare la biografia di una vita segnata da ripetuti abbandoni e mancanze e assenze essenzialmente esplicativa, propedeutica a ritroso di tanto interrogante e rimettente canto di vita nel mondo, del mondo nell'elogio della gratuità della terra- e della nostra presenza in essa- che viene solo da una progressiva spoliazione di se stessi. Il percorso però proviene dal buio, da una lotta non ad armi pari con un'anima in cerca di consegna ed un immanente tragico per l'uomo transitare nel tempo di cui è preda nella sua "brutale inumazione", ogni cosa ma soprattutto l' uomo un' isola priva di approdi "dissolta la rete dei simboli". Così gradualmente avviene il passaggio da questa non ricomponibile ferita, che non può ricomporci ma che è possibile solo cantare ad un affondo, ad una partecipazione in quella lirica degli elementi finalmente piena perché deprivata dello sguardo, soprattutto nella notte dove "solo la luna/che fiorisce e sfiorisce nel cielo/raccoglie insieme/il tempo dell'infanzia e della morte" tra lo spazio immenso della volta e una terra sostenuta da "piccolissime cose da nulla" ("i fili dell'erba, le ali degli uccelli,/le nuvole e le mani dei bambini") . La dimensione è quella della "leggerissima felicità del niente" cui Franca tesse l'elogio, non a caso il primo all'interno delle quattro sezioni del libro (gli altri sono incentrati sul tutto, sul tempo, sull'amore) di cui l'uomo però non può che scontarne il processo, l'aspirazione in un'atmosfera che ha un che di trakliano in un sole che muore facendosi "lampada luttuosa degli Inferi" e sciami di stelle "lucenti come umide agnelline" (come sacrificate o come imploranti a compararsi alle immagini dei nostri sogni). Eppure è proprio in questo odore di rose che non si vedono, in questo improvviso apparire e scomparire di abitare di angeli (dove forse "è morto/per sempre il peccato") l'affermazione nella remissione di una natura già redenta, e che sembra attenderci in quell'affido del respiro che trova in "quei piccoli passeri affamati" che "scrivono la lingua crocifissa del nulla" una delle sue più alte immagini. Poesia di rilkiana ascendenza più che orfica a suggerire comunque dell'uomo il suo altrimenti sostare sulla soglia dove nell'annullamento di cielo e terra"tutto quel che avviene poco dopo era./Tutto quel che avvenne dopo un poco è" in un canto a cui nulla manca perché non c'è caduta e dove, per noi, solo senso è vivere nella propria figura "di vento e canna", sola sponda il dubitare e oscillare essendo "vento per il respiro della canna/canna per il soffio del vento". Approdo umile e dolcissimo di una scrittura che sapendo "il dolore della conoscenza" nella docilità dell'animale e del bambino dagli animali e dai bambini procede essenzialmente nella semenza di una vita felice perché semplicemente viva, nella bellezza di un mondo negli occhi degli altri, che esplode e va a moltiplicarsi "come a primavera i fiori/ubbidendo alla vocazione/di ogni cosa nel farsi perfettamente" e dove è straordinario anche il dolore e lo svanire, la morte stessa un tramite per liberare dal bozzolo l'anima farfalla. È un discorso d'amore allora quello a cui l'Alaimo richiama, in una moltiplicazione che viene dal dimenticarsi entro una offerta di qualcosa che sempre dalla natura accoglie e ritorna e proprio da bambina, già da bambina misteriosamente compreso e accolto entro una storia come accennato difficile, non comune, l'amore stesso figlio di una coniugazione mutila, a tratti entro una negazione penitente, densa di oscurità e colpa. La vicenda autobiografica prende allora campo (come già nello splendido "Sempre di te amorosa" a cui volentieri rimandiamo) in cui dall'interno di un parlare ancora acceso scorre la visione di una ragazzina, di una giovane, di un' adulta poi ora recisa ora accudita, ora desiderata ora tradita eppure mai vinta e impressa nell'accensione di uno sguardo che fu di angelo sempre cadendo "nell'ombra delle crepe,/nel fondo dell'Amore". Angelo abbiamo detto, sì, una figura che spesso ricorre e riportata esattamente nella densità del suo significante provenendo dal sogno, al centro di un pulsare che ha alla fine ancora e sempre l'ardore di una sensualità che è il sì della terra nella comunione delle forme nell'appello che risale come da un cielo rovesciato, e nella figura allora come d'usignolo ("La promessa") al flauto dolce della gola perché "il linguaggio delle piante,/degli angeli e degli animali è quello dell'Uno". Quell'Uno che l'ha accudita prima e salvata poi nella forma delle rivelazioni che sa offrirci, "di sangue, di carne, di ossa", a dire appunto "che più della morte/può il canto". Ed è questo appunto il senso di questi elogi nel tempo di una povertà riportata al dono di una creaturalità salvifica, nella precarietà sapendo che non solo "è sempre giusto vivere" ma più dolce esserci là dove nell'amore qualcosa di aperto ogni giorno attende. Parlare di Franca Alaimo così, in conclusione, è come rammentarci. E questo nel solipsismo di un'epoca che teme l'ascolto si può davvero dire di pochissimi.

 

 Maria Teresa - 13/04/2020 00:44:00 [ leggi altri commenti di Maria Teresa » ]

Perfettamente aderente alla silloge vera, genuina in cui l’intensa poesia di Franca, pregna di emozioni arriva dritta al cuore del lettore. Congratulazioni

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