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al testo di Pietro Menditto
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Dirai ai tuoi figli che quando tuo marito ebbro di fortuna e sazio di carne mi uccise confondendomi col tramonto fu un atto dovuto. Le cartilagini erano già impresse da un collaudato destino e le membrane mai divenute palinsesti. La gente del posto era così abituata ai cieli di sangue di quella terra infame da scambiarli per teloni gettati sulla carne che i camion portavano ai depositi. Mi misi in testa di portarti via ai tuoi e non riuscivi a capire come l’eterno crepuscolo nei tuoi occhi potesse essere dimenticato per un profilo riemerso da combusti ricordi, sciamanti come da un disturbato alveare durante una visita a un cimitero occidentale. Ma io avevo parole di sangue caldo come i mattoni del muro maestro calcinato dall’ira perseverante del leone estivo e i parti e gli aborti e l’aver procurato vita e morti come acqua sorgiva dal grembo non poteva salvarti dall’alito in rivincita di scoperchiati sepolcri – sghembi nel mondo i figli uscivano dal tuo ventre torniti pipistrelli, come da una grotta grondante buio e seme di decreti. A loro curiosi della mia morte come di ogni luogo incantato dirai che di notte vedevi tra i campi intorno alla vostra casa aggirarsi un’ombra di luce avvoltolata espandersi raggomitolarsi tra i lampi diventare un punto ingigantirsi volare via improvvisa nuvola fola minaccia esorbitante veleno alle radici di tutto che mai sarebbe stato mosto bollente per un convivio di lemuri di paglia a chiudere il giorno biblico agghindato in salmi. Che poi essa ritornava dallo zenit alla vostra casa tu diventavi la casa e quella cosa stringeva in vita te e i muri e scendeva superba in cantina e slegava i nodi e svitava tutte le viti e tutta la vita e scuoteva i pilastri e la terra e l’acqua e l’aria ed era fuoco che s’era messo in cattedra, e altre cose del genere. Ma poi essi si faranno più pressanti e alla tua lingua verrà in soccorso il fiato monotono del tempo narrante ed essi non acquietati vedranno finalmente la madre e le sue mani alla carne silenziosa e al carnefice cantante e l’ombelico arcaico del giorno consueto secco di polvere di rovine felici di una morte solare. Non l’avrai detto, ma anche loro sapranno infine che anche tu volevi salvare qualcosa di quello che nella quinta stagione mi fece danzare su un filo d’ombra nella ardente freschezza del crepuscolo, ma solo qualcosa, non più di tanto, quello che a una madre tocca salvare, il passaggio, ma in cosa consistesse quel passaggio era al di là delle labbra umide del tuo prosperoso destino. Così la cosa fu risolta in un sol colpo con un colpo solo e dalla voce del fanciullo chiamata: il cielo che cade e dalla pietra confortata in memorabile oblìo. Ora i tuoi figli hanno scoperto dove sono sepolto e spesso vengono a trovarmi confidandomi i loro silenzi mentre ignota tra le braccia stringono l’eco sapiente del tuo grembo vuoto. |
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