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Gino Stambecchi

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Gino Stambecchi era un vecchio commerciante di sogni: li tirava fuori -come un commediante appassionato e sincero, non certo privo di una qualche chiara magia di bambino- non appena lo stuolo di professori psichiatri, con nasi compagni di occhiali, lo accerchiavano senza cattiveria, così come ogni giorno pallido di lenzuola e mattino.
Gino non poteva che essere contento: raccontava cosa sognava, ma in realtà solo lui sapeva che ciò che veniva ammainato da un sorriso vuoto di denti, non era altro che un impetuoso fantasticare. Creava per quei dottorini delle pietanze così saporite che era difficile credere fosse frutto di una mente ormai alla deriva dell'umano, dove ci sono immagini sguinzagliate di parole, e disancorate dalla logica.
Quell'uomo gentile come un maggiordomo coi dottori, nel salutarli calorosamente con un triplo inchino del capo, non badando a spese di umiltà; mite come un cagnolino che ha scelto te come il migliore essere interplanetario; e, infine, silenzioso durante la giornata come una nevicata che ha quasi timore di cader giù.
Il motivo del suo soggiorno in ospedale? Enigma di qualche spicciolo per se stesso, per la sua coscienza asservita al bisogno materiale, nonché creativo; ma un dilemma tra i dottori sul come mai non si schiodasse da quel letto, che, se fosse stato vivo, lo avrebbe lanciato su per le stelle, e il tutto senza l'accompagnamento rassicurante della poesia.
Il dottore più spelacchiato, e quindi più riflessivo, che sembrava vedere già da dietro la porta la situazione psichica del paziente... proprio non indovinava un bel niente del malato Stambecchi.
E si ripeteva: "invece di migliorare, ha una strada assicurata.. peccato che sia un'eterna discesa...."
La dottoressa Rayante, con voce leggermente stridula, proferì una fotocopia di quella che era la verità della situazione: "forse non se ne va di qui, perché non ha nessun posto dove stare". Ma la pura verità era che gli piaceva avere a che fare coi dottori, poiché anche lui stesso era studioso di psicanalisi, e... cosa che non disdegnava: le polpettine e il riso al pomodoro: li gustava con ogni vogliosa papilla gustativa.
Il nostro vecchio preparava con cura ogni dì, già dalle sei dell'imberbe mattino, la sua storia...
Diceva fra sé: “se parlo di una voliera dove stanno rinchiuse le colombe, mi prenderanno per una frustrazione poco nobile, in senso freudiano? o in senso junghiano come uno sprigionarsi della mia creatività repressa in una gabbia, e ogni colomba sarà il simbolo della santa pace che l'opera d'arte mi darà col suo volare? O ancora in senso adleriano come uno sprigionarsi del mio potere sociale al momento della liberazione, io, sottomesso e femminino? Se dovessi seguire Adler, sicuramente, dovrei protestare moltissimo contro il padrone del negozio – che deve essere per forza di sesso rude- e che tiene le colombe recluse. Si sa... questi padroni di negozi sono i più avvantaggiati nel negozio di questa vita… Ma queste sono vecchie storie, inattuali."
Anche quel mattino i dottori lo accerchiarono, e Gino vide nei loro occhi l’avidità selvaggia dei sogni tra qualche momento raccontati, quell’impossessarsi della verità di quel paziente dalla fantasia in eruzione, senza neanche un velo di dignità per quei dottori che faticavano, più stambecchi feriti di lui, a stargli dietro con orecchie di brace.
E lui percorreva – con l’estro di un artista folgorante e dai racconti colmi di una quasi erotica passione- sentieri impervi di donne gravide senza figli dentro e di uomini con collezioni di ciglia di donna… che colmavano di lacrime per ricordare le donne andate via, per vedere brillare ancora una volta una lacrima della loro donna.
Poi eruttava domande, improvvise e brutali, del genere: “perché un uomo dovrebbe collezionare ciglia di donna?”
Il dottore disse: “Non so, dovrebbe dirmelo lei…”
E il buon Gino: “Ma dottore, anche lei è stato bambino e non aveva una gran paura che avesse giacca e pantaloni e non il cravattino?”
Il dottore rosso e impacciato e senza quasi più aria, se non quella dell’imbarazzo, disse: “Lasci parlare noi, le domande le facciamo noi, lei esponga solo i suoi sogni!”
E così, felice che i suoi discorsi passassero per suoi complessi, pensava al piattino di riso al pomodoro.
L’infermiere arrivò con il carrello del cibo. Il piccolo ometto con un grosso carrello (anche quella sproporzione era spietata, considerò triste Gino) tutto ciò che riuscì a meritare fu un largo sorriso senza denti del vecchio Gino. Questi era davvero soddisfatto che il suo “sogno” gli avesse procurato un altro piatto caldo, e un passo in più nel capire la rossa reazione delle guance del dottorino e il suo incredibile, grasso divertimento...

 Alessandra Ponticelli Conti - 19/06/2013 20:49:00 [ leggi altri commenti di Alessandra Ponticelli Conti » ]

Scritto bene e piacevole. Complimenti!


 Giuliano Brenna - 14/06/2013 13:27:00 [ leggi altri commenti di Giuliano Brenna » ]

molto carino!!

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