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Alluminio

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“Alluminio”. A lungo mi sono domandato il motivo di tale titolo. Ho letto la raccolta di poesie più volte, senza prima leggere la bella ed esplicativa nota introduttiva di Mario Santagostini, al fine di non rimanerne influenzato, nella quale si legge: “[…] Chiuso il libro e in attesa di riaprirlo (accadrà spesso, ai lettori), resta la domanda: dove siamo stati, dove ci ha accompagnato, Mario Fresa? […]”. Consolante affermazione. In effetti, alla fine della lettura, si rimane con la stessa sensazione di aver gustato un ottimo piatto gourmet, in cui la sinfonia dei sapori rallegra e decisamente soddisfa il palato in un concerto di gusti ben equilibrati, ma non si sa da dove tali sapori scaturiscano, da quali spezie, aromi o droghe o sostanze e in quali proporzioni, di certo rimane la voglia di tornare in quel ristorante ad assaporare nuovamente la pietanza. Così è per il libro di Fresa, alla fine della lettura si chiude il libro rimanendo con tale fluttuante sensazione di buona poesia, ma non se ne comprende precisamente il perché, per l’appunto ci si chiede: “dove siamo stati, dove ci ha accompagnato, Mario Fresa?”. Dico quindi che la poesia di Fresa è materia da gustare, è, in certo qual modo, sensoriale, da seguire con la percezione di un senso non razionale, coadiuvati dalla percezione inconscia della realtà.
Penso che “Alluminio” sia un titolo che richiami la materialità delle poesie di Fresa. L’alluminio è un metallo lucido, riflette, ma di una lucidità leggermente opaca adatta a ricordare quello situazione di luce che bisbiglia dalle palpebre socchiuse in uno stato di dormiveglia nel quale sembra avere avuto luogo il contatto con un mondo immateriale e fluttuante, a tratti vorticante, nel pensiero del soggetto narrante e colloquiante con un mondo di fantasmi, di ricordi, di sensazioni esperite e rinnovate nello stato temporale dell’ora-qui-adesso in cui vengono accolti i “solenni doni” di un “sonno breve” portatore di un presagio di allegrezza che verrà; forse uno stato di dormiveglia indotto da una sorta di depressione esistenziale, di quelle che ci accompagnano, di tanto in tanto, con un corredo di tristezza latente. Rivelatrice di questa situazione interiore potrebbe essere l’epigrafe iniziale al libro, di Ugo da Massa, che recita così: “Ma quanta gioia pare ‘l mio tormento”, che si collega perfettamente alla poesia finale in cui pare realmente che il tormento alla fine dischiuda una sorta di gioia: “Tenue, così, come uno sguardo / labile, magro; / dunque abbàssati nel sonno breve, / l’allegrezza verrà, / non pronunciata, come un esatto, docile bisbiglio. // Dunque tu accogli solenni doni: / pazientemente qui bisogna / rilegarli nella notte dell’ascolto, // nell’alluminio delle superbe luci.”

La poetica di Fresa si innesta perfettamente, a mio avviso, nella sua epoca, un’epoca scientifica, ma anche incerta, in cui la scienza stessa, in certo modo, è portatrice, nei suoi paradigmi fondanti, di tale incertezza, basti pensare al mondo atomico e subatomico, in cui regna la fisica quantistica con il principio di indeterminazione che modifica completamente la nostra percezione classica della realtà: le particelle non seguono più traiettorie precise, ma si muovono entro nuvole di probabilità, hanno comportamenti bizzarri e possono quello che a livello macroscopico non è possibile, a causa dei principi più marcatamente deterministici che lo regolano. La poesia di Fresa ha un comportamento simile ma opposto. La materia della sua poesia ha un aspetto puntuale e di precisione, se si leggono i singoli versi questi risultano scolpiti, hanno un senso logico, scorrono, sono nitidi di sintassi e di significato, ma se allarghiamo lo sguardo sul panorama della sua poesia troviamo un mondo altro, indistinto, ben calibrato ma, in certo qual modo, percettibilmente fumoso, in cui la logica non segue più causa ed effetto; i pensieri sembrano uscire dalla zona inconscia, da strati profondi: elaborazioni casuali della mente.
Nel mondo quantistico-poetico di Fresa escono particelle di senso dal nulla, così come, nella fisica quantica del mondo reale, si possono materializzare particelle dal vuoto, le quali, se non trovano un supporto energetico per prendere forma di materia stabile, tornano nel nulla dal quale sono emerse; tale supporto energetico, nelle poesie di Fresa, risulta essere il mondo delle sensazioni e dei pensieri, l’emotività del poeta, la sua cocente riflessione affettiva: “Poi mi chiedevi un dono, un orologio per contare / le formiche degli assalti, le feste vinte / da un angelo leggero: / una ressa d’introvabili parole che invitava / all’ingegnoso salto nel buio. / Era un docile lamento che imbrogliava la vista / dei giganti: io ti guardavo / ansiosamente stringere la mano / dei penultimi confini.”

Concludo sottolineando lo straordinario coraggio di questo giovane poeta, che ha saputo affermare, almeno in questa raccolta, una poesia di non immediato senso compiuto, legando a se il lettore più esigente, che sa accettare la sfida di un poetare di ricerca che vaga sul confine estremo della percezione e del senso della realtà, in cui nuovi paradigmi poetici sono necessari – penso soprattutto alla lingua poetica.

 Basilio Romano - 24/06/2009 08:27:00 [ leggi altri commenti di Basilio Romano » ]

Sembra un libro da leggere, la recensione mi è molto piaciuta, da ciò che si dice mi pare che non sia una poesia di immediata comprensione, ma si sa che i poeti vedono altro dalla realtà usuale, e l’altro qualche volta è difficile da descrivere.

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