LaRecherche.it
Scrivi un commento
al testo proposto da Redazione LaRecherche.it
|
||||||
(dialogo tra sconosciute)
Resta un buco nerissimo nel tempo – un vestito di polvere e catrame, lo stacco da terra del tallone di lei quando voltava tra schiamazzi erbacei di terriccia – resta come un mucchietto di cenere il gesto che faceva – il suo piccolo corpo chinato e corale, ritagliato seguendo il disegno del gesso sulla stoffa azzurra del cielo che sta sopra le campagne e conosciamo perché al fondo di tutta la distrazione c'è quella immensità, quel pettinarsi e basta.
Resta il dubbio su come muovesse spontaneamente le mani – come un corpo maturato nella stazione eretta benché porti un peso: la fronte resa complessa da una lunga opera di adattamento; poi scavalcava la finestra per tirar dietro alla palla (International) nello spazio preciso e smagliante – dopo tre soli-giorni di bel tempo: un triangolo d’alberi e in fondo alla polveriera delle ginestre la montagna del corpo della madre, quello che di un essere umano la luce arriva a toccare.
Annina (la madre, una cosa poco oscura): Se resto in casa lei mi sente vicina. Lascio entrare la luce del suo destino dalle finestre, abito nelle cose come nell’innocenza di una visione, inclino il mio corpo a una parte felice: appoggiata al suo braccio.
Certe mattine scendo insieme a lei fino al mercato – non comperiamo niente, noi siamo sopraffatte dai colori e dagli odori complicati che si fanno dove gli esseri fisici si radunano. Ma piuttosto resisto fino alla luce piuttosto resto a ponente nella sera che tornerai davvero: come nei compleanni primitivi il marchio lancinante del paradiso – una cosa che illumina all'indietro la lunghezza del corpo. Tendo le mani perché pietà! hai, di questo morto dialetto di scimmia.
Io sono il giorno anzi l'istante adriatico del giorno nel quale ho accompagnato con lo sguardo la salute felina della sua figura che elargita e radiosa si allontanava dentro la chiacchiera rapida e sediziosa dei pettirossi fuori dal mondo (in una sera più grande del mondo: io senza io né mondo) portando l’insonnia e la costruzione di una campagna verosimile molto lontana dal mio congenito sporgermi verso.
Angela (la figlia, piuttosto da lontano – sullo sfondo): C’è questa donna che mi fa regali nel sonno come fossi una bambina, qualcosa che sta al mondo come un piccolo calore: lei mi rincorre, mi fa ridere di quel riso alfabetico e armonioso di tutti gli altri bimbi cittadini. Quando sono malata – in quella strana lingua zodiacale – mi dice cose che non mi aveva detto la mia stessa madre. Poi siamo insieme sulla sabbia salata come due impalcature: zitte – vicine.
Sentiva sempre la bambina piangere – dal coma – dallo sfascio vertebrale – cantava essenzialmente, per calmarla – il suo canto incosciente dissaldava l’armatura di ogni lontananza.
Annina: Penso che la sua mano sia spiccia e docile come una nocciola. Il suo sonno è uno strappo: vento!, vento... – o brace delle origini sul bucato, il fresco di una lingua da poco riappresa – un mattino che sono torturata dalla gioia di essere viva come questo capello da cent'anni in disordine sulla mia spalla – questo fenomeno vitale del tuo corpo che mi fa dire bentornata Angelina: ecco il mio corpo: quello che della luce un essere umano arriva a toccare.
Angela: Il punto di riferimento dei miei sogni è una montagna, un corpo grande che scivola lungo i fusti delle ginestre sotto una pioviggine di limpidezza fotografica e allenta il terreno – spiega l’ispirazione imprecisa e accorata delle spighe al cielo. Se ne sente l'investitura pittorica: un complesso sensibile una smagliante lacerazione lenta come un’anima che non vuole andarsene dal corpo. Poi c’è qualcuno che mi prende per mano e io senza volere dico mamma – poi mi vergogno, ma tocco la sua mano e conosco che è uguale e riguarda il mio viso.
Per qualche tempo la bambina manifestò comportamenti ombrosi: facevamo il suo nome come un sordo invocare di bestia nel crepuscolo dai crepacci di fresco delle finestre – perché si addormentava oltre i campi adattati al sereno temperamento delle bufale – severi e bianchi di bontà e amarezza dalla parte che toccano il cielo e dunque sembrano restare appesi per le cime all'infarto celeste o andare incontro a una morìa d'azzurro nella brodosa calamità della zolla: cadeva a terra come a una chiamata – e dentro il nero pareva tacere senza confine o finalmente ridere: l’animale materno piegava in un assenso uguale a terra e cielo. Gli sconosciuti si conoscono in sogno perché emerge una terra senza risacca dal loro volto e il corpo ha una lontananza calpestabile e arde fino al mare. Noi pensavamo quello che non la scempia la solleva. Ed è andata così.
Annina: Mai! ti ho lasciata, ho bloccato il teatro della vita a quand’eri vicina: la testa diritta e in tutto il corpo la musica di un carapace che abbandona il mare. Avevo superato ogni interesse: ero calda e santa.
Angela: Eccomi, sono di fronte come un quadro, vorrei che si capisse dove il corpo diventa pietra e in quale spacco della pietra posi l’anello: il tempo quasi richiuso, la goccia dell'istante che quadra. Eccomi: ora dichiarami la mia esistenza.
Annina: questa no, non è questa la mia bambina, non mi scherzate perché sono vecchia: quando torna farò molta attenzione. Sarà pronto l'olfatto, l'acume terra-cielo della vista (ci vuole una vista per l'erba e una per l'istante del distacco) e il rigore splendido della mente: Angelina – stavolta al campo ti accompagna mamma.
25 giugno 2004
Storia liberamente tratta dalla trasmissione televisiva "Chi l'ha visto": Annina, madre di Angela, una bimba di nove anni, viene percossa e mandata in coma dal marito. Si sveglia "incapace di intendere e volere" e la bambina viene data in adozione. La mamma invoca invano la figlia per trent'anni. Dopo trent'anni le due donne sono una di fronte all'altra e la mamma non riconosce in quella donna adulta la sua bambina.
[ Testo tratto da Fuori dal cielo, Empiria |
|