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E come il vento: lInfinito di Davide Rondoni

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      Studiavo per l’ultimo esame all’università. L’ultimo che non è mai ultimo se si tratta di esami. Sfogliavo e risfogliavo le pagine del mio bel librone di logica. Formule, teorie, definizioni epigrafiche. Mi sono imbattuta nel teorema di Cantor, che recita più meno così: “Per ogni insieme di elementi è sempre possibile trovare un insieme con un numero maggiore di elementi, e ciò vale sia per gli insiemi di numero finito che per l’infinito”. Per l’infinito? Esistono insiemi infiniti maggiori di altri infiniti?

      Non ho mai avuto il dono di una mente matematica, per cui non ero sicura di aver capito il significato di quel teorema. Con l’infinito il cortocircuito del pensiero è davvero inevitabile, ma quando gli infiniti sono addirittura molteplici, che fare?

    Decisi di prendermi una pausa e di ricorrere ad un altro Infinito, quello più famoso, poetico, filosofico - e forse matematico esso stesso - quello “cantato” dell’amato poeta recanatese. Ho riletto con attenzione i versi di Leopardi quasi interrogandoli, perché mi sovvenissero a chiarimento, a illuminazione di un concetto che si agitava confuso nella mente. Scoprii poco dopo che la matematica risiede in un luogo non altrove della poesia, per usare le parole di Davide Rondoni e del suo originale libretto dedicato all’Infinito leopardiano. Non amo lasciarmi lusingare da ingenue teleologie, ma per una strana coincidenza di bicentenari, nuove uscite editoriali e sessioni universitarie, la lettura di questo testo ha accompagnato, intervallandole piacevolmente, quelle ore di studio. Ne ho tratto una nuova immagine del poeta, del suo idillio in versi ed anche di Cantor, che a suo modo pure ha tentato di di-mostrare ciò che già era effettivamente presente nelle parole di Leopardi.

     E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo di Davide Rondoni (Fazi Editore, Roma 2019, pp.166, euro 15) non è un testo di critica filologica-letteraria come si potrebbe auspicare dalla bella copertina, in cui il manoscritto autografo dell’Infinito si offre immediatamente alla vista del lettore. Rondoni propone piuttosto una passeggiata intorno all’infinito, il suo è un perì apeìrou alla maniera greca, un dialogo a più voci, in cui l’autore esplora e scopre con il lettore qualcosa di profondamente umano, di sorprendentemente quotidiano, nell’esperienza dell’infinito.

  Molti pensano che l’idillio leopardiano sia una poesia di pura estasi o quasi di geniale rimbambimento, qualcosa come un’istantanea fotografica, un lineare momento di rapimento e naufragio.

  Invece succedono un sacco di cose nel corpo e nel testo di questa poesia. […] Molti pensano dunque di conoscere L’infinito. Anche io lo pensavo. Invece si scopre sempre qualcosa. (p.21)

   Ed io ho scoperto che molti sono gli infiniti che Leopardi osserva, ascolta, contempla, insegue nella totalità di un’esperienza, quella poetica, che non lascia fuori nulla del corpo e nulla del pensiero: infinito è lo smisurato «sempre» dell’incipit «Sempre caro mi fu», in cui si nomina l’intensità di un rapporto affettivo, quello che ognuno di noi conserverà «per sempre» con i luoghi natii, infinito è «l’ultimo orizzonte» che non possiamo vedere, e tuttavia presentire nella potenzialità di un progetto, o di un’ulteriorità segnata e segnalata da un limite, «questa siepe», che copre ed allo stesso tempo dispiega «interminati spazi», che altro non sono per noi che innumerevoli possibilità di realizzazione, perché, afferma Rondoni:

Forse avviene qualcosa di simile a quanto dice Pavel Florenskij: «La persona è un infinito in atto che si deve svelare, è un infinito in potenza che deve crescere». (p.145)

   Infiniti sono ancora «la profondissima quiete» e «i sovrumani silenzi» che l’immaginazione non può concepire, perché il suo dominio è la visione, che sorge e si consuma nel suono della vita:

Il suon di lei… Dell’epoca, dell’attualità. La vita ha un sound, un ritmo, una canzone. Ogni lingua lo ha, Leopardi ne scrive. E la presente e viva non ha il medesimo di ieri. Sotto, per così dire, c’è il silenzio, quell’infinito e sovrumano silenzio. (p.157)

   Leopardi, come il Cantor delle mie ore di studio, solo qualche anno prima del matematico tedesco - che «aveva cercato una via per considerare un infinito in potenza e un infinito attuale» -, scopriva che l’infinito può darsi come la qualità di un rapporto, il quale non è necessariamente un fatto misurabile, e che pure accade come un avvenimento-segno del nesso indissolubile che lega visibile e invisibile.

     E come il vento, scrive Rondoni con il poeta di Recanati, e forse si potrebbe dire che «è come il vento» l’infinito che si fa presenza nella poesia di Leopardi. E come il vento Rondoni soffia sull’Infinito, lasciando che esso sia così com’è, senza nessun appesantimento, senza nessuna pedanteria. Ci gira intorno, lo porta nel fatto autobiografico, nel ricordo di vicende personalissime, ora cedendo al proprio sentire, ora ritrovandolo in una delle tante epifanie che punteggiano il quotidiano, lungo un sentiero dall’andamento circolare, in cui l’infinito diviene centro e punto equidistante da ogni altra possibile pista tracciata dal pensiero.

    «Il pensiero umano somiglia a Napoli» - dice Rondoni -, ricordando una città in cui Leopardi scelse di abitare fino alla fine dei suoi giorni. Il pensiero de-linea circuiti, tratteggia itinerari imprevedibili, a volte smarrendosi in un «naufragio» che prima «spaura», poi «è dolce», perché destinato a ritrovare una rotta, a cavarsela ancora una volta.

 

Martina Dell'Annunziata

 

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