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I masticatori di stagnola, di Guglielmo Aprile

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Guglielmo Aprile

I masticatori di stagnola

LietoColle, 2018.

 

Molte, tra le centinaia di raccolte di poesia che annualmente vengono proposte si presentano ben confezionate e con l’abito in ordine. Due ingredienti sono però merce rara (e lo dico da lettore generalmente benevolo e grato a molti autori per i loro versi): da una parte la capacità di emozionare, da non confondere con uno stucchevole emozionalismo, di portare la filigrana o gli squarci di sofferenze o gioie necessarie; dall’altra: il coraggio. Il coraggio di sporcarsi il vestito, di uscire fuori da un dettato misurato, di rinunciare a priori allo svolgimento di un compitino plausibile.

 

Anche con quest’ultima raccolta, I masticatori di stagnola - scomoda già dal titolo, per la dispercezione che immediatamente genera – Guglielmo Aprile mostra invece il coraggio di una parola poco incline al modulato sussurro e percorsa dalla stessa feroce tensione che animava come un soffio rauco il Golem delle due precedenti raccolte L’assedio di Famagosta (LietoColle, 2014)[1] e Il talento dell’equilibrista (Giuliano Ladolfi Editore, 2018).

 

La serie dei testi, un’ottantina in totale, è suddivisa in tre sezioni, ma nella raccolta la scrittura e il grigioscuro sentimento che la permea, sono piuttosto unitari. Aprile ha ormai assunto uno stile ed una poetica riconoscibile ed è facile ritrovare almeno due delle caratteristiche strutturali, già presenti nelle precedenti raccolte.

 

La prima: il ritmo è fratto, rinuncia ad ogni musicalità, ma questo appare assolutamente funzionale a quanto espresso, perché sarebbe stridente e fuori luogo, tra “betoniere”, “catrame”, “fogne”, “ossa” ecc, una primazia lirico-musicale. Il poeta costruisce una antipoesia per narrare “l’antivita”(p. 74), per rendere il suono del ruminio di una balla di stagnola (p. 70). Attenzione, il masticatore non disconosce il dettato alto, ma lo usa deliberatamente per contrasto a quello che vuole essere il raggrumarsi della propria disperazione, nichilista e claustrofobica. Si leggano, ad esempio, alcuni eleganti versi di chiusura:

 

«e infine un luogo da cui non si torna» (p. 27):

«siamo nulla che fa ritorno al nulla» (p.36)

«e correvamo fianco a fianco al fuoco» (p. 33)

 

A una prima lettura alcuni passaggi appaiono talora enigmatici, come se il poeta seguisse riferimenti propri e per se stesso: un esempio, ne Il dio giusto (p. 94) si legge: «Gli ultimi modelli di pantaloni da donna/ sono la causa principale/ di attentati a sfondo terroristico/ e lungaggini nella richiesta di passaporti», senza che nel prosieguo del testo siano dati al lettore facili possibilità di collegamento, ma, invece, porti altri incisi slegati: «Non c’è poi da stupirsi/ per la professionalità discutibile/ dei conducenti di linee interurbane». Conoscendo la scrittura di Aprile, e approfondendola in questo ultimo volume, questo snodarsi si rivela invece uno dei meccanismi tipici delle sue composizioni. Infatti, la seconda peculiarità che si ritrova in molti testi (forse meno numerosi che ne Il talento dell’equilibrista), è la costruzione per segmenti subentranti, micrometafore inanellate, incalzanti sulla medesima incudine, con angolature diverse. Esemplare il seguente frammento (Botte bucata. II, p. 23), dove il punto e virgola si fa metronomo:

 

«Sistematicamente li perdiamo/gli accendini appena comprati;/ la pece stagna le doghe di rovere,/ ma una striscia umida segue in scia il carro,/ svuota le scorte; la filettatura/ è usurata e non tiene, ai piani bassi/ già alcuni locali allagati/ in conseguenza di una falla; l’acqua/ che versiamo una brocca dopo l’altra/ non riempie la vasca»

 

che poi vira, come ho prima accennato, per una conclusione netta e fulminante:

 

«solo da morti/ passerà questa sete».

 

La raccolta è permeata da un senso di disfatta ingloriosa, di percorso imo, ma non nell’epica della catabasi e neppure della visitazione delle gallerie ctonie del subconscio, come ne L’assedio di Famagosta. Qui siamo a un piano terra, invaso da quotidianità sperperate, da lordure e dissipazioni, senza dignità alla luce. Il ventaglio lessicale lo mostra bene, la «sabbia» («tonnellate di sabbia») si fa emblema del disfarsi, dell’inutile «annodare fiocchi rossi ai pomelli/ sciolti la sera prima». Se «sabbie», «polveri», «betoniere», «sassi», «asfalti», «ghisa», mantengono una qualche cupa valenza simbolica, da «paesaggio avvizzito», ad un livello semanticamente più diretto quanto scaduto, il «pavimento è cosparso di insetti morti», e si palesa «fra gli scorpioni» un repertorio che scende nel rifiuto, nella scoria: «discarica», «spazzatura», «fogna», «furgone dei rifiuti umidi», «chimo», «guano», «urina rappresa», «smegma» ecc.

 

Una disperante inutile ripetitività dei gesti osservati e compiuti («la cremagliera che replica/ infinite volte il suo gesto»; «un giro dopo l’altro, intorno/ a una panchina vuota»; «lo stesso film in replica ogni sera») fa da controcanto a un nichilismo sofferto e fatalista, che l’esile diaframma dell’autoinganno non può arginare.

 

«ci vuole coraggio a chiamarlo vivere» (p. 32)

«nessuno lo crede/ che appena ieri fummo vivi» (p. 49)

«premi un pulsante oppure un altro,/ tanto la destinazione è la stessa» (p.61)

 

È un nichilismo individuale e collettivo, che assume una rassegnata valenza di biasimo al modus vivendi alienato contemporaneo:

 

«ci accalchiamo, facciamo ressa/ per contenderci l’ombra» (p. 13)

«Ruotano i cieli, senza scopo, come/ fanno le auto la domenica/ intorno ai marciapiedi già occupati» (p. 17)

«Pagare il conto ritirare il resto/ la stessa frase/ un numero indefinito di volte di seguito» (p. 27)

 

Ma la vis della parola, per quanto cruda e indigesta, come un boccone di stagnola, è ancora ciò che salva dal più mortifero livello di negazione: il silenzio. In virtù di questa parola che resiste, che si piega, si sporca, si rumina, la non perduta coscienza di un altro possibile consente ancora, spente le luci di casa e dei seminterrati, tra «fabbricati in demolizione» e «vagoni fuori uso, carbonizzati», di aggirarsi con l’esile fiamma di una candela: «Credo di meritare qualcosa di meglio/ di questo piatto scaldato ogni sera» (p. 94), perché in fondo sopravvive la coscienza che «il sole vincerà sui morti» (p. 19) e che sulla luna «c’è un pianoforte […]/ che non sa nulla/ delle nostra dita unte» (p. 14).

 

Alfredo Rienzi

Settembre 2019

 



[1] Del quale ho avuto piacere di scrivere ne Il sibilo della serpe nera: una lettura de L’assedio di Famagosta di Guglielmo Aprile, in La clessidra, n. 1-2/2016, pagg. 94-98).

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