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al testo di Martina Dell’Annunziata
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Prova d’orchestra, di Federico Fellini (1979).
Un’antica chiesa del Duecento viene allestita ad auditorium per le prove di un gruppo di musicisti. Arriva la televisione a realizzarne le riprese, chiedendo il permesso di intervistare gli orchestrali. Vi si aggiunge anche un sindacalista, a garanzia del rispetto dei diritti di tutti i professionisti presenti. Ma scioperi e proteste contro lo spietato direttore dell'orchestra sono appena dietro l’angolo. Ogni strumento, infatti, ha le sue ragioni per sentirsi il migliore, il più importante, l’elemento (in senso greco, il fondamentale) di cui non si può fare a meno. C’è chi confessa all’intervistatore invisibile che avrebbe voluto girare il mondo, cavalcando il proprio sogno di solista, vivendo della propria arte; e, invece, ci si scopre miseramente aggrappati ad una quotidiana prova di coralità. Se nel cuore di ogni orchestra si agita un desiderio di anarchia e di fuga verso il caos, la musica è un rito di transustanziazione: solo il direttore, despota per necessità e sacerdote per virtù, possiede la chiave che conduce fuori del silenzio senza passare per il rumore, trasformando un complesso di materialità in un’armonia intangibile. Così, l’autorità, dapprima respinta e sovvertita, è presto restaurata. Nel mezzo, un impulso di rivoluzionaria libertà divenuto distruzione, terrore sanguinario e sacrificio dell’arpa, davvero il più “apollineo” degli strumenti musicali. Infine, come un deus ex machina, è una minaccia esterna – una palla di ferro demolitrice lanciata contro una parete dell’auditorium - a rimettere i musicisti in riga e il direttore sul podio, e il concerto può a quel punto ricominciare. Prova d’orchestra di Federico Fellini è quasi un saggio “polibiano”: la rappresentazione estetico-politica (giacché “politica” è ogni forma di pluralità) di un’anaciclosi. Ne viene fuori il ritratto, fellinianamente simbolico, di un’umanità più capace di azioni “circolari” che di svolte, più prevedibilmente contraddittoria che inafferrabile. Ed è forse questo l’unico enigma su cui possiamo riflettere: «Ma dove va la musica quando non suoni più?».
** MD |
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